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Arbasino: istruzioni per l’uso di mostre e musei

Dopo la pubblicazione per i Saggi Blu di Garzanti, della monumentale raccolta «Il meraviglioso anzi», il più infaticabile viaggiatore dell’arte racconta il suo spirito da «grand tour» e descrive magnificamente il sistema dell’arte. Da “Il Giornale dell’Arte” n° 25 , luglio 1985

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Perché le mostre

Dottor Arbasino, lei è oggi quasi il maggior visitatore italiano di mostre. Ricorda ancora la «prima volta»?

Le prime che mi sono rimaste impresse sono quelle di Crivelli a Venezia e di Mantegna a Mantova. Si va indietro di un quarto di secolo o di più, ma per me sono state le prime grandi mostre in Italia.

Se visitare le mostre può essere una professione, lei è un visitatore. Perché in marchette si lascia definire «dilettante»?

«Dilettante» nel senso del XVIII secolo. Come quando si diceva anche «virtuoso». Uno che fa le cose per diletto intellettuale, e non per obblighi burocratici o di carriera. Ma forse era una copertina troppo ironica, per un libro di cultura. C’è poca ironia, in giro.

Un tempo si viaggiava, per non perdere certi spettacoli. Oggi ci si muove per le mostre. Perché? Che cosa è cambiato?

Perché gli spettacoli interessanti sono molto più rari, da qualche tempo. E poi, chi ha visto ormai parecchi Edipi Otelli e Laghi dei cigni, belli e brutti, si mette in viaggio se uno spettacolo non è proprio straordinario, e non vale tutte le fatiche e le spese, le prenotazioni, i rinvii, fra aerei pieni e alberghi esauriti… Le mostre di grande qualità sono diventate più frequenti, invece, e attraggono soprattutto quando riuniscono una serie di capolavori che si vedono insieme quella volta o mai più.

Adesso o mai più è dunque un requisito essenziale di una mostra?

Nella mostra di Matisse a Zurigo qualche anno fa, essendo chiuso il Moma a New York per lavori di ampliamento, erano riuniti molti quadri di solito esposti appunto al Moma, altri venivano dai musei russi e altri ancora da collezionisti privati, per lo più svizzeri, che di solito non prestano volentieri. Non era un panorama esauriente delle opere più importanti di Matisse, d’accordo, però riuniva dei capolavori tali che non si sarebbero mai più potuti vedere sulla medesima parete.

Viaggiare per mostre non è sempre di più una fatica enorme?

Negli anni ’60, mostre, teatri, aerei, alberghi, mezzi di trasporto, erano molto più facili e costavano poco… Negli anni ’50 abitavo a Milano e agli spettacoli della Callas, già allora celebratissima, non si prenotava mai, ci si va come al cinema, e così alle mostre. Adesso disturba non solo la coda enorme – questa la si può anche sopportare – ma la ressa davanti ad ogni quadro: ci si sente come su un tapis roulant affollato. E i quadri importanti sono diventati inaccessibili all’occhio.

Ha dei consigli pratici per i visitatori?

Solo consigli terra terra, proprio consigli di sopravvivenza: cercare di andare nelle controre, quando non c’è troppa gente, e i gruppi e le scolaresche stanno mangiando. Fuggire le inaugurazioni, tradizionalmente affollatissime. All’apertura in Campidoglio della mostra «Da Cézanne a Picasso», già assediata dalla calca a Venezia e a Lugano, la marea delle teste rendeva invisibili le opere, appese a pannelli in sale non grandi, con pareti già piene di manufatti illustri che sono da sempre lì. Essenziale, anche per memorizzare, è rifare il giro due o tre volte, magari nel senso contrario, a costo di alterchi con i custodi, come in quei musei americani dove ogni ora viene ammesso un numero fisso di visitatori, e quindi, usciti da una sala, non vi si può rientrare. Ma certe scelte sono dure: a Napoli, in una sola giornata, si fa prima Caravaggio o prima Cavallino?

È meglio visitare le mostre da soli o in compagnia?

