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Mario Tazzoli: “Perché sono passato dal moderno all’antico”

La rubrica «VITRINE» inaugura la propria collezione di articoli tratti dall’archivio del Giornale dell’Arte con una rarissima intervista a Mario Tazzoli, una delle più significative figure di collezionista, conoscitore e mercante italiano del dopoguerra. Da “Il Giornale dell’Arte” n° 6, ottobre 1983 

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Mario Tazzoli, romano di nascita, nordico di educazione, circa sessant’anni, prima banchiere, poi titolare di una delle più prestigiose e raffinate gallerie italiane del dopoguerra, la Galatea di Torino dove presentò per la prima volta Bacon nel 1958, Balthus e Giacometti negli anni immediatamente successivi, ora a Milano consulente: da 25 anni è uno dei personaggi più appartati ma di maggior spicco nel mercato dell’arte del nostro Paese. E in 25 anni questa è la seconda volta che accetta di parlare con un giornale.

Una rara fotografia di Mario Tazzoli

Mario Tazzoli o La Galatea

Lei è uno dei rari casi di mercante d’arte che ha abbandonato l’arte contemporanea per l’antico. Perché?

Non sono un commerciante, sono più un consulente per collezionisti e per chi mi cerca. Il 70% del mio lavoro è nell’arte moderna ancora adesso. L’ho in parte abbandonata perché l’arte moderna che interessa a me è diventata inadeguata alle mie possibilità ea quelle della maggior parte dei collezionisti italiani. Nell’arte antica, nella quale opera solo col consiglio di amici esperti, credo i migliori esistenti in Italia, ho trovato il piacere della novità. Specialmente nelle arti decorative ci si può ancora imbattere in opere, diciamo, da museo a abbastanza cifre elevate ma non paragonabili a quelle di un corrispondente quadro moderno. Ecco le semplici ragioni del mio mutamento: per mantenere lo stesso livello di qualità.

Che rapporti ha con gli altri antiquari?

Le persone fidabili sono quasi inesistenti. Certo restano dieci amiciti nel mondo e solo con quelli fidanzati mi muovo.

Vi sono molte inadempienze nel mercato antiquario?

In dieci anni non ho mai constatato la quantità di inadempienze degli ultimi previsti.

Insolvenze?

No, no. Mancanza di parola, promettono cose che poi non ci sono, vendono la stessa cosa magari a due persone.

Vi sono grandi antiquari in Italia?

Pochissimi di grandissima qualità, ma ci sono; molto meno nell’arte moderna dove il livello è sempre stato limitato.

È l’assenza di mercanti di classe che ha impedito all’arte contemporanea italiana di avere un ruolo internazionale maggiore di quello che ha?

Sì. Nessun mercante italiano si è occupato di Chirico prima del 1930, quando era giusto occuparsene. Con tutto il rispetto per i mercanti di Morandi, se ne sono sempre occupati in una estensione provinciale, entro 50 chilometri da casa.

Come ci si procura una qualità molto selezionata?

Andando dagli indirizzi giusti, pagando anche molto, avendo forse dei buoni occhi e un po’ di cultura. Niente di più.

Lei ha lasciato Torino, che aveva molto apprezzato il suo lavoro, per Milano. Quali sono le differenze?

Milano è una città più viva, più europea. Con i miei amici ho ancora ottimi rapporti, i miei amici sono rimasti tali. A Milano c’è una maggior quantità di persone che si interessano a cose che interessano a me: ci sono più architetti, più case editrici, un mondo di cultura più numeroso.

Ha dei rimpianti?

Di aver capito Burri tardi. Però poi l’ho capito.

In casa sua si sono visti artisti, per esempio Dante Gabriele Rossetti o Savinio, assai prima che in qualsiasi altra collezione o galleria.

Altre cose le ho capite in tempo: Gorky, Schiele, Cornell. I preraffaelliti li ho quasi totalmente abbandonati, trovo che nel tempo reggono poco. Mi rincresce di non aver avuto mai un quadro di Hopper per mancanza forse di coraggio, né di essere mai riuscito ad avere un quadro di Sargent o di Whistler: due grossi desideri.

Trova differenza qualitativa tra clienti stranieri e italiani?

Enorme, salvo pochi casi, ma veramente pochi. Raccogliere sia pure Morandi a decine io non l’ho mai apprezzato. In Italia esiste un collezionismo che trovo molto provinciale.

