Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Cosa c’è di più azzardato e intrigante che considerare una rivista come un libro?
Accade ogni tanto, nella storia della cultura, che un libro – un singolo, munifico capolavoro, uscito da Gallimard nel 1960 – esploda nell’aria e generi un’intera galassia di avventure della mente. Accadde mezzo secolo fa, in Francia e poi nel resto del mondo, con Il mattino dei maghi, opera delirante di surrealismo e magia nera, alta tecnologia futuribile e scrittura sperimentale, esoterismo e mistificazione, scritta da un allievo di Andrè Breton, Louis Pauwels, con l’aiuto fondamentale di uno scienziato russo naturalizzato parigino, Jacques Bergier. Un paio di stagioni dopo il clamore da best-seller, esattamente sessant’anni fa, nel mese di ottobre del 1961, Pauwels fondò Planète, che si può ben definire a tutti gli effetti come la rivista culturale più venduta di sempre: trecentomila copie ogni numero, sei edizioni straniere e diverse sorelle generate come costole, in una ramificazione editoriale che scontorna un’epoca irripetibile nella cronologia della produzione di conoscenza pubblica.
Ho tra le mani il numero 7 di Planète, comprato su eBay per meno di un euro: che meraviglia. Formato quadrato, immagini di statue antichissime, unghie di Persepoli e occhi d’argilla dell’età megalitica, come in certe copertine Adelphi: caratteri delicati e insieme grossolani, e un sottotitolo che recita così: ‘cronaca della nostra civilizzazione / storia invisibile / aperture della scienza / mondi futuri’. E dietro, in quarta, i nomi degli autori, tanto per chiarirsi subito: Roger Caillois, lo scrittore che ci ha insegnato che le discipline non sono casseforti ma piscine, Pierre Restany, il grande critico che accompagnò Yves Klein, e poi Robert J. Oppenheimer e Robert Graves.
Planète riusciva in qualcosa che a nessuno di noi riesce più, ovvero nel coltivare un filo di dialogo tra due voglie assai legittime – camminare alto e parlare con tutti, essere a un tempo popolari e high-brow. La rivista durò fino alla fine degli anni Sessanta, quando lo spirito lisergico aveva con ogni evidenza metabolizzato e umiliato i motivi più cari a Pauwels: un certo modo di raccontare la Tradizione, un certo modo di immaginare il passato, un certo modo di immaginarsi il XXI secolo. E poi: una passione per la fantascienza e una passione altra e tanta per la mitografia, con quel sano turbamento (poi brutalizzato da Voyager) nei confronti di società segrete, cospirazioni millenarie, nazismo e occulto (legame che indagò per primo proprio nel Mattino dei maghi).
Comprate quel che resta del ‘pianeta’, lasciatevi cullare dal disegno grafico di sublime bianco e nero, e capirete cosa manca ad alcuni entusiasti digitali di oggi, così terribilmente lontani dalla grande qualità nascosta dell’umanesimo: guardare al Mistero e secernere Fascino.