Qualcuno ha detto che le massime stupidaggini si sono sentite davanti a capolavori esposti nei musei. Le peggiori, credo che siano le esclamazioni dei francesi quando si sforzano di dire la battuta intelligente.

Le danno fastidio i commenti degli altri?

No, le resse rendono così difficile soffermarsi sui dettagli, che vanno benissimo le sollecitazioni e i suggerimenti. Richiamano l’attenzione su aspetti che magari sfuggono.

Perché la gente va alle mostre ma non nei musei?

Non si può non notare la differenza smaccata fra le code enormi, le file, le folle smisurate per mostre anche pregevolissime e il deserto nei musei. Lo scorso giugno, un sabato pomeriggio, sono andato a Firenze per la mostra di Arnaldo Pomodoro. Avevo sentito, per mesi e mesi, di queste folle pazzesche davanti a Palazzo Pitti per vedere la mostra dei Raffaello restaurati, per il centenario, in cui non si faceva altro che riunire in una sala i 9 o 10 Raffaello di Firenze. La domenica mattina, da un albergo che era vicino all’autostrada, con alcuni amici ci siamo detti: andiamo a Firenze. Pensavamo che entrare in Firenze sarebbe stato difficilissimo, che ci sarebbero state delle file pazzesche agli Uffizi, che non avremmo né parcheggiato né mangiato… insomma, avevamo fatto previsioni catastrofiche. Invece, siamo entrati agli Uffizi ed era vuoto, non c’erano code, abbiamo rivisto benissimo gli Uffizi, abbiamo trovato tutti i Raffaello, uno dopo l’altro e anche altri quadri appena restaurati. Evidentemente i fiorentini erano al mare, però si paventavano i turisti. A Pitti si è ripetuta la stessa cosa, si è parcheggiato dove si voleva, abbiamo visto in grande pace tutti i Raffaello, che invece, proprio lì a Pitti, avevano richiesto fatiche, code e file, e alla fine per andare a colazione abbiamo addirittura potuto scegliere se parcheggiare in via Tornabuoni nel lato del sole o nel lato dell’ombra. I quadri, nei loro musei, spesso si visitano benissimo; nella loro sede naturale, a posto, restaurati, senza tanta gente che corre all’avvenimento.

L'incoronazione di ABO

Non pensa che questa voga delle mostre sia transitoria come tutte le voghe?

Resto allibito di fronte a questi entusiasmi così smisurati, di massa e di culto. In Italia si potrebbe pensare a un’opera di suggestione intensissima da parte dei giornali, che dicono: dovete far questo, è obbligatorio questa settimana andare tutti a questa mostra… Ma poiché avviene lo stesso anche in altri Paesi, dove non c’è questa campagna martellante dei giornali, è evidentemente un fenomeno che va al di là della suggestione. Quello che si può pronosticare è però che le gite scolastiche, con degli insegnanti entusiasti, ma anche dementi, che sospingono questi ragazzini, che non ne vogliono sapere, a vedere mostre anche abbastanza difficili e noiose, porterà a un disinteresse per l’arte, a un distacco totale, nelle prossime generazioni. La mostra del ‘600 napoletano a Capodimonte, ad esempio, era una mostra difficilissima, non una mostra di capolavori caravaggeschi come l’attuale, o come quella che due anni fa ha girato alla Royal Academy di Londra, in America, al Grand Palais e a Torino. Era una mostra documentaria, con molti quadri mediocri, una serie di documenti e di testimonianze che servono all’erudito o allo studioso, ma che non sono oggetto di contemplazione gratificante, la pittura lugubre di un’epoca tetra, con la peste, e le eruzioni, e Masaniello, e quei santi tremendi di Ribera che non credo possano essere oggetto di soddisfazione immediata per dei bambini di dieci anni.

