Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Calvin Tomkins* racconta il percorso di ricerca del curatore svedese fondatore del Moderna Museet di Stoccolma, primo direttore per 8 anni del Centre Pompidou, fino al 1980, e quindi per 4 anni a Los Angeles dove ha partecipato alla progettazione del nuovo Museum of Contemporary Art. Approdato infine alla direzione artistica di Palazzo Grassi a Venezia inaugurato nel maggio 1986 con un’esposizione sul Futurismo e i futurismi e su tutte le manifestazioni internazionali del movimento e le sue derivazioni. Dal “Giornale dell’Arte” n. 18, novembre 1984
Alto un metro e ottantatré, di robusta costituzione, un volto piuttosto quadrato, baffi e capelli chiari e cortissimi, Hulten assomiglia più ad un ufficiale militare che ad un direttore di museo. Proviene da una famiglia di scienziati: il padre, botanico, è uno studioso della flora dell’Artico; la madre, morta nel ’77, insegnava matematica nelle scuole svedesi e la sorella, più giovane di lui di otto anni, dirige un istituto di biologia in Inghilterra. Hulten ricorda di avere provato molta avversione nei confronti di «tutta quella scienza e razionalità», durante la sua prima giovinezza (nacque a Stoccolma nel 1924). Da bambino dipingeva moltissimo e pensava di diventare un artista. Quando ebbe sedici anni iniziò a lavorare, in modo non continuativo, per uno zio che di professione organizzava mostre: esposizioni per fiere commerciali, rassegne promozionali, mostre d’arte in musei sparsi per il Paese. Poi entrò all’Università di Stoccolma, e dopo aver ottenuto la laurea in storia dell’arte, decise di dedicarsi al lavoro museale.
Andò a Parigi per la prima volta nel 1946, all’età di 22 anni, fece alcune ricerche per la sua tesi su Vermeer e Spinoza, e rimase così profondamente colpito da quella città, che decise di ritornarvi il più spesso possibile. Ed infatti là lo ritroviamo nel 1950, questa volta con il progetto di diventare un giornalista, alloggiato nella mansarda di un condominio sul boulevard Raspail. Ma alla fine l’arte avrà la meglio sul giornalismo, e nel 1953 entra a far parte dello staff del Museo Nazionale di Stoccolma. Continuò tuttavia a fare frequenti viaggi a Parigi, alla guida della sua grande moto A.G.S. e senza mai fermarsi in Germania, in modo da non dover mai posare il piede sul suolo tedesco: a quell’epoca tutti serbavano ancora odio nei confronti dei tedeschi. I suoi migliori amici a Parigi erano artisti, in particolare il gruppo che si radunava nella galleria di Denise René, sulla riva sinistra.
A quell’epoca Parigi annoverava soltanto due gallerie d’avanguardia: questa e la Galene Ar-naud, in Rue du Four. Fra gli spiriti più vivaci che frequentavano Denise René vi erano Robert Breer, un pittore astratto americano che si interessava di cinematografia, e Jean Tinguely, uno svizzero ideatore di strane sculture di fili metallici attorcigliati, con parti movibili. Nella primavera del 1955 Tinguely, Breer e Hulten persuasero Denise René a organizzare una mostra di sculture cinetiche e semoventi nella sua galleria. Chiamata «Le Mouvement», l’esposizione propose opere in movimento di 8 artisti, fra cui Marcel Duchamp e Alexander Calder. Era la prima mostra del genere mai organizzata, ed il suo successo fu sensazionale.
Hulten e Tinguely diventarono amici: condividevano l’ideale dell’anarchia, che, sia come movimento storico che, come atteggiamento, sembrava avere molto in comune con la pratica dell’arte. «Quando ci incontrammo, Tinguely aveva a mala pena sentito parlare di Duchamp», ha detto Hulten. «Egli mi parlava del modo di vivere degli artisti, del loro pensiero, di che cosa significa essere un artista, ed io gli spiegavo la storia dell’arte». Gli anni ’50 a Parigi furono luogo di gestazione per molti giovani artisti ed i fermenti maggiori nascevano sul tavolo dei caffè più che in uno studio. Perfettamente a suo agio con il francese, Hulten sedeva tutta la notte parlando e bevendo. La gente di lui amava la solida semplicità, la franchezza, la rilassata presenza fisica. Una giovane donna una volta raccontò che lui si era arrabbiato così tanto con lei, mentre passeggiavano per la città a tarda notte, che piegò un lampione, come l’uomo forzuto nel film di Chaplin, ma ben poche persone lo videro perdere la calma. Breer lo ricorda in quegli anni come un giovanotto con il quale di tanto in tanto andava in giro in cerca di avventure; una volta vinsero una coppia di pesciolini rossi in una borsa di plastica ad una fiera e li liberarono nel fonte battesimale di una chiesa di Montparnasse. Hulten era accettato dagli artisti su di una base di parità. Secondo Niki de Saint-Phalle, la scultrice di origine americana che poi sposò Tinguely, la chiave del carattere di Hulten sta nel fatto che, nonostante la sua formazione accademica e la sua fenomenale erudizione, «Pontus lavora esattamente come un artista, basandosi principalmente sul suo istinto».
Uno dei primi incarichi che ricevette al National Museum fu quello di preparare dei progetti per un museo d’arte moderna a Stoccolma, che avrebbe dovuto svolgere un’azione sussidiaria rispetto al National. Una facoltosa signora svedese di nome Emma Spitzer donò una cospicua somma di denaro al National Museum per questo scopo, mossa non dall’amore per l’arte moderna, che in verità ella detestava, ma perché desiderava «ripulire» il National Museum trasferendo altrove le opere d’arte moderna. Per sei mesi Hulten se ne andò in giro per l’Europa, studiando i musei e parlando con i curatori e soltanto nel 1955 si trovò un luogo adatto: una ex-officina della Stazione navale di Stoccolma, sull’isola di Skepp-sholmen, che attraverso una strada rialzata era collegata al National Museum. Iniziarono i lavori di rinnovamento, ed il Moderna Museet venne inaugurato il 9 maggio del 1958. L’anno seguente, Hulten ne divenne il Direttore.
Dal principio, il nuovo museo riflesse lo stile informale di Hulten ed il suo istintivo modo di lavorare. I lavori non erano ancora terminati, quando egli decise di allestire una mostra temporanea su «Guernica» di Picasso, che stava allora viaggiando attraverso numerosi altri musei europei insieme agli schizzi ed ai disegni preliminari: questa fu la prima mostra del Moderna Museet. Il budget per le operazioni era minuscolo e per un certo periodo lo staff che Hulten aveva a disposizione consisteva in un custode ed in una segretaria che lavorava part-time. Ma molti erano gli artisti suoi amici ed in nessuna occasione il museo si trasformò in un centro per attività estemporanee quali film, letture di poesie, concerti jazz, o altre manifestazioni speciali. «Non c’era un programma ben delineato», rammenta Hulten, «era un luogo che ospitava tutta l’arte che non si sapeva dove mettere altrimenti». In questo suo intento, Hulten stava seguendo l’esempio di un direttore di museo da lui profondamente ammirato: Willem Sandberg, dello Stedelijk Museum di Amsterdam. Sandberg era stato uno dei principali capi della resistenza olandese durante la Seconda guerra mondiale, e dopo la guerra divenne, in ambito museale, il primo che rispondesse attivamente alle nuove correnti artistiche.
In molti casi mise in mostra opere contemporanee prima dei mercanti facendo dello Stedelijk un luogo in cui l’attività estetica ed il confronto avevano il sopravvento su mostre statiche. «La differenza sostanziale era che egli stava dalla parte dell’artista», specifica Hulten. «Una persona di vecchio stampo nutriva sempre qualche sospetto nei confronti di artisti viventi, anche al Museum of Modera Art di New York. Ma Sandberg intuì che il museo appartiene all’artista: è una svolta importante, che divenne la base del mio intero approccio». Un primo esempio di simile approccio venne dato dall’imponente manifestazione di arte cinetica organizzata da Hulten nel 1961 insieme a Tinguely e a Daniel Spoerri. Ritenendo che la Svezia non fosse del tutto pronta ad accogliere un tipo di arte che le era così poco familiare, Hulten dapprima aprì la mostra ad Amsterdam, allo Stedelijk.
Qui la mostra rimase due mesi, prima di essere trasferita al Moderna Museet. Tuttavia, i critici ed i circoli ufficiali di Stoccolma erano impreparati al punto che vennero chiamate in causa le autorità civili nell’intento di chiudere la mostra. Ma da parte del pubblico, fu un successo. «La gente si riversava nel museo come se si trattasse di un Luna Park, e questo era il punto a nostro favore. Qualcosa era cambiato nei rapporti fra noi ed il National Museum». Ed infatti, da quel momento, sebbene il Moderna Museet rimanesse tecnicamente sotto l’autorità del National Museum, si diede inizio ad un nuovo corso, del tutto indipendente.
Hulten era all’avanguardia, rispetto agli altri direttori dei musei europei, nel riconoscere l’importanza di ciò che si svolgeva a New York, che visitò per la prima volta nel 1959.
