Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
L’annuncio in anteprima dell’incarico all’olandese Rudi Fuchs, allora 42enne, direttore del museo di Eindhoven in Olanda, già direttore dell’ultima esposizione Documenta di Kassel, di organizzare per la fine del 1984 una mostra-campione della durata di un anno di un museo di arte contemporanea internazionale da collocare nel castello di Rivoli, anche nell’ipotesi che il collezionista Panza di Biumo receda dalla donazione di arte minimale e concettuale annunciata nell’autunno scorso. In esclusiva la prima intervista rilasciata da Rudi Fuchs dopo la sua nomina. Da “Il Giornale dell’Arte” n° 13, giugno 1984
L’incarico ad uno straniero è un fatto nuovo in Italia, mentre direttori artistici italiani ottengono importanti incarichi in istituzioni culturali straniere: si pensi a registi di teatro come Strehler, a direttori artistici come Bogianckino, a direttori d’orchestra come Muti o Abbado. La scelta è motivata anche dalla intenzione di sottrarre tali incarichi per una volta a lottizzazioni di partito o a compagini culturali legate a specifici operatori culturali e quindi in contrapposizione e con esclusione di altri.
Infine, un’importante innovazione è la larga, inusuale autonomia operativa concessa a Fuchs, nei limiti della sua delega, che costituisce un riconoscimento della sua professionalità individuale, ma lo sottrae anche agli impacci che la rappresentatività sovente impone ai nostri operatori culturali. L’iniziativa sovverte il sistema finora vigente nel nostro paese e provocherà certamente vivaci reazioni. Siamo lieti di pubblicare in esclusiva la prima intervista rilasciata da Rudi Fuchs dopo la sua nomina.
Signor Fuchs, con quali criteri sceglierà le opere della mostra campione del museo?
Un museo non deve essere una fabbrica di mostre e Rivoli deve veramente diventare un museo. Per questo cominciamo con la mostra «Modello per una collezione». La prima idea era di farla con opere di collezionisti, come quella di Panza, se è disponibile. Se non lo è, mi dispiace, ma non può fermarsi tutto. Panza ha i capolavori di un certo momento, ma non ha i capolavori di altri momenti: questo è il limite ma anche il segno della qualità della sua collezione. Ma adesso penso che sarà interessante se la maggioranza delle opere in mostra si potranno realmente comprare, se proverranno da studi e gallerie e insomma siano disponibili e che la mostra non sia un sogno di una collezione, ma una realtà, con un suo prezzo, che oggi costa tanto, fra un anno costerà tanto. Questo mi sembra assai più preciso e concreto.
Questa mostra campione servirà anche in funzione delle mostre personali successive che dovrà proporre?
Solo una collezione dà moralità e valore a un programma di mostre. Non voglio dire, per essere chiaro, che facendo una mostra si fa una cosa immorale, no certamente. Ma quando esiste una collezione, non si possono fare mostre di artisti che non si accetterebbero nella collezione. Le scelte diventano molto più complicate, più severe, più serie. Non posso fare una mostra e dopo tre mesi dire: scusatemi, mi sono sbagliato. La collezione è sempre qui e quell’artista o c’è nella collezione o non c’è.
Così sono i musei di Eindhoven, di Amsterdam o di New York, dove pure si fanno molte mostre. Questo dà anche al pubblico l’idea che l’arte contemporanea si può comprare e mettere in un museo e che non è solo un divertimento, come il calcio o come la moda. Per questo mi irrito quando Andy Warhol dice che i più grandi artisti italiani sono Versace e Armani. È il contrario: quando Warhol dice questo, allora io gli dico che l’America è culturalmente una colonia europea.
Lei immagina di restare a Torino per lungo tempo? Voglio dire: imposta il suo lavoro su questa ipotesi?
Dopo un certo tempo si vedrà, io potrò rimanere o andare via, e potrà venire un altro, ma intanto il primo lavoro è di fondare una certa immagine del museo di Rivoli. Nella delibera la Regione parla di un «Centro d’arte»: questo è già un problema. Non voglio questa parola: «centro», è troppo generale. Rivoli deve essere un museo.
Diverso da altri musei di arte contemporanea?
Diverso e non diverso. L’idea di un museo così esiste già in altri paesi. Non c’è bisogno di inventare qualcosa che già esiste. Ma il contenuto sarà diverso, perché in tutti i musei d’arte contemporanea o moderna del mondo la linea base tradizionalmente comincia con Cézanne o con gli impressionisti, segue poi con i cubisti, poi con l’arte geometrica, con Mondrian, fino al minimale. Questa è la linea classica, purista, positivista. A Rivoli vogliamo cominciare la collezione con gli anni ’60. Una volta ho parlato di un’arte moderna che comincia dopo la morte di Piero Manzoni, quindi nel ’62. Già nel ’62 si vede un artista molto impressionante, Beuys. In quel momento vediamo l’inizio di Baselitz, di Kounellis, di Pistoletto, di Mario Merz, ma anche di Judd, o di Robert Ryman o di Stella.
Ci sono queste due grandi linee, una linea purista e una linea «sporca», impura, di natura espressionista, individualista, romantica. C’è però una bella frase di un antropologo che dice agli indiani dell’America latina: «Chi ha detto che voi siete nudi?». Nello stesso modo, anche nell’arte, tutto dipende dal punto di vista. Chi può dire che Ryman è puro, e Baselitz no? O che Carl Andre è puro e Kounellis un mistico?
Questa linea nasce da un’idea centralista, di un’arte legata a un centro come New York o Parigi. Ma ci sono anche Vienna e Berlino, e posti solitari come la «Casa Rossa» dove dipingeva il vecchio Munch, e i luoghi nei quali dipingeva de Chirico. Poi abbiamo scoperto che viviamo in un secolo avventuroso, nel quale le linee non esistono più. In realtà ci sono moltissime linee, l’artista è un individuo coraggioso, con una sua grande solitaria immaginazione, non un prodotto di stile. I grandi artisti sono Boccioni e de Chirico, i grandi visionari di un altro mondo, sono i Picasso e i Malevic.
Immaginiamo Parigi nel 1910: dalla Romania arriva Brancusi, da Malaga Picasso, dalla Bretagna Braque, dal Mediterraneo Matisse, dal nord Mondrian, dalla Russia Tatlin. Nessuno di loro è andato a Parigi per costruire uno stile, per edificare una scuola di Parigi. Dopo è diventata la scuola di Parigi. Sono andati a Parigi per essere indipendenti, per dialogare, per andare contro le convenzioni, Parigi era infatti il posto libertario, il centro della Rivoluzione francese. Ebbene, io immagino un museo così: un posto in cui tentare di ricostruire un incontro di quel tipo. Quel centro Parigi non lo è più e non c’è altro posto dove andare e dove tutti questi artisti possono vedersi. Si deve allora costruire questa casa, questa piattaforma e questo posto può essere a Torino.
Lei è sicuro che Torino abbia requisiti sufficienti per una immagine così moderna?
È una città moderna, che ha fatto il difficile cambiamento da città aristocratica a città operaia. Tutta la storia del ‘900 e di questo cambiamento profondo è visibile a Torino. Mi è parsa una città aperta, con una gran voglia di essere aperta. Firenze ha il desiderio d’essere sempre la città del ‘400 e Venezia è un pezzo di Goldoni, divertente, dove si balla, è una meravigliosa città, ma non sarebbe possibile farvi un museo d’arte contemporanea. Roma è il vecchio Impero, l’unico posto a Roma potrebbe essere la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che però deve occuparsi d’arte italiana. Ma non esiste soltanto «arte italiana». Ho fatto mostre con amici italiani, ad Eindhoven e li ho anche invitati a Kassel a Documenta, ma non ho mai trovato un posto in Italia per le mostre di Giovanni Anselmo o di Kounellis, non trovavo un collega cui offrirle per dividere le spese come ho fatto invece con i musei tedeschi o di Londra o di Parigi.
Dalle mostre l’Italia è tagliata fuori, perché non esistono istituzioni o musei liberi e organizzati. Quando gli amici in Italia mi chiedono perché ho accettato, rispondo che ho un certo debito, perché ho sempre criticato l’Italia e ora mi si offre la possibilità di cambiare qualcosa. Mi piace anche cambiare lavoro. Un direttore d’orchestra che esegue una sinfonia di Mozart in una sala di Vienna, può desiderare di ascoltarla in un altro spazio, perché è diversa. Questo vale anche per un direttore di museo: ne ho bisogno per la mia comprensione delle cose. Sono stato chiamato manager ma io sono un artigiano, ho una mia storia, una mia formazione, il mio occhio si è formato nella vicinanza al Mare del Nord, alla sua luce: parlo olandese e tedesco e anche italiano. Ma il mio occhio è diverso da un occhio milanese o spagnolo.