L’infelicità smisurata di questi bambini sospinti dagli insegnanti, non può non allontanarli per sempre dall’arte. Qualche anno fa, quando c’è stata a Firenze la mostra in diverse sedi dell’Età dei Medici, era di moda un giochino di pallette che si scontravano e facevano tac, tac, tac! Tutti i bambini, non appena fatta la coda ed entrati in una sala dove c’erano le testimonianze del mecenatismo dei Medici o delle scenografie per le nozze dinastiche, voltavano le spalle ai capolavori e in mezzo alla stanza facevano il loro giochino delle pallette. E a Capodimonte, se non piove o non grandina, stanno nel parco a giocare con la palla che si portano dietro, e giocherebbero volentieri anche nei saloni. All’esposizione del ‘700, un piccino fa pipì dietro un comò dei Borboni. Si chiama la maestra; e lei, che fumava con i custodi, seccata: «Eh, ma se gli scappa!» A Lugano, c’erano queste lunghe code di bambini disperati alla Collezione Thyssen. Qualcuno chiede: «Da dove venite?» «Da Firenze!» E al maestro: «Ma agli Uffizi, li ha mai portati?» «Eh, no, tanto gli Uffizi ci sono sempre, invece questo c’è soltanto stavolta». Non so se questo tipo di entusiasmo durerà a lungo.

Non c’è una specie di sotterraneo imperativo morale: bisogna andarci perché ci vanno tutti? La sindrome del gregge?

A Castelfranco c’è quell’unica Madonna di Giorgione, che secondo certi esteti di altri tempi stava così bene dov’era in quella chiesa, con una tendina di rayon giallo limone. Per le celebrazioni, l’hanno tolta dalla chiesa, le hanno fatto attraversare la piazza e l’hanno messa in una casa del Giorgione, appena restaurata, da sola, circondata di fotocopie, di diapositive di atti notarili in veneto antico, relativi alla compravendita di stabili e di fondi rustici. Le folle arrivavano colossali e una anziana signora mia amica diceva: «Ma per forza. Tutti i miei conoscenti ritornano entusiasti perché dicono: c’è una coda di macchine lunga 10 chilometri, abbiamo dovuto lasciare la Panda in un fosso, abbiamo fatto una fila di tre ore e per di più non c’era posto nel ristorante e siamo tornati con i bambini che non avevano mangiato». Questo dà la sensazione di essere nel posto “giusto”; dove bisogna essere. L’unica, veramente l’unica cosa da vedere, era la Madonna di Castelfranco: averla spostata aveva provocato le code, prima non ci andava nessuno e adesso non ci va di nuovo nessuno.

Per quanto lei sia un critico non dilettante bensì atipico, come si sente nei panni dello scrittore «facente funzione»?

Leggo più volentieri i critici scrittori, come Diderot e Baudelaire, e fra gli italiani Longhi, maestro (come Contini) di tali malizie stilistiche, invenzioni lessicali, arguzie di linguaggio, da farsi leggere come letteratura squisita. In fondo, spesso la miglior prosa italiana è stata così: estremamente ricercata, elegante, fantastica, aristocratica, intraducibile. E Longhi si gusta come un piacere, come una pietanza meravigliosa. Credo anche di dovere moltissimo alla metodologia, all’espressività, all’eclettismo di Mario Praz, di Bruno Barilli, di Alberto Savinio.

Bonito Oliva nella nostra inchiesta semi-seria «Il meglio dell’84» l’ha indicato come il miglior critico dell’anno. A parte questa sua eccellenza, accetta di essere inquadrato nella categoria dei critici d’arte?