Inviato dal National Museum come delegato della Biennale di San Paolo, sulla via del ritorno trascorse a New York parecchie settimane. «Rimasi sotto shock per giorni e giorni, non soltanto per l’arte che vidi, ma per la città stessa, per gli edifici, il traffico, per tutto. Si ha l’impressione che tutto laggiù sia possibile». Hulten ebbe la possibilità di entrare in contatto con numerosi artisti della giovane generazione del post-espressionismo astratto, quali Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Richard Stankiewicz e altri. Frequentava i primi happe-nings, le letture tenute da Allen Ginsberg e i poeti Beat, le proiezioni di film sperimentali; incontrò John Cage e Merce Cunnigham, andava agli spettacoli di danza d’avanguardia tenuti alla Judson Church, in Washington Square. New York stava vivendo un periodo particolarmente intenso. «La gente non attaccava gli artisti e nessuno era famoso. C’era una minore polarizzazione rispetto ad oggi. Lo staff del MOMA era molto cooperativo, ma piuttosto formale. Coloro che vi lavoravano si ritenevano i registi dello spettacolo, i responsabili dell’arte moderna. Ma in realtà non erano in contatto con tutto ciò che di nuovo stava avvenendo».
Dal 1961 in poi, il Moderna Museet continuò ad allestire mostre incentrate sulla nuova arte americana: «Quattro Americani», nel-1962 (Johns, Rauschenberg, Leslie, Stankiewicz); Jackson Pollock nel 1963, che in Europa era ancora assai poco conosciuto; la prima grande mostra europea sulla Pop Art americana, il cui sottotitolo era «107 Forme di Amore e Disperazione», nel 1964; Rauschenberg e James Rosenquist nel 1965; Claes Oldenburg nel 1966; Andy Warhol nel ’68. Gli artisti svedesi non nascondevano il loro disappunto per la predisposizione che Hulten mostrava verso l’America. Impedito dalle modeste acquisizioni dovute all’esiguo budget (circa 40 mila dollari all’anno), nel 1963 Hulten organizzò una mostra (con opere prese in prestito) dal titolo «Il Museo dei nostri sogni», e poi chiese al Governo i fondi necessari per il suo acquisto. Il Governo stanziò un milione di dollari, con sorpresa di tutti, e Hulten fece un appello televisivo per ottenere nuovo denaro. Grazie a ciò, fu in grado di acquistare 27 opere importanti di Picasso, Magritte, Mirò, Mondrian, de Chirico, Kandinskij, Calder, Giacometti, Pollock e altri; alcune di queste opere facevano parte della mostra dei «Sogni», altre no.
Acquistò pure il «Monogram» di Rauschenberg, la capra d’angora imbalsamata con uno pneumatico intorno alla cintola, una delle opere d’arte più controverse degli anni ’60. Hulten desiderava possederla fin dal primo momento in cui la vide, durante la sua visita a New York nel ’59, ed era riuscito a persuadere Rauschenberg a tenerla da parte finché non avesse ottenuto i 30 mila dollari richiesti per il suo acquisto. Ma si deve notare che all’inizio degli anni ’60 la nuova arte americana non raggiungeva quelle cifre se non in rari casi, e grazie a questo fatto Hulten poté procurarsene in buona quantità senza attirarsi troppe critiche. Nel 1961 ottenne per il Moderna una delle prime opere «metamatiche» di Tinguely: una scultura azionata a motore e dotata di un pennarello: una volta resa funzionante, tramite l’introduzione di una corona svedese in una fessura, il braccio metallico reggente il pennarello si muoveva su e giù su di un foglio di carta, dando vita a pitture astratte. In quattro anni di permanenza al museo, la macchina «guadagnò» abbastanza per permettere a Hulten di acquistare la più grande «Metamatic No. 17» di Tinguely, che era diventata famosa alla Biennale di Parigi del 1959 per la sua capacità di elargire pitture astratte.
Il contegno mostrato dai visitatori del museo suscitò vivace indignazione: un visitatore, infuriato per l’acquisizione di un’auto da corsa Lotus Formula Uno che era stata esposta come un’opera di scultura moderna, mise i piedi sul parafango; più tardi, un custode notturno del museo non poté resistere alla tentazione di sedersi nell’abitacolo della Lotus, rimanendovi incastrato al punto che dopo la sua liberazione furono necessari dei restauri all’auto. Di tanto in tanto le autorità interrogavano Hulten sui criteri da lui seguiti, ed ogni volta egli minacciava le dimissioni. E quando il compito si faceva oltremodo gravoso, Hulten, appassionato velista fin dalla giovinezza, si dava alla navigazione.