Pare di capire che le sue scelte saranno molto personali. Fino a che punto personali?
Con questo mio bagaglio non voglio fare una mostra che presenta un’ideologia, non voglio dimostrare qual è oggi la linea uno che porta verso il futuro, domani dovrei dimostrare qual è la linea due che porta al futuro. In questo modo si scivola nella marea delle opinioni, nell’irrealtà. Una mostra deve essere un’immagine dell’idea del sentimento contemporaneo, lo stesso che si vede in un quadro di Mondrian, o nel quadrato nero di Malevic che per me è la più bella immagine del ‘900 la più dura, la più assoluta, e che arriva da lontano, e che certamente è anche un’icona, una immagine, che, pur nella sua contemporaneità, porta dentro di sé tutta la storia russa.
Una mostra può essere contemporanea senza essere ideologica. Bisogna fare come un artigiano: si prende un quadro, lo si appoggia al muro, lo si accosta ad altri. In questo modo non si fa una mostra degli artisti, ma delle opere, delle immagini. Ed è ovvio che una simile visione dell’arte non può essere che internazionale: l’arte non si ferma a Chiasso, né da questa né dall’altra parte del confine! Io non so come sia avvenuto, ma l’Italia soffre di questo problema, qui tutti o quasi si occupano d’arte italiana, e la critica d’arte è una critica dell’arte italiana. L’unico che sfugge alla regola è Germano Celant ma forse è anche l’unico che parla un’altra lingua… Un intellettuale della fine del XX secolo deve leggere ed esprimersi nelle lingue culturali del nostro tempo.
Quando sei a Roma, devi pensare per esempio ad Amsterdam per avere sempre l’idea che il mondo non è chiuso, che c’è dell’altro al di là delle Alpi, oltre il Mediterraneo. E così si deve fare una mostra: un’opera italiana la si deve guardare non solo con i criteri italiani, ma la si deve giudicare per esempio con i criteri norvegesi, proprio come si deve giudicare un’opera di Munch con i criteri di de Chirico.
Questo viene dal momento magico di Parigi del 1910, questo è il senso dell’arte moderna: non abbiamo la scuola romana e la scuola viennese, abbiano artisti che viaggiano, che sono intraprendenti, che cercano un’avventura, che sono internazionali. Questo museo di Rivoli deve essere un manifesto di questa Italia, che è l’Italia dei futuristi e l’Italia di Burri, ma non è l’Italia di Morandi, un pittore bravissimo ma profondamente italiano. Questa altra Italia deve essere l’Italia delle visioni internazionali, come sono anche i sogni di questi artisti. Marinetti ha fatto il manifesto futurista a Parigi e Mario Merz fa i suoi lavori dappertutto: sono indicazioni della strada da seguire.
Il suo essere artigiano vuol dire che opererà completamente da solo?
A parte il finanziamento, tutto il resto è compito e responsabilità mia. Sono perfettamente libero: la scelta, il montaggio, le sale, l’aspetto visivo della mostra. Con me in stretto contatto lavorerà l’architetto Andrea Bruno. Questo museo non sarà un museo oggettivo, ma il museo, la collezione che avrò fatto io, con tutte le mie personali esperienze. Certamente sarà una collezione da discutere. Farò inoltre il programma delle personali, la mostra infatti è prevista per un anno, ma vorrei che quando la smonteremo, provassimo un dolore, come un divorzio non voluto. Un’iniziativa di questo genere costituisce un capovolgimento nel modo di organizzare le cose in Italia, soprattutto da parte di un ente pubblico che deve pure rispondere a certi obiettivi pratici che coinvolgono anche l’economia della città e il suo sviluppo per certi versi anche economico.
Come «investimento» che ruolo può avere un museo così per Torino?