Non ritiene di essere troppo severo sui grandi collezionisti d’arte contemporanea italiani? Dopo la celebre triade Mattioli, Jesi, Jucker, abbiamo personaggi come Panza di Biumo…

Salvo alcuni nomi, come quello di Rauschenberg, la maggior parte degli artisti da lui raccolti non mi riguardano. Trovo tuttavia strano che in una collezione che parte dalla pop art non vi siano né Jasper Johns né Warhol. Sul mecenatismo del collezionista Panza che conosco appena ho delle idee del tutto personali: questa specie di pubblicità continua della collezione la trovo abbastanza criticabile. Non soltanto ha acquisito il castello di Rivoli ma voleva sistemare il castello di Vigevano per ospitarne una parte. In un paese dove si è pieni di opere d’arte inesposte, mi pare francamente eccessivo.

Perché ha sollevato delle obiezioni alla mostra di Bacon alla Pinacoteca di Brera?

Non capisco perché un museo della ricchezza e della bellezza di Brera, dove prima di tutto ci sarebbero moltissimi quadri antichi da pulire e da restaurare, debba affannarsi tanto ad acquisire pittori contemporanei. Bacon è l’artista vivente che forse amo di più, ma non vedo perché debba essere esposto a Brera e non in un museo di arte moderna. Agli Uffizi non ci sono quadri d’arte moderna, alla National Gallery di Londra neanche. Ognuno faccia il suo mestiere.

E vero che lei non è d’accordo con la tesi esposta dal prof. Rossi nel primo numero di questo giornale che nega all’opera d’arte la qualità di bene rifugio?

All’80% sono d’accordo con Rossi. Non sono assolutamente d’accordo sul fatto che lui dica che il commercio dell’arte non è un mercato: questa può essere una brillante teoria universitaria, ma senza riscontro pratico. Chiederei all’avv. Rossi che si è anche occupato di Borsa di spiegarmi quali sono allora i beni rifugio e se può indicare beni rifugio migliori a chi ha comprato a tempo debito certi artisti, un acquarello di Klee a 300 mila lire o un quadro di Bacon a un milione.

Che cosa pensa della critica d’arte?

Se ho fatto questo mestiere lo devo a un critico, a Carluccio che aveva un pessimo carattere ma che mi ha insegnato molte cose. Per la critica attuale non saprei chi salvare, senza eccezioni. I nomi di moda li trovo veramente nefasti, specialmente agli artisti, al mercato forse no. Fanno tutto per il mercato in fondo. Il professor Bonito Oliva, Calvesi, giovani come il professor Sgarbi non so quanto bene facciano agli artisti. Per fortuna sono vivi Pierre Rosenberg, Szeemann, David Sylve-ster, Rosemblum.

Vuole chiarire i motivi della sua sfiducia?

Mi sembrano dei signori d’assalto che passano dall’antico al moderno, dal futurista al futuribile, che preparano 10 mostre all’anno, che sono onnipresenti, che inventano e sotterrano artisti. I critici seri non sono così. Il signor Douglas Cooper è un vecchio signore che conosce il cubismo come nessuno al mondo, ma nella sua vita ha fatto solo il catalogo di Juan Gris. Il professor Maurizio Fagiolo fa il catalogo di de Chirico, poi quello di Severini, e poi non so cos’altro ancora farà, tutto nel giro di cinque anni. Prima se non mi sbaglio si occupava di arte antica. Trovo veramente geniali questi signori. Il professor Benincasa può passare dagli Etruschi a Giotto e da Giotto a non so quale avanguardia. Sono tutte persone che non ho il piacere di conoscere, ma che da quello che fanno mi producono questa impressione.

Giudica migliore la situazione nell’arte antica?

Gli storici dell’arte apprezzabili si contano su poche dita, ma per fortuna in Italia ci sono nomi tra i più seri al alcuni mondo. Non sta a me lodare Briganti, Gregori, Zeri, Boskovits o Gonzàlez. I problemi che affrontano sono molto difficili e non si può pretendere che gli storici dell’arte siano infallibili. Quelli intelligenti e con buoni occhi sovente arrivano vicino alla verità. Purtroppo, ci sono anche storici dell’arte coltissimi e preparatissimi ma ciechi.

La vanità dello scopritore

Prova un po’ di vanità per aver compreso certi autori prima di altri?

Certo, sono vanitoso. Le date contano sempre: contano per i pittori, per i mercanti, per i collezionisti. Venti anni dopo sono tutti capaci di apprezzare un grande artista.

In campo antiquario, ha delle predilezioni?

Per i marmi, per i mobili italiani, non certo per quelli francesi del XVIII sec .

È favorevole al gran numero di mostre pubbliche che vengono attualmente organizzate?

In Italia si spendono soldi per la cultura solo perché si è scoperto che politicamente serve. In quanto alle mostre, non vedo perché si deve spendere così male moltissimi quattrini per lo più pubblici ma anche di sponsor ignari per delle cose completamente deteriorabili, in particolare per degli allestimenti che, finita la mostra, sono distrutti.

Per esempio?

