Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Di chi sono i diritti delle fotografie delle opere concettuali? Dal “Giornale dell’Arte” n° 210, maggio 2002
Sul finire degli anni Cinquanta, nel mondo occidentale, si diffuse un nuovo modo di «fare arte»: il creatore, attraverso un’azione comportamentale, attraverso un oggetto di uso comune, attraverso un assemblaggio di oggetti, esprimeva un concetto univoco, che assumeva, nella creazione, un valore centrale ed esclusivo, senza il ricordo alla imago pietà e di sprezzando l’ornamento decorativo.
Questo nuovo modo di fare arte è stato variamente indicato: Arte povera, Arte comportamentale, Arte concettuale e ne sono stati validi interpreti, in Italia, Pino Pascali, Gino De Dominicis, Luigi Ontani, Luca Patella, Eliseo Mattiacci, Vettor Pisani, Claudio Cintoli e numerosi altri.
Il punto di riferimento comune a tutti era la galleria “L’Attico”: Fabio Sargentini, che ne era e ne è tuttora il titolare, svolse un’azione di promozione di tale importanza che una mostra recente, alla romana Galleria Nazionale d’Arte Moderna, ha assunto addirittura a valore artistico la serranda d’accesso alla galleria allo stesso tempo cimelio e documento poetico.
Rammento, nei primi anni Settanta, alcune splendide performance: Gino De Dominicis («Lo Zodiaco») assemblava una «Vergine», un «Leone», un «Ariete», un «Sagittario» ecc, immagini per lo più viventi, o «fresche di giornata» (mi ricordo «I Pesci»: due splendide spigole, che venivano continua mente rimesse in frigorifero e poi riesposte!); Eliseo Mattiacci, alla guida di un compressore, appiattiva uno strato di pozzolana; Luca Patella percorreva un campo, con un metro («Terra misurata»); Luigi Ontani, in abiti seicenteschi, leggeva in silenzio un testo antico del «Don Giovanni» di Tirso de Molina; per non parlare della performance collettiva «Festival di Danza, Volo, Musica e Dinamite», con un’esplosione finale provocata da un candelotto di dinamite, gettato in una marrana della periferia romana.
Di queste performance, delle quali sono stato spettatore, mi rimarrebbe solo il ricordo (nostalgico, perché è un momento della mia vita ormai irrimediabilmente finito), se, a documento, non vi fossero le splendide immagini fotografiche dovute, per lo più, a un altro personaggio, il fotografo Claudio Abate, cui l’Accademia di Francia ha dedicato, nel dicembre e gennaio scorsi, una bellissima retrospettiva, incentrata sulle foto-ritratto. E proprio di questo voglio oggi parlare: quale sia il rapporto tra creazione e fotografia, in questo particolare segmento poetico.
Infatti le performance (uso a proposito questo termine neutro) costituivano altrettante invenzioni di Ontani, o Patella, o altri. Ma queste invenzioni erano per loro natura effimere: la Vergine (ammesso che lo fosse) e il Sagittario, dopo la mostra tornavano a casa; il «Leone» tornava allo zoo o al circo; l’«Ariete» tornava all’ovile; i «Pesci», presumo, venivano buttati, perché dopo la mostra non erano più commestibili.
L’effimero, come ha magistralmