Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Il 18 dicembre 1983 inaugura il restauro curato dall’architetto Andrea Bruno per la Regione Piemonte del castello javarriano di Rivoli con una mostra-museo di arte contemporanea, internazionale della durata di un anno affidata a Rudi Fuchs direttore del museo di Eindhoven in Olanda e dell’ultima Documenta di Kassel. In questa intervista Rudi Fuchs l’assessore alla Cultura della Regione Giovanni Ferrero* offrono gli argomenti che hanno nutrito l’ambizioso progetto. Da “Il Giornale dell’Arte” n° 17, gennaio 1984
Signor Fuchs, come sarà questo Museo temporaneo?
[Rudi Fuchs] Sono circa 35 sale e quasi tutte conservano un elemento antico: frammenti di affreschi su soffitti e zoccoli, cornici di specchi; alcune sono state ridipinte in bianco, essendo andata distrutta la loro decorazione, ed è una fortuna per noi, altre, bellissime per le loro stuccature e decorazioni importanti, pongono invece dei problemi, dovendo ospitare un museo di arte contemporanea. Bisogna decidere: o diventa un castello restaurato o è museo d’arte contemporanea. Per fortuna questo è un problema superabile. Non sarà ancora un museo vero e proprio, perché un museo è caratterizzato dal possedere una collezione, e qui non c’è una collezione: vi saranno opere d’arte conemporanea, dalla metà degli anni ’60 (da Vedova, Burri, Castellani) proseguendo a livello internazionale con Beuys, Oldenburg, Baselitz, Lupertz, Nauman, Sol LeWitt, Weiner, Kiefer, Richter, Rainer eccetera. Queste opere non vogliono esprimere una determinata ideologia, anche se certamente la critica troverà un’ideologia. Ma questo è solo un inizio, un’«ouverture», così infatti si chiamerà la nostra prima attività. Le opere raccolte non rappresentano un risultato definitivo; esse possono diventare una collezione, ma questo non dipende da me ma dalle operazioni future della Regione Piemonte, e dalla possibilità di trovare i mezzi ed i fondi anche da altre d’Italia e forse fuori. Costituire una collezione è inevitabile, è l’unica cosa che può salvare questo Castello come Museo d’arte contemporanea, anche se occorrerà del tempo, dai 5 ai 10 anni per il suo completamento. Ho trovato all’estero molta attenzione per questa iniziativa di Torino, quando si trasformerà in museo. Un museo ha una crescita lunga. Ma se non si riesce, il Castello rimane un altro spazio espositivo e fra 4 anni vi faranno anche la Mostra dell’antiquariato. La barriera è questa collezione, che lo occupa come un esercito. Le opere ora presenti sono diverse, frutto di diverse formazioni e formulazioni: vi sono italiani come An selmo, Penone, i due Merz, Paolini, Pistoletto, Kounellis, Fabro, de Dominicis, Boetti, Zorio; giovani come Clemente, Cucchi, De Maria; un gruppo americano, che spero includa un quadro di Stella; oltre a quelli già detti, lavori di Ryman, Carl Andre, Judd, Richard Long, Gilbert & George, Dib-bets, Nitsch, Polke, Brus, Schnabel, Kirbeby e altri ancora. La collezione non ha una sua completezza, perché non è una mostra. Ora io non parlo dello stato dell’arte attuale, ma parlo della possibilità di fare in questo Castello una presentazione di opere che possono arrivare a far parte di una collezione.
Ma le opere scelte, potrebbero già essere i pezzi di un museo definitivo?
[RF] Sì, certamente, anche se c’è qualche problema. Per esempio, Robert Ryman non aveva quadri disponibili, dal momento che a un quadro lavora sei mesi; così è avvenuto per altri, la cui produzione è esigua o impegnati per altre mostre, che non hanno potuto darci qualche loro opera per un anno. Perciò in qualche caso, abbiamo preso delle opere che poi cambieremo, non appena l’artista avrà pronta un’altra opera. Questo Castello, come spazio, è terra sconosciuta; i casi cui ho accennato, sono molto seducenti, ma pericolosissimi. È lo spazio che deve decidere: in una parete di otto metri con una finestra a sinistra, forse è meglio mettere un solo quadro di due metri, perché più di uno starebbe male. Bisogna studiare tutte le possibilità di questo Castello, costituire un museo non significa solo portare dei quadri e collocarli su alcune pareti, ma è anche cercare un modo di presentarli. Si può dare il caso che determinate sale siano meno adatte per l’esposizione di sculture. Normalmente, in altri musei, la scultura è in minoranza.