Verso la fine degli anni ’60, il Moderna Museet attirava 300 mila visitatori l’anno, in una città che non raggiungeva un milione di abitanti. Questo fatto naturalmente contribuì a rendere noto il nome di Hulten a molte persone fuori dalla Svezia. Era particolarmente conosciuto nei circoli artistici americani: quando nell’autunno del 1968 venne chiamato al Museum of Modern Art per dirigere una mostra intitolata «La Macchina», gli venne offerto l’incarico di maggiore importanza all’interno del museo, dopo la tragica morte di René d’Harnoncourt avvenuta durante l’estate. La proposta era lusinghiera, ma non arrivò mai al livello di serie consultazioni poiché Hulten specificò che egli avrebbe volentieri accettato l’incarico solo a condizione che il museo diventasse proprietà della città di New York. «Sono profondamente contrario ai musei privati. L’arte appartiene a tutti, così deve essere».
«La Macchina» fu in ogni modo un’utile esperienza per tutti. Il buon umore di Hulten, unito alla sua ferrea determinazione anche verso i minimi dettagli, impressionò profondamente i suoi colleghi. Doveva assolutamente ottenere per la mostra una delle Dymaxion Cars costruite da Buckminster Fuller. Soltanto tre prototipi dell’auto erano stati costruiti negli anni ’30, e neppure Fuller sapeva dove si trovassero. Finalmente una venne scoperta in una rimessa in Arizona, in condizioni più o meno buone. Il più delle volte Hulten riuscì a realizzare i suoi scopi al MOMA, ma qualche volta dovette rassegnarsi, come quando fallì il suo tentativo di trattare il prezzo del catalogo della mostra (dotato di rilegatura di metallo) per il quale venne stabilito un costo di 8 dollari invece dei raccomandati 7,95. Le leggi del commercio americano seguono un loro inderogabile corso.
Il titolo per esteso della mostra del MOMA era «La Macchina vista alla fine dell’era meccanica». Nel suo saggio contenuto nel catalogo, Hulten esaminò da un punto di vista storico il rapporto fra arte e tecnologia da Leonardo a Tinguely, tracciando poi alcune ipotesi conclusive sul futuro dell’arte e della società. Nel corso del XIX secolo, l’opinione pubblica aveva accettato il principio utilitaristico estendendolo ad ogni oggetto: «L’arte venne posta su di un piedestallo, venerata con rispetto e di conseguenza profondamente fraintesa». Nel momento di passaggio verso una nuova fase tecnologica, maggiormente caratterizzata dall’elettronica che dai processi meccanici, era di vitale importanza il non ricadere nei medesimi errori di omissione che avevano segnato la fase precedente.
Secondo Hulten, le decisioni fondamentali per il futuro sarebbero state prese dalla tecnologia, «ma occorreva tener conto del valore e dell’apprezzamento delle capacità umane quali la libertà e la responsabilità, insiti nell’attività artistica». L’importanza dell’arte come forza sociale era il principio conduttore della mostra, almeno nelle intenzioni di Hulten. Al MOMA, dove prevalevano più vecchie teorie relative alla connoisseurship, il messaggio non venne recepito interamente. «Il MOMA mi piace molto, ma pensai che fosse piuttosto sterile continuare in quella direzione, nel tentativo cioè di depurare l’arte e di creare un luogo in cui essa venisse spiegata e controllata».
Al Moderna Museet, in ogni occasione, l’enfasi veniva data all’arte intesa come forza sociale, ed una delle ultime grandi mostre esponeva ben pochi oggetti che potessero essere classificati come opere d’arte. Era intitolata «La poesia deve essere fatta da tutti: Trasformate il Mondo!» e si incentrava sui legami fra l’arte radicale e le società rivoluzionarie: il costruttivismo nella Russia post-rivoluzionaria, i movimenti del surrealismo e del dadaismo, la rivolta studentesca a Parigi nel 1968. Nella sua prefazione al catalogo, Hulten evidenziava che l’arte del nostro tempo stava subendo un processo di «dematerializzazione»: nel momento in cui la pittura e la scultura perdevano l’antico predominio di portavoci dello spirito creativo, sarebbe potuto accadere che l’arte «si rivolgesse all’interiorità delle persone» per divenire «una sorta di comportamento».
Ed in questo caso, «quella forma di sincerità, responsabilità ed invenzione che regola la migliore arte, sarebbe diventata legge per la società in generale. Evidentemente occorreva che la società cambiasse in modo radicale». Ma il problema era che la società non sembrava tendere verso il mutamento: gli eventi del maggio del 1968 non portarono in Francia «l’immaginazione al potere», come auspicavano gli studenti, ed il Governo si mosse con determinazione per prevenire simili svolte. Hulten cominciò a rendersi conto che il nuovo attivismo politico e sociale che aveva invaso musei come il suo, si stava muovendo verso altri lidi.