Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Calvin Tomkins* racconta il percorso di ricerca del curatore svedese fondatore del Moderna Museet di Stoccolma, primo direttore per 8 anni del Centre Pompidou, fino al 1980, e quindi per 4 anni a Los Angeles dove ha partecipato alla progettazione del nuovo Museum of Contemporary Art. Approdato infine alla direzione artistica di Palazzo Grassi a Venezia inaugurato nel maggio 1986 con un’esposizione sul Futurismo e i futurismi e su tutte le manifestazioni internazionali del movimento e le sue derivazioni. Da “Il Giornale dell’Arte” n. 18, novembre 1984
Quando nel XVIII secolo nacque il primo museo, l’accesso alle sue collezioni era strettamente limitato. Il British Museum (aperto nel 1759) venne descritto dai suoi fondatori come una «fondazione nazionale principalmente adibita per essere utilizzata da studiosi e da uomini di cultura, inglesi o stranieri, per le loro ricerche nei vari campi dello scibile»; queste persone dovevano essere dei gentlemen e dovevano richiedere il biglietto una settimana prima. Quando il Louvre aprì i suoi battenti nel 1793, sotto la denominazione di «Museo della Repubblica» cinque giorni su dieci venivano riservati agli artisti, e da allora è rimasto il grande laboratorio dell’arte francese.
Solo nel XIX secolo i musei diventarono realmente pubblici. In quell’epoca vennero considerati, specialmente negli Stati Uniti, istituzioni educative la cui funzione primaria era quella di elevare il livello culturale degli strati più bassi della società. La curiosa idea che l’arte possa o debba essere educativa prese piede soprattutto nei Paesi di lingua inglese. La persistenza di questa concezione avvolse in un alone di sacralità la visita al museo per generazioni di scolari americani, e probabilmente contribuì a mantenere bassa l’affluenza fino a poco tempo fa, quando, per una serie di ragioni ancora non chiaramente spiegabili, i musei d’arte vennero in voga prepotentemente.
Il Beaubourg è il primo museo che si indirizzi direttamente ed interamente al nuovo pubblico di massa, e di conseguenza è guardato con sospetto ed un poco di ostilità non soltanto da offesi amanti dell’arte, ma da addetti ai lavori sparsi ovunque. Sebbene il museo del Beaubourg mantenga molti degli attributi di un museo tradizionale, fra cui la presenza di un’ampia collezione permanente, che copre il periodo dal 1905 al presente, il suo primo direttore, Pontus Hulten, aveva evidenziato che la collezione rappresenta solo una parte fra le tante attività che da essa hanno tratto ispirazione. «Il Beaubourg», aveva detto Hulten, «è indirizzato ad un nuovo pubblico, anonimo, curioso, molto più grande, più diversificato, ed in un certo senso disorientato, che ha sostituito il viaggiatore colto e curioso del secolo scorso».
Il Museo venne concepito come uno spazio aperto ed ampiamente flessibile in cui le tradizionali distinzioni fra arte, letteratura, musica e scienza non sarebbero state applicabili, un luogo dove l’artista stesso poteva venire e lavorare, instaurando con il pubblico un rapporto diretto con l’arte attiva. «Ci muoviamo verso una società in cui l’arte giocherà un grande ruolo», aveva scritto Hulten. «Il museo deve aprirsi a discipline una volta escluse ed al pubblico più vasto possibile, subito». Nel clamore sollevatosi sull’architettura del Centre, poca attenzione è stata rivolta alla natura di questo programma. Ma l’atteggiamento di Hulten era realmente dissacrante. In passato, secondo il suo punto di vista, i musei hanno conservato «bellissimi fossili, non sempre di alta qualità, resi sacri dal gusto borghese».
Per molti artisti contemporanei (e per Hulten, ci sembra), l’arte del nostro tempo non è più un qualcosa di sacro: essa è scesa in mezzo alla strada, dentro la vita di tutti i giorni. Effimera ed aspra, utilizza ogni sorta di materiali, ed il processo della sua creazione è stato in molti casi valutato sul prodotto finito. Per molti artisti, l’arte è diventata un modo di vivere, un atteggiamento, una maniera per affrontare il caos della vita di tutti i giorni, piuttosto che una professione d’elite per una clientela d’elite. Il fatto degno di nota è che i francesi, nonostante il conservatorismo culturale, l’indifferenza nei confronti dell’arte prodotta dopo la Seconda guerra mondiale, e l’orgoglio sciovinista, avessero scelto un iconoclasta svedese quale è Hulten a dirigere il loro museo.
Ma, è ovvio, non sono stati i francesi a sceglierlo, bensì Georges Pompidou, l’ex insegnante di scuola, il mago della finanza (con i fratelli Rothschild), il bon vivant. Braccio destro di Charles de Gaulle, a lui successe come Presidente della Repubblica nel 1969 e poco dopo annunciò, con tono regale: «Je voudrais passionnement que Paris possedè un centre culturel qui soit à la fois un musée et un centre de création, où les arts plastiques voisineraient avec la musique, le cinema, les livres, la recherche audiovisuelle». Pompidou e sua moglie erano collezionisti d’arte moderna, e sebbene le loro preferenze fossero rivolte ai maestri affermati della Scuola di Parigi, erano ben consci che Parigi aveva perduto la sua posizione come centro di creazione artistica e che dalla Seconda guerra mondiale il vero fulcro delle energie estetiche si era mosso a New York.
Con un fervore nazionalistico che, a suo modo, era l’equivalente di quello di de Gaulle, Pompidou voleva «appassionatamente» riportare Parigi all’antico ruolo di sorgente dell’arte moderna. Avendo stabilito che il modo per realizzare questo obiettivo fosse quello di costruire un centro culturale polivalente, si riservò di lasciare ad altri i dettagli. In ogni modo fu lui a designare la giuria internazionale che scelse, su 681, il progetto architettonico vincente, lavoro in collaborazione fra l’inglese Richard Rogers e l’italiano Renzo Piano. E quando fu informato che vi era soltanto una persona qualificata in grado di dirigere il nuovo museo, egli non esitò a scegliere Hulten, che allora era direttore del Moderna Museet a Stoccolma.