In una civiltà di mass media sempre più commerciali, nonché di erudizione sempre più accademica, le specializzazioni e gli specialismi tendono sempre di più a stabilire confini, delimitazioni, paletti, giardinetti, orticelli… Da parte mia, rimango piuttosto affezionato a quel tipo di «interdisciplinarietà», come si sarebbe detto qualche anno fa, termine un po’ passato di moda, ma che poi è stato un atteggiamento caratteristico degli illuministi lombardi e non soltanto lombardi: fare della critica culturale intrecciando e rimescolando la letteratura, la politica, la storia patria, il linguaggio, le belle arti, la musica, gli spettacoli… Per il suo modo «diverso» di espressività, ho sempre amato Gadda, un letterato insolito che ha fatto il Politecnico ed era ingegnere; del resto, io ho studiato legge e mi sono specializzato in diritto internazionale… Ma forse è l’aura dell’illuminismo lombardo che spinge a fare delle incursioni in diverse aree culturali, e si finisce quindi per stabilire una maglia abbastanza fitta di relazioni, di rapporti, di affinità, e magari di citazioni; ed è poi quello che avviene nella conversazione. Dopo tutto, esiste tuttora nella società italiana, e c’è sempre stata anche in passato, una certa cerchia di persone colte che non hanno un interesse mirato e specifico, ma si interessano a diversi temi e campi della cultura, e si esprimono preferibilmente con la conversazione… La nostra società è piena di conversatori eccellenti che si ascoltano con piacere, e che si esprimono con aneddoti e con paragoni. Qualcosa che cerco di fermare sulla pagina, è questo tono di conversazione intellettuale italiana che ha lasciato poche tracce nella nostra letteratura, così povera di diari e di epistolari. Forse tutto lo spirito veniva impiegato o sperperato nella conversazione colta.

Italiani all'estero

Lei ha più volte espresso il suo apprezzamento per gli artisti italiani degli anni ’60, per esempio per Schifano. Ma non che nelle mostre all’estero siano normalmente sottorappresentati?

Si rimane spesso delusi. Per esempio, sono rimasto delusissimo dalla mostra di Amsterdam dello Stedelijk perché in questo caso, alcune opere italiane degli anni ’50-’60 erano pur state acquistate dal museo…

… quelle di Chia, per esempio…

Anche prima: nel volume parallelo che registrava la politica degli acquisti, figuravano dei Piero Manzoni che nella galleria delle predilezioni, nel museo immaginario, nella «Grande Parade», invece, non apparivano. Sono tanto più deluso perché sono convinto che i miei amori per la nostra neoavanguardia di Piazza del Popolo, degli anni ’60, Schifano e Pascali e Fioroni e Ceroli e gli altri, non erano soltanto un fatto di alleanza generazionale (eravamo giovani e ci volevamo bene) ma reggono benissimo anche prendendo tutte le distanze generazionali e affettive. Mi sembra che siano state consumate delle iniquità nei confronti dei nostri artisti degli anni ’60, e dei favoritismi nei confronti degli artisti degli anni ’80. Questo da un punto di vista di politica culturale dei musei, delle fondazioni e ovviamente dei galleristi e dei mercanti, prima di tutto, e possiamo vedere quali erano le ragioni: negli anni ’60, un certo gruppo di gallerie aveva tutto l’interesse a spingere un’arte soltanto americana, soltanto nazionalistica e patriottica oltre che pop.

Ai non americani, per esempio a Pistoletto e a Schifano, gli si chiedeva di «nazionalizzarsi», di andare a New York e di lasciarsi assimilare.

soprattutto ho l’impressione che allora esponessero coloro che rappresentavano mappe degli Stati Uniti, bandiere, prodotti industriali americani, e altri emblemi di patriottismo; non so fino a che punto questo programma fosse lucido e voluto o invece pulsionale e istintivo. Col senno del poi, però, chi faceva un certo tipo di arte patriottica, fu lanciato, gli altri no.

Adesso la situazione è rovesciata: l’arte è sempre nazionalista ma i capi cordata sono italiani e tedeschi.

Tutte le volte che vedo una mostra di Chagall, ritrovo molta transavanguardia italiana o tedesca. Ho visto la recente mostra di Chagall alla Royal Academy. Al ventesimo violinista sul tetto si aveva la stessa sensazione di monotonia e di ripetitività suscitata dall’altra mostra contemporanea di Renoir, di fronte alla cinquantesima bagnante fatta con gli colori stessi, con le stesse pennellate e con la stessa modella nel medesimo atteggiamento.

Come spiega comunque questo successo italo-tedesco?