Per molte mostre grasse a Milano. O per la mostra di Calder a Torino. Da alcuni italiani acculturati, dopo la mostra di Manet al Grand Palais, ho sentito critiche per il fatto che non c’era allestimento. Questo trovo lo comico: illuminazione degli ottimi muri e un’ottima illuminazione sono più che sufficienti se quello che vogliamo vedere è Manet. Il posto in cui sono state fatte le più belle mostre d’arte antica in Italia è Villa Medici dove l’allestimento è inesistente. Ma non sono state fatte da italiani!

Presentazione a parte, non ritiene che queste mostre allarghino comunque l’udienza delle opere d’arte?

Si danno delle mostre, anche difficili, a persone che non hanno mai avuto alcuno strumento per essere preparate. Di carattere sarei elitario e non sono affatto americanofilo, ma apprezzo che gli americani i loro musei se li sono voluti fare in 150 anni pagando tutto quello che c’è dentro. Trovo ciò molto rispettabile: non hannoto né da case reali né dai papi. Non critico la mostra di Calder. Calder è in parte un artista che mi piace molto. Critico che è una città come Torino, dove manifestazioni del genere sono ormai che più rare, presenti una alla maggioranza quale la maggior parte del pubblico è totalmente impreparata.

L’iniziativa privata può fare meglio di quella pubblica?

Prendiamo Palazzo Grassi a Venezia: appare come una istituzione privata. Non so fino a che punto lo sia, ma si potrebbe sperare che avendo una facciata privata fosse poi più libera. Il suo più grande successo è stata una mostra di Picasso di pessima qualità gestita da un mercante straniero, altre mostre hanno più o meno gli stessi difetti, ovviamente non tutte. Le iniziative Olivetti sono tutte apprezzabilissime, magari ce ne fossero! Temo che adesso si facciano spendere soldi in sponsorizzazioni non necessarie. Sovente gli sponsor non sono correttamente informati di cosa sarebbe più logico.

Che cosa pensa delle mostre antiquarie?

Sovente sono indecenti. D’altra parte, la politica culturale è tale che gli antiquari che hanno delle cose di qualità, perché non sono invogliati a esporle per paura di notifiche.

Il mercato antiquario italiano offre ancora opere notevoli?

Raramente, per quanto l’Italia sia un paese nelle cui case ci sono ancora moltissime opere di grande qualità che ogni tanto possono comparire sul mercato.

Perché non si è mai occupato di artisti giovani? Lei in realtà potrebbe essere definito un antiquario di arte moderna.

Non ho il carattere adatto e lo trovo di una responsabilità enorme. Non vedo a che titolo potrei consigliare a un artista di seguire una linea piuttosto che un’altra. Vedo che lo fanno in molti e così male. I risultati più recenti della cosiddetta transavanguardia sono quelli per me più facilmente giudicabili. Mi si poteva dire che non capivo i concettuali e posso anche accettarlo; salvo poche eccezioni, infatti non mi interessavano affatto. Ma della transavanguardia fanno parte dei signori che dipingono: olio su tela a pennello, e allora lì è più difficile imbrogliare. Trovo che sono persone completamente prive di idee originali che dipingono con una qualità pessima. Ho visitato la mostra Zeitgeist a Berlino e mi è bastato.

Tuttavia, c’è qualche giovane che la interessa?

Non più tanto giovani. In Italia comunque n. Trovo che l’Inghilterra è sempre un paese con artisti rispettabili, da Hamilton a Freud, a Michael-Andrews, allo stesso Hockney. Mi paiono più maturi e personali dei nostri.

Torino negli anni in cui lei vi operava era la città «pilota» nel campo dell’arte. Da lei si è formato un mercante di grande reputazione come Gian Enzo Sperone. Entrambi ve ne siete andati da Torino. Che cosa c’era di diverso a Torino allora rispetto ad oggi?

Il mondo dell’arte, il lavoro della casa editrice Einaudi, se si vuole anche «La Stampa» di De Benedetti sembravano delle cose vive, più avanti del resto d’Italia. Mi pare che tutto sia crollato col centrosinistra. Un critico come Carluccio non ha più trovato a Torino lo spazio di cui aveva bisogno perché i piemontesi erano pieni di timori, fra il centrosinistra e la paura del comunismo, come se fossimo stati nel 1921.

Questa è la bella. Ma l’inizio? Perché proprio a Torino c’era stato quel momento? Torino è un po’ il vicereame della Fiat e la borghesia torinese è una corte che facilmente imita e ripete le scelte della famiglia Agnelli.

Gli Agnelli posseggono dei bellissimi quadri. Si possono fare degli appunti su quello che la Fiat non ha fatto per l’architettura, ma non basta a spiegare perché da allora in quella città non sono capitate più cose.