Ad Reinhardt diede questa definizione della scultura: «La scultura è quella cosa che ti tocca quando fai un passo indietro per guardare un quadro». Ma il Castello forse richiede una maggiore presenza di sculture, questo va studiato. Perciò nel corso dell’anno avverranno dei cambiamenti; magari anche di tutto l’allestimento. Una collezione, come idea, non rimane una cosa morta: una collezione è qualcosa di vivo, è uno strumento di ricerca, di presentazione, di sogno, e con 4 quadri e 2 sculture si possono allestire sale completamente diverse, con atmosfere diverse. Delle sale con stuccature e decorazioni, che cosa se ne può fare? È molto difficile.
Quanti artisti saranno presenti?
[RF] Quaranta o cinquanta, ma questo non è importante, perché per prima cosa ho pensato che si dovesse fare una cosa molto limitata. Alcuni amici mi avevano suggerito di fare all’inizio le scelte più importanti: per esempio prendere o Donald Judd o Sol LeWitt che appartengono alla stessa famiglia artistica. Ma fare distinzioni fra l’uno e l’altro è un lusso, si può fare in Paesi come la Germania o l’Olanda, dove negli ultimi otto anni vi sono state 4 mostre di Judd e 3 di Sol LeWitt. Qui certamente questi artisti non sono sconosciuti, ma in molte persone manca l’esperienza vera dell’opera. In Italia ci sono molte riviste e giornali e pochi musei e ciò porta al pericolo che tutto il discorso sull’arte diventi intellettuale, perché non è più legato all’oggetto reale, che si può vedere. Quando non è possibile vedere un Sol LeWitt accanto ad un Judd, passare da Beuys a Richard Long, da Kounellis a Chia, come in un viaggio, come andare da Savona alla Valle d’Aosta, è ridicolo parlare della qualità maggiore o minore di un paesaggio rispetto all’altro. Quando però non esiste la realtà della cosa davanti ai tuoi occhi, tutto diventa intellettuale, un discorso di fotografie illustrate.
In Italia manca la possibilità di fare delle piccole distinzioni fra Sol LeWitt e Judd, per un pubblico generale, perché manca l’opera. Io non sono un manager dell’arte e neppure un intellettuale: a me piace mettere una scultura in una sala, questo è il mio interesse. Ovviamente preferisco alcune cose rispetto ad altre, ma l’arte non è dogmatica, ha una sua moralità ed una sua verità, e non si può giocare con la verità e la moralità dell’arte. Non si può fare qualunque invenzione sulla storia o sulla pittura ma neppure irrigidirsi su dogmatismi, come avveniva a Costanti-nopoli. Io non voglio fare di questo museo un castello del dogmatismo, voglio offrire un panorama generoso. Per esempio, non bisogna avere paura di fare belle sale. Tutti questi ragionamenti mi hanno portato alla conclusione che abbiamo 50 artisti invece di 30. La scelta fra Sol LeWitt, Judd e Carl Andre si può fare quando chi ti ascolta ha visto queste cose, non quando il pubblico non conosce bene le opere. Non voglio sottovalutare il pubblico italiano, ma in Italia le opere di questi artisti rimangono delle rarità. In un museo normale essi non sono delle rarità, ma un fatto normale, una cosa da tutti i giorni, come una fontana di Bernini. La fontana di Bernini o la cupola di San Lorenzo del Guarini sono una cosa normale, questi lavori appartengono alla nostra epoca e devono essere accettati dalla nostra generazione come dei fatti normali. Oggi non si scrive più con la penna d’oca, ma si usano nuovi strumenti: così deve essere considerata l’arte contemporanea. Un museo contemporaneo è un normale servizio di una società, come i vigili del fuoco.
Assessore Ferrero, dal punto di vista della città e della regione, qual è l’obiettivo?
