Capsule Digitale

Quasi quasi faccio un film

Le storie che seguono sono vagamente ispirate a fatti reali. Se qualcuno vorrà riconoscersi nei diversi personaggi lo farà per propria scelta, e a proprio rischio e pericolo. Questo libro non parla di nessuno in particolare ma forse di tutti noi, e certamente parla del sottoscritto, del quale costituisce una sorta di autoritratto divertito e disperato. Anche se, a dire il vero, qui non ci si dispera troppo, né troppo si spera; vi si accetta che il mondo è inesatto, e noi con lui

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A. & T.

Da diversi anni e con risultati alterni mi occupo di una Biennale delle immagini in movimento. Questo ruolo espone le mie stanche membra al fuoco di fila di artisti e curatori che lavorano ai limiti del cinema e della video arte. Per lo più mi si chiede un obolo, un aiuto alla produzione, una partecipazione istituzionale.

Qualche giorno fa trovo nella mia casella di posta elettronica la mail di due artisti, A. e T. In allegato c’è un documento, il progetto – appunto – di un film. Mi chiedono un appuntamento che io sono obbligato per diverse ragioni a concedere, pur sapendo fin troppo bene come andrà a finire. Si presentano tutti e due qualche giorno dopo. A. ha un pullover giallo canarino e una cravatta bianca e nera, ride sornione, sembra contento. T. è invece uno spirito dell’aria, non sapresti mai dire dove sta veramente: ha un viso spigoloso, occhiali anni settanta e gli occhi verdi slavati come un prato di montagna appena abbandonato dalla neve. Sono una coppia? Non lo so, e non importa. Certo hanno deciso di lavorare in coppia. Lavorare si fa per dire.

Prima che comincino a parlare – sono infatti di buon umore e voglio conservarlo – propongo di raccontargli la loro stessa storia. I due piuttosto divertiti e sollevati si dicono tutti orecchie. Allora ragazzi la situazione è questa: A. si sveglia depresso più del solito e dopo qualche sbadiglio prende la drammatica decisione di andarsi a fare il caffè, il più buono della giornata, il primo. Mentre riempie il filtro con il macinato ha finalmente un’epifania, una di quelle idee che possono cambiarti il corso della vita: quasi quasi faccio un film, pensa tra sé e sé. Incapace di gestire da solo l’urto per questa improvvisa emozione telefona a T. e gli propone di fare il film insieme, meglio unire le forze. Da bravo italiano A. sa bene che è sempre meglio condividere le potenziali sconfitte, se proprio non si riesce ad attribuirle direttamente a qualcun altro. Et voilà fine della storia ragazzi. I due si mettono a ridere di cuore, nemmeno si offendono. Capisco a quel punto che è andata più o meno cosi.

Confesso loro di non aver avuto il tempo di leggere le tre paginette del documento e chiedo lumi sul film che intendono realizzare. Mi dicono si tratta di una via di mezzo tra un reality show e un road movie. Molto interessante, dico io con enfasi, e che tipo di film vorreste fare? Qual è l’atmosfera? Mi sembrano indecisi riguardo a questo – non proprio trascurabile – aspetto. Allora comincio con le illazioni: insomma volete fare un film generazionale, magari sul lockdown, o volete rendere conto di una esperienza non verbale che colpisca il subconscio? Sentendosi colti in fallo da domande forse giudicano inopportune o troppo private, si guardano tra di loro e decidono di optare per la seconda ipotesi, gli suona meglio. In effetti – e qui si limitano a citarmi – dovrebbe essere un film che tenta di rendere una esperienza non verbale, in grado di colpire, eventualmente, il subconscio. Va bene, e c’è un copione, avete una storia, dei dialoghi? A quel punto li vedo ancora più confusi, capisco che non si sono spinti così avanti. Trovo dunque conferma a quello che già intuivo con la prima email. C’è in loro la sola volontà di fare un film, ma non la buona volontà kantiana, la volontà che è conforme al dovere. La loro è una volontà senza direzione e triste, simile a una pulsione: è la volontà di riuscire, di affermarsi, è l’ebbrezza di arrivare, di esibirsi.

Va bene ragazzi, almeno spiegatemi come posso aiutarvi, rilancio io, tanto per rompere il silenzio. Anche su questo punto mi sembrano in alto mare, vorrebbero che gli suggerissi qualcosa, qualsiasi cosa. A quel punto capisco che il loro film è diventato il mio problema. È come se fossero venuti ad accendere un cero alla Madonna, chinano il capo, si rimettono alla Provvidenza. Molto ambiziosi e tuttavia fondamentalmente pigri – altrimenti non avrebbero tentato la carriera nel mondo dell’arte – amministrano le proprie forze con parsimonia, si guardano intorno, annusano la tendenza, cercano di capire come butta, ma di lavorare non se ne parla, rischierebbero di sbagliare.

Allora facciamo così, riprendo io con piglio risoluto, vi mando un esempio di come buttare giù un dossier, la nota del regista, un budget ecc. ecc. Una volta che avete preparato il documento proviamo a cercare un produttore. Il tono della mia voce li risveglia dal torpore, alzano di nuovo la testa, sorridono, mi sembrano felici, sollevati all’idea di potersene finalmente andare. Quindi mi alzo, gli stringo con decisione la mano come a suggellare un patto di sangue e li saluto. Allora siamo sul pezzo, forza!

Il film non si farà mai. Credo di poter dire che nessuno ne sentirà la mancanza.