Capsule Digitale

Pinakothek (Vol. 7/10)

Dal 2007 al 2009 ho gestito un blog chiamato Pinakothek dedicato all’”estrazione”: opera di uno o più membri anonimi dei Resurrezionisti, un gruppo oscuro dedito a trovare la poesia nascosta nelle opere degli autori più prosaici. I membri non hanno mai reso pubblica la loro identità, anche se le voci volavano durante il loro periodo di massimo splendore, dalla fine degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta.

Alcuni elementi che posso sopportare di rileggere sono raccolti in questa serie.

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“Sulla parete, o almeno di fronte ad essa, c’era una specie di sudario, un telo bianco che si increspava in modo inverosimile nell’aria immobile e che emetteva una specie di suono stridente come se fosse un nylon con una forte carica statica. Confesso di averne paura, anche se sapevo che era meglio così. Di riflesso cercai la croce d’argento che avevo al collo, come se stessi affrontando un vampiro. Mi costrinsi ad afferrare la stoffa, a tirarla indietro, ma nell’istante in cui lo feci si dissolse in macchie nella mia mano. Poi la cosa che c’era dietro cadde in avanti e mi colpì in faccia. Era un’immagine su metallo, un tintype, apparentemente il ritratto di una donna. Uno dei suoi occhi sembrava galleggiare fuori dalla testa, ed era circondata da una nuvola di ciò che sembrava… scrittura, o disegno, o forse scale musicali.”

Shroud (Sindone)

26 luglio 2008

Nella tarda primavera del 1964, appena laureato al Seminario luterano di Choctaw, in Kansas, fui assegnato dal sinodo al mio primo incarico pastorale, una chiesa nella piccola città di Abelard, nelle pianure del Nord Dakota, vicino al confine con il Canada. La mia auto era morta da poco e anche mio padre, opportunamente, avevo ereditato la sua Buick Century Riviera coupé del ’55, che a quei tempi era un’utilitaria, visto che aveva solo due porte. L’auto era certamente abbastanza grande per me. Gettai la mia sacca e una scatola di libri nel bagagliaio, smontai l’antenna e feci funzionare la radio, chiesi a Don di Sheffly di dare un’occhiata alle gomme e ai livelli dei liquidi e partii. Avevo tutto il tempo necessario. La congregazione stava ancora festeggiando il pensionamento del pastore in carica e mi aspettavano solo dopo il 4 luglio. Avrei potuto starmene seduto a casa dei miei genitori per qualche settimana, ma ero irrequieto e tutti i miei amici stavano iniziando la loro vita adulta nelle città costiere, così decisi di percorrere a zig-zag la mia strada verso nord-ovest in modo tranquillo. Potevo vivere di pane e burro di arachidi e dormire sul sedile posteriore, che era più comodo.

Fu subito evidente che il percorso era monotono e che, per quanto lentamente guidassi, sarei comunque arrivato ad Abelard nel giro di una settimana. Avrei dovuto capirlo in anticipo, naturalmente, ma non avevo viaggiato molto al di fuori della mia regione e avevo ancora in testa una mappa illustrata che doveva molto alle immagini dei libri che avevo letto da bambino. Immaginavo che ogni tratto di strada avrebbe incluso uno specchio d’acqua, una catena montuosa, una foresta, una città e una locanda dove mi sarei fermato per rifocillarmi e per incontrare un cast di personaggi colorati. Nessuna di queste cose era prevista… dappertutto, a quanto pare. Così decisi di perdermi. Cominciai a girare a caso e all’improvviso, puntando ora a sud, ora a ovest, ora di nuovo a nord. Dopo due giorni di questo modo di procedere e con una segnaletica così irregolare da non avere idea di dove mi trovassi, mi accorsi, piuttosto tardivamente, di essere quasi senza benzina.

Ero in pianura, come dall’ora della partenza. La strada era dritta come un metro, il paesaggio piatto come una tavola da stiro. Grandi campi di tempo si estendevano in lungo e in largo nel cielo: un fronte basso di là, il sole di là, di fronte a me una serie di alte nuvole gialle così massicciamente tridimensionali che potevo immaginare gli angeli che vi si aggiravano sopra e che pizzicavano le loro cetre negli anfratti. Non appena mi sono liberato dalle mie fantasticherie e mi sono reso conto che quello che vedevo era una testa di tuono, il temporale si è abbattuto su di me con una certa violenza. Grandinava, con pietre così grandi che temevo per il parabrezza. Sembrava che una squadra di uomini forti stesse colpendo la mia auto con martelli a sfera. La visibilità era quasi nulla, ma davanti a me riuscivo a scorgere alcuni edifici. Il primo alla mia destra era una casa vittoriana decrepita che aveva una specie di prolungamento a forma di capannone sul lato, in pratica una tettoia per le auto. Senza chiedere il permesso a nessuno, entrai in macchina e parcheggiai sotto di essa.