Torino sarà la prima città del mondo ad avere un museo di questo tipo, con una collezione che parte dagli anni ’60, perciò con una fisionomia diversa da altre collezioni. Sarà come la Juventus quando ha vinto la coppa. Nelle infrastrutture di una città non valgono solo le strade, l’acquedotto eccetera, ma anche il sistema solare, la cultura. La differenza tra Houston e Chicago è che a Chicago ci sono un museo, un’orchestra e un’opera lirica che a Houston non ci sono.
Una città con musei, biblioteche, teatri, ha la possibilità di vivere meglio, anche per chi non va a teatro, perché queste cose danno alla città una certa atmosfera. E questo è importantissimo per la struttura economica. Quando si parla di investimenti, quando una società vuole investire, e sento parlare per Torino della possibilità di diventare il centro dell’informatica per l’Italia (Torino è un po’ come Eindhoven, anche se è più grande: a Torino c’è la Fiat, ad Eindhoven la Philips), chi investa in nuove fabbriche di tecnologia molto avanzata, deve anche offrire ai suoi collaboratori qualificati una possibilità di vita qualificata. I politici, ma non certamente l’assessore Giovanni Ferrero, normalmente pensano soltanto che un museo costi soldi, ma non pensano mai che un museo produce cultura, un modo di vita, un’immagine culturale, e anche un progresso economico.
A parte le persone che possono venire a Torino come turisti perché ci sono i musei, chi vive a Londra, a Roma o a Parigi a cui viene offerto di lavorare a Torino, valuta che cosa gli offre la città. Questo può influenzare le decisioni di chi investe: se una certa città rischia di non venire accettata da nessuno dei collaboratori di cui ha bisogno, perché dovrebbe sceglierla? Queste sono valutazioni non quantificabili. Un museo è come i vigili del fuoco, è un servizio normale in una città delle dimensioni di Torino. La biblioteca pubblica compra il nuovo libro di Calvino, non si ferma alle opere del 1910, come invece fanno i musei. Come una città ha il palazzo dello sport, lo stadio e la piscina comunale, deve avere anche un museo d’arte contemporanea, perché l’arte contemporanea esiste.
Come le è parso il Castello di Rivoli?
Le sale restaurate dall’architetto Bruno sono molto belle. Ora deve intervenire la soprintendente Tardito in quelle sale che non sono talmente rovinate da non avere più valore storico. E in certi saloni si sente ancora il profumo della regina… In alcuni saloni intendo fare dei luoghi di sosta, di conversazione con delle poltrone e delle riviste, e in estate voglio mettere in terrazzo delle sedie e delle piante. Vi sono stanze progettate con Panza di Biumo che ha un senso squisito per lo spazio e che lui ha previsto soltanto per oggetti tridimensionali e ci sarà qualche porta che dovrà essere risistemata. L’unica difficoltà forse è la distanza dal centro di Torino, ma è relativa. E ha un certo fascino fare un minimo di fatica per arrivarci.
Le sono stati assicurati i mezzi e le deleghe decisionali per realizzare quanto si propone?
La mostra verrà fatta e verrà iniziato il programma delle mostre personali. Tutto dipende dalla costituzione dell’ente autonomo perché bisogna ottenere anche una certa libertà amministrativa. Dall’Italia, si sa, ci sono problemi nei rapporti economici con l’estero e certo rispetteremo le leggi, ma forse si può trovare il modo più facile per operare. La mostra comunque non è tutto, se alla mostra non segue il programma del museo. Mi interessa la mostra come inizio della collezione, di un piccolo museo, piccolo nel senso di discreto, poiché non vorrei che Rivoli divenisse una grande macchina. Basta vedere i problemi alla Galleria Nazionale d’arte moderna di Roma. Adesso in Spagna stanno facendo un centro grandissimo, il Centro Reina Sofia, sarà grande dieci volte Palazzo Madama, grande come il Lingotto; in questi enormi spazi si crea il problema di riempirli, di trovare opere di dimensioni adatte, e forse non sono tutte molto buone. Si veda il problema del Centre Pompidou: talvolta fanno belle mostre, ma altre volte si vede che sono fatte per riempire la macchina.
Sono molto contento delle dimensioni di Rivoli, che non è troppo grande. Il giorno che Rivoli diventerà troppo piccolo, troveremo un altro castello!