Non mi importa abbastanza della politica culturale e affaristica delle gallerie, dei direttori di musei e delle fondazioni che operano in centri degli Stati Uniti che non sono New York e non sono Los Angeles, che hanno quei famosi fondi da spendere entro l’anno fiscale e devono spenderli per forza e quindi si uniformano a un certo tipo di scelte indicato da un gruppo pilota di galleristi e critici. Non voglio sapere per quali calcoli, dopo oltre un decennio di arte minimale o concettuale che non si poteva appendere, vendere, esporre, mettere sulle pareti, si è decretato che bisognava ricominciare a dipingere, grazie anche a mecenati che hanno offerto notevolissimi fondi soprattutto per acquistare quadri da appendere alle pareti, da esporre, da conservare, da tirar fuori dopo dieci anni o vent’anni.

Come nel teatro, per esempio, rispetto agli Stati Uniti, alla Francia, all’Inghilterra, la Germania ha indubbiamente dimostrato una creatività straordinaria, imponente e un po’ intimidente; basta confrontare gli spettacoli mediocri e uggiosi che si vedono a Londra, Parigi, New York, con quelli che si trovano in Germania, tanto più inventivi, maestosi dal punto di vista delle tradizioni viscerali e ancestrali della loro cultura. Evidentemente, i galleristi, che fanno da tramiti abilissimi, hanno deciso di tenere, nei confronti dell’arte tedesca e anche italiana, gli stessi atteggiamenti che hanno i direttori dei festivals di teatro che invitano le compagnie tedesche e italiane. Certo, per quello che riguarda le compagnie o gli artisti italiani, noi qui possiamo vedere le fonti, le origini, le radici, sapere più o meno da dove vengono e dove prendono. Ma tutto questo non importa molto al di là dei confini, dove le nostre radici, le nostre fónti sono sconosciute e dove quindi è il prodotto alla moda internazionale degli anni ’80 quello che conta.

De Chirico però è ormai una miniera primaria anche per molti giovani americani.

L’anno scorso o due anni fa, New York era piena di piccole mostre di de Chirico e di suoi imitatori. Quando morì de Chirico nel ’78 lei scrisse: «E insomma, ecco qui, senza più dubbi, il massimo pittore del Novecento. Giù il cappello! E non avendo il cappello: giù la testa! E non avendo neanche testa: giù tutto il resto!». Tra tanti encomi funebri nessuno fu altrettanto assoluto e tutto sommato chiaroveggente. Ma io l’ho sempre trovato affascinante. Né più né meno come amavamo alcuni maestri del ‘900 nella letteratura, Gadda e Palazzeschi, che anche se non hanno riconoscimenti all’estero rimangono dei punti di riferimento altissimi per la nostra generazione. Non ho mai avuto dubbi sulla grandezza di de Chirico: bastavano le opere importanti per sorvolare serenamente gli ultimi decenni, in attesa di ritornarci sopra.

Ora, da lei sta per diventare attore: in settembre a Torino alla Mole Antonelliana lei firmerà una sua mostra.

Gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea che vogliono cominciare una serie di mostre fotografiche mi hanno chiamato a fare da cavia. Siccome la chiave della mostra è la fotografia vista da qualcuno che non è fotografo e che non si intende molto di fotografia, mi hanno chiesto una proposta. Il primo progetto che viene in mente ma anche il primo a venire scartato, è quello delle testimonianze fotografiche su personaggi che avremmo molto voluto conoscere. Faccio un esempio: quando ero studente di diritto internazionale, passavo dei lunghi periodi nelle Università straniere, a Parigi o ad Harvard o a Londra e bastavano alcune letterine gentili per provocare incontri con personaggi oggi leggendari come Edmund Wilson in America, a Londra Eliot o Forster o la Compton-Burnett, a Parigi Celine, Mauriac, Jouhandeau, Cocteau; in Germania Adorno. Ora non esistono assolutamente più personaggi di questo tipo, perché tutti sono ormai esposti da giornali, da riviste, da televisioni, si sa tutto di tutti, non c’è più nessuno che si ha un vero interesse ad incontrare e se si fa uno spoglio delle personalità più interessanti del mondo, uno sa già dai mass media quello che se ne può ricavare. Quindi, la prima idea per una mostra poteva essere la testimonianza fotografica dei personaggi della cultura, letterati o artisti, grandi personalità a tutto tondo che non esistono più nella società omogeneizzata. Ma una galleria di ritratti risultava, in fondo, risaputa: da Nadar in poi se ne sono abbastanza pubblicati. Allora, l’idea è stata di fare «i viaggi perduti», di ricostruire un grand tour europeo e nel Vicino e Medio Oriente, magari anche in Estremo Oriente, dei luoghi belli che non si potranno mai più visitare perché non sono più gli stessi o sono talmente trasformati e degradati, che non ne è più possibile una fruizione estetica.