[Giovanni Ferrero] Mettere una data, 18 dicembre, significa fissare una tappa di un percorso: questa tappa permette oggi di rendere credibili delle considerazioni che soltanto sei mesi o un anno fa erano senza riscontro, delle pure astrazioni. Il percorso dovrà continuare, dovremo rivedere la stessa struttura dei musei torinesi, penso ai musei civici ed ai musei statali. Significa pensare ad una struttura organica di musei antichi, a riaprire e completare le collezioni fino agli anni ’50 della Galleria d’arte moderna, a Rivoli come un elemento che si proietta verso il futuro, un modo di essere che a Torino negli anni ’50 esisteva e che collegava Torino ed il Piemonte con circuiti internazionali molto importanti.
Come sarà giuridicamente strutturato il Castello di Rivoli?
[GF] Prevediamo la costituzione di un ente, il cui progetto verrà approvato nelle prossime settimane dalla Regione Piemonte, dal Comune di Torino, dalla Provincia e dalla città di Rivoli, che prevede i temi dell’arte contemporanea, delle culture extraeuropee e un’eventuale apertura nei confronti dello spettacolo. Ora non è il caso di parlare di questo secondo punto, della cultura extraeuropea, anche se abbiamo fatto alcune cose. Si prevede un ente unico, con delle autonomie piene, dei direttori e dei responsabili che si occupino di diversi settori. Si prevede anche di aumentare in futuro con locali di tipo diverso, di recuperare nello stesso Castello di Rivoli, la cosiddetta manica lunga. Costruire un ente vuoi dire anche chiedere ad interlocutori privati di farne parte ed avviare l’acquisto delle opere, ed in questo gli enti pubblici sono impegnati. Chi come il San Paolo, ha investito in quest’operazione, sarà in qualche modo premiato: il 18 dicembre significa che non è vero che la pubblica amministrazione non sia mai in grado di produrre un risultato. Devono stabilirsi attorno a quest’operazione innanzitutto rapporti con gli artisti e con tutte le forze che operano in questo campo a Torino. Non c’è nessuna frattura fra un’operazione di servizio pubblico, e quindi con una moralità pubblica, e un rapporto con il mercato. Una struttura pubblica può essere privatistica, le due cose in sé non sono affatto incompatibili.
Ma perché avete scelto l’arte contemporanea?
[GF] Se si sceglie in questo modo è perché si vogliono ottenere determinati risultati. Torino è una città proiettata in tutti i campi, dalla tecnologia alle tensioni sociali, verso il superamento dell’attuale situazione di crisi e si tratta di rendere, anche nel settore dell’arte (come è stato Settembre Musica) un numero di persone sempre più grande in grado di maneggiare i prodotti di questa società contemporanea, evitando qualunque riferimento nostalgico al passato. Questa è la garanzia per guardare al futuro. Torino è la città in cui non c’è bisogno di fare un museo con le locomotive, per dire che è una città industriale, basta andare in giro a vedere le industrie elettroniche. Ed anche qui è la stessa cosa: mentre si riapre la Sabauda e l’Armeria Reale, ci deve essere anche un’iniziativa come questa. Rivoli ha una caratteristica straordinaria, quella di essere un cantiere incompiuto all’epoca. Riprendere oggi quel cantiere significa, nella tradizione sabauda, acquisire, come facevano i Savoia, l’arte contemporanea.
Signor Fuchs, sta di fatto che questo è l’unico museo d’arte contemporanea internazionale in Italia. Questa ipotesi deve essere stata pensata, credo.
[RF] Questo museo nasce su di un’idea europea, transoceanica della cultura di oggi, che è una cultura internazionale. Non ci sono solo collezioni e artisti italiani ma anche tedeschi, olandesi, inglesi, danesi, ecc. Questa è per me l’avventura: fare un museo italiano con qualche presenza proveniente da fuori non è interessante. Non è questo che vogliamo.
Si può già fare un tentativo di confronto con altre collezioni permanenti di arte contemporanea in Europa?
[RF] Non lo so, perché non si può paragonare con nessun museo e ovviamente perché sono io che lo faccio. Io non sono venuto a Torino per cambiare, e questo ha delle relazioni con il programma che ho fatto nel museo che dirigo a Eindhoven ed anche alcuni aspetti in comune con Documenta che pure ho diretto. Qui mancano tutte le manifestazioni precedenti agli anni ’60 e non partiamo dall’idea che l’arte moderna sia nata alla fine dell’800 con Cézanne e poi con Picasso. In questo museo il contemporaneo prende il primo posto: in questo senso, per il fatto che Picasso non sia presente, non si possono fare paragoni in Europa, forse in America. Forse con una certa parte dello Ste-delijk di Amsterdam, ma neppure, perché ad Amsterdam mancano Judd, Beuys ed altri. Quando finalmente sarà come la proponiamo, questa iniziativa sarà veramente di alto livello. Ma è già di alto livello.
