Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Se per colpa di una borsa dovessi ricordarmi del meglio di noi
“Quella color carta di zucchero.” Coi guanti indosso, il giovane sottrae la borsa allo scaffale, improvvisamente monco della sua discreta presenza. Viene deposta sul ripiano della boutique e il gesto è accompagnato dal tintinnio dei piedini e catenella metallici a contatto col vetro. Dalla parte opposta del tavolo sorrido, pregustando l’acquisto e riflettendo su come questo rituale mondano si carichi ogni volta di sottili valenze religiose.
Dopo qualche mio secondo di pausa, l’addetto alle vendite mi porge la borsa; sul collo l’affanno di chi mi ha accompagnata in negozio per pura necessità di pulirsi la coscienza. Morbida ma allo stesso tempo strutturata, quasi duttile, la sua pastosa pelle di vitello si adagia tra le mie mani, fondendosi tra le pieghe delle dita. Mio marito è accanto a me, muto, le labbra arricciate in una smorfia. Finge di supportare la mia scelta con rapidi scatti di pupille tra l’accessorio e me: l’opaca versione di ciò che un tempo amava più di tutto. Man mano che tra noi sono cresciuti i silenzi, le sue riunioni si sono prolungate fino a tardi e i regali sono diventati una sorta di rito di espiazione.
Sorreggo la borsa a mezz’aria, i pollici verso l’interno e gli indici che puntano in alto, come nell’atto di trovare la perfetta inquadratura. Una polaroid dimenticata in qualche angolo della casa ma la cui immagine è intatta nella mia memoria: la tonalità della borsa mi porta a quel preciso ricordo.
La avvicino al viso quel tanto che basta per non far irrigidire l’addetto alla vendite e nel mentre, quell’estraneo con cui ho condiviso metà della mia vita, si allontana per una chiamata: quel che conta è che l’acquisto costi abbastanza affinché i suoi sensi di colpa vengano azzerati.
L’odore del cuoio mi penetra nelle narici con le sue note legnose, cariche di resina e miele: il sapore di quella estate. I faraglioni erano così lontani che nella foto apparivano minuscoli. Con la pelle scura dall’ozio e l’infrangersi delle onde sullo scafo, la randa e il fiocco gettavano una morbida ombra sui nostri volti. Il garrire dei gabbiani era il sottofondo di conversazioni senza timori come solo tra due persone che si stanno conoscendo possono avvenire. Ben poco sapevamo che presto sarebbero diventati ingombranti silenzi.
La medaglietta con inciso un Pegaso rimbalza sulla pelle azzurrata e splende sotto le luci della boutique. Luci completamente diverse rispetto a quel ricordo dalle vaghe tinte blu marino e sabbia. Luci che mi riportano in una ben più scura realtà.
“Signora, vede la chiusura a V? È il motivo per cui questa borsa si chiama Vela” balbetta l’addetto alle vendite, vedendomi assente con lo sguardo. Mi volto, lui mi sta dando le spalle ed è piegato su se stesso. Nella nostra vita tutto è diventato statico, immobile e anche con la vela delle più grandi, non c’è possibilità che un vento nuovo possa sospingerci verso lidi più felici.
“La prendo” proclamo ad alta voce nel mentre la chiamata con una voce femminile viene bruscamente interrotta.