Rimasi lì per più di un’ora, aspettando il temporale, sentendomi improvvisamente turbato. Il mio cuore, senza alcun motivo apparente, stava accelerando. Mi costrinsi a scendere dall’auto – vidi che la carrozzeria presentava alcune nuove ammaccature, che però si confondevano con quelle vecchie – e notai che l’acquazzone si era attenuato fino a diventare una pioggia leggera. Rientrai e girai la chiave. Non successe nulla. Ero senza benzina. Maledicendomi, ma grato di trovarmi in un qualche tipo di insediamento, decisi di vedere se qualcuno mi avrebbe lasciato travasare un gallone e mi avrebbe indicato la strada per la stazione di servizio più vicina. Il borgo aveva decisamente visto giorni più vivaci. C’erano altre tre vecchie case, un edificio con grandi finestre sporche che presumibilmente era un negozio e una chiesa di legno a cui mancava la metà superiore del campanile. Non si vedevano veicoli in giro. Bussai alla porta della casa che mi aveva ospitato. Nessuna risposta. La stessa cosa accadde alle altre case. Il negozio era chiaramente chiuso, anche se riuscivo a scorgere le sagome fioche dei generi alimentari sugli scaffali.

La porta della chiesa era aperta ed entrai. La prima cosa che notai fu che, sebbene fuori l’estate calda e afosa delle pianure fosse già in atto, all’interno l’aria era fresca come una grotta. La chiesa sembrava non essere stata utilizzata negli ultimi anni. C’era una spessa e vellutata patina di polvere su ogni superficie. I libri degli inni erano ammuffiti. La tovaglia dell’altare era a strisce, come scorticata. In alto, la croce spilungona aveva perso il chiodo superiore che la fissava al muro e pendeva a testa in giù. Me ne andai e cominciai a girare sistematicamente intorno alle case, ispezionando i loro annessi, ma tutto ciò che riuscii a trovare furono un antico camioncino e un’auto da turismo ancora più vecchia – credo fosse una Pierce-Arrow, anche se la targhetta era sparita -, entrambi con i serbatoi di carburante prosciugati. Alla fine decisi di vedere se riuscivo a trovare un telefono.

Mi aspettavo di trovare le case vuote, in realtà, ma la prima che provai – la casa in cui mi ero riparato accanto – era aperta come la chiesa, fredda e arredata in modo altrettanto decadente. Il salotto era un tripudio di tappeti, sedie imbottite, tendaggi e scaffali di cianfrusaglie, tutti variamente strappati, cadenti, rotti e ricoperti da strati di polvere unta. Il pianoforte sembrava intatto, ma quando ho provato a schiacciare qualche tasto, il risultato è stato un suono simile a quello di un metallo lacerato. Il tavolo da pranzo era apparecchiato per sei persone, con calici di vetro tagliato e piatti dorati, ricoperti da ragnatele. Sorprendentemente, sembrava che ci fosse stato del cibo sui piatti quando erano stati abbandonati. L’unica traccia lasciata era un residuo di terra su ciascuno dei piatti, insieme a una serie di ossa. Anche le mosche erano sparite. Anche la cucina era piena di segni di attività: ciotole, frullini, teglie, taglieri e coltelli, tutti sui banchi, tutti coperti di polvere e come mummificati. Sembrava che nell’aria ci fosse un alone giallastro.

Al piano superiore, le camere da letto erano in condizioni analoghe. Le trapunte e i materassi di crine erano così decaduti da sembrare escrescenze alla base di un albero. Avevo cercato di non toccare nulla, ma poi sono inciampato in un angolo di un copriletto e sono caduto sul letto matrimoniale, che è stato sommerso da una pioggia di polvere e da un odore che sembrava di dente di leone ed emanava un odore di senape rancida. Il materasso e le lenzuola cedettero completamente e io atterrai, pesantemente e dolorosamente, sulle molle. A quel punto sarei corso fuori di casa e avrei cercato di fare l’autostop fino a una stazione di servizio – anche se ero improvvisamente consapevole di non aver visto un’altra auto da ore – ma ero davvero ferito, con il petto lacerato e il fiato corto. Ed ero stordito, non solo per la caduta, ma anche per tutto quello che avevo assorbito. Mi sentivo un po’ strana. Mi ritrovai a pensare che vedevo del movimento con gli angoli degli occhi e che sentivo una specie di musica ovattata.

In realtà, entrambe le impressioni avevano la stessa fonte. Sulla parete, o almeno di fronte ad essa, c’era una specie di sudario, un telo bianco che si increspava in modo inverosimile nell’aria immobile e che emetteva una specie di suono stridente come se fosse un nylon con una forte carica statica. Confesso di averne paura, anche se sapevo che era meglio così. Di riflesso cercai la croce d’argento che avevo al collo, come se stessi affrontando un vampiro. Mi costrinsi ad afferrare la stoffa, a tirarla indietro, ma nell’istante in cui lo feci si dissolse in macchie nella mia mano. Poi la cosa che c’era dietro cadde in avanti e mi colpì in faccia. Era un’immagine su metallo, un tintype, apparentemente il ritratto di una donna. Uno dei suoi occhi sembrava galleggiare fuori dalla testa, ed era circondata da una nuvola di ciò che sembrava… scrittura, o disegno, o forse scale musicali. Era difficile capirlo nella luce fioca. Stringendo il quadro, senza alcun motivo, riuscii in qualche modo a uscire di casa senza che le scale o le assi del pavimento cedessero sotto il mio peso. Non ricordo molto di ciò che accadde dopo. Quando ripresi piena coscienza, stavo porgendo una banconota da cinque dollari al fattorino di una stazione Sinclair di Heliopolis, nell’Illinois. Alle sue spalle notai il calendario a strappo dell’ufficio. La data era il 7 luglio 1965.