Hai trovato materiale idoneo?

È una ricerca molto difficile, perché lo spirito con cui oggi noi facciamo questi repêchages di luoghi, non era quello dei fotografi dell’epoca, degli Alinari in Italia, oppure dei fotografi di monumenti in Francia che si preoccupavano di fotografare la cattedrale, il monumento, il palazzo, il palazzetto, la chiesa, la chiesina, mentre oggi visiteremmo quei posti per vedere quel monumento anche nel suo contesto di case vecchie, dei quartieri storici, di scenette di strada. Per esempio, è difficilissimo recuperare in Italia non Venezia, che è rimasta più o meno quello che era, oppure la Roma sparita, che è stata ben documentata, da Primoli e altri, ma, per esempio, una certa Genova, una certa Napoli, e le «città del silenzio», oppure quei giri, nell’Italia Centrale, che faceva Berenson quando andava per quadri o i vecchi inglesi dell’8OO. Del Centro Italia, di Cortona, Città di Castello, Recanati, della Romagna, delle Marche e della Toscana minore, forse esistono poche testimonianze: ci sono tante fotografie Alinari che sono delle belle cartoline frontali, i monumenti di Gubbio sono rimasti tali e quali, ma quasi nulla di quello che era il tessuto minore dell’Italia, dei suoi monumenti ma anche delle strade, della vita italiana, la provincia fra Leopardi e Landolfi. Una certa Francia provinciale è stata fotografatissima, ma sono rari i paesini e le spiagge di Proust, per esempio Combray e Balbec. Nella pittura tedesca, francese e danese si trovano tanti paesaggini urbani ma nella fotografia molto meno. Per fare un altro esempio, le piramidi sono rimaste le piramidi, ma ai tempi di Flaubert e di Maxime Du Camp, stando al Cairo, per fare il giro delle piramidi che oggi i turisti fanno in una giornata, ci volevano 5 giorni, c’era un certo avvicinamento fra gli orti, poi la Sfinge ancora semi sepolta e il mistero della notte nel deserto intorno, e un’alba pittorica, splendida, nel deserto. Ormai invece la città ha circondato le piramidi, su tutti i lati ci sono strade, la parte ghiaiosa del deserto è stata trasformata in parcheggio con mille macchine e mille radioline, bancarelle di ricordini turistici e piccoli musei costruiti a ridosso di Cheope, che non permettono più di vedere solo Cheope. Il nostro tentativo è di recuperare quel grand tour che avremmo voluto fare, ma che non potremo mai più fare.

La ricerca del mondo perduto…

Sì, ma è difficile trovare belle fotografie di luoghi belli fatte con questo spirito di paesaggio: i fotografi dell’8OO e del primo ‘900 fotografavano volentieri il monumento insigne, tagliando fuori tutto il resto, oppure facevano dei gruppi folkloristici di abitanti del luogo nelle loro occupazioni, tutti in posa, chi con la bottega, chi col cammello. Ci vorrebbero tanti Atget per ogni Milano o Genova, o Napoli… Quello che ci interessa come viaggiatori retrospettivi, è anche vedere quel tanto di tessuto urbano che ci poteva essere a Parigi prima di Haussmann, intorno al chiostro poi rifatto da Viollet-le-Duc.

Alberto Arbasino, ph. di Marisa Rastelli