Quindi diventerà un punto obbligato per chi si occupa di arte contemporanea, per la conoscenza di certe cose.
[RF] Sì, ma non solo per loro. Le persone che vivono a Torino, un milione, costituiscono un buon pubblico. Poi ci sono i piemontesi, poi gli italiani, poi i francesi e gli svizzeri e così via. Torino è a un’ora di volo da Francoforte, a un’ora e mezza da Madrid, quando non c’è ritardo. Questa collezione non è stata fatta con nessun’idea di elitismo. Si deve dare al «popolo» il meglio altrimenti avviene quello che diceva Gorky che parlava di arte povera per un popolo povero, intendendo un’arte socialista, operaia: queste sono cose terribili, è un insulto. Se siamo democratici, si deve dare a tutti il meglio. È vero che il meglio dell’arte non è sempre facile da capire, ma non è neanche difficile. Dipende dal rapporto visivo. Quando si legge in un articolo qualche cosa su di un artista, tutto sembra molto complicato e difficile, ma quando vediamo un cubo di legno di Judd vediamo la sua bellezza, la luce che tocca il legno, percepiamo le sue misure, l’odore del legno. Quella cosa ci colpisce. Forse non sappiamo subito perché, ma il perché viene dopo.
Assessore Ferrero, avete già definito una struttura di reggenza di questo ente? Sul ruolo di Rudi Fuchs c’è qualche previsione di durata?
[GF] Noi abbiamo assicurato a Fuchs un paio di anni di attività. Noi siamo comunque impegnati ed in grado di coprire questo periodo, indipendentemente da qualunque altra considerazione. Non si poteva infatti chiedere ad altri di partecipare ad una cosa che non esiste; anzi, mi sembra uno dei difetti concettuali dell’Evo moderno quello di parlare solo di potenzialità e mai di realtà. Le realtà possono suscitare delle critiche ma anche degli entusiasmi un po’ più consistenti. In questa fase, noi costituiremo un ente. Esso sarà composto da un numero di soci, che ogni anno siano disposti a versare almeno una cifra che nel caso del Comune e della Regione sarà molto più alta del minimo, tre milioni, che è una cifra relativamente contenuta. Quest’assemblea di soci esprimerà un Consiglio di Amministrazione e un Presidente che ha le funzioni di scegliere e di incaricare i direttori e di dare ai direttori i budget e le possibilità sulle basi di piani annuali per i lavori e gli acquisti. Le persone devono essere messe nelle condizioni di fare quello che ritengono importante e giusto. Nei prossimi mesi, passeremo da questa garanzia, che comunque la Regione mantiene, ad una forma amministrativa di tipo privatistico e quindi molto più agile. Dopo dipenderà dalla pubblica amministrazione, dal settore privato, dall’Italia, di garantire le condizioni che permettano, a chi ha scelto di incominciare, di rimanere.
Lei ha parlato di struttura privatistica, ma senza rinunciare, immaginiamo, ai privilegi riconosciuti alle istituzioni pubbliche, per esempio la possibilità di fruizione della legge 512.
[GF] La 512 meriterebbe un discorso a sé: la proprietà dell’immobile rimane alla Regione e c’è una garanzia ed una presenza degli enti pubblici, Regione, Provincia e Comune molto forte. L’ente è privato dal punto di vista delle possibilità operative, ma si riferisce ad un interesse pubblico e collettivo, è un «servizio». Per utilizzare le leggi della defiscalizzazione, dopo la fase attuale, arriveremo al regolamento. Per come oggi è congegnata la 512, è più facile fare i restauri degli edifici che non acquisizione di opere o finanziamenti. Ho però dei buoni segnali: proprio per questa caratteristica che deve avere il museo, enti privati possono benissimo acquistare delle opere e lasciarle in deposito presso il castello.
Le elezioni amministrative di maggio potranno influire nel proseguimento del progetto?
[GF] Non credo, data anche la figura del direttore non si potrà sottoporre alle piccole beghe o alle grandi battaglie politiche locali. Tutto si può pensare in un’operazione come quella di Rivoli, fuorché sia l’emanazione ideologica di una maggioranza. È importante avere delle adesioni da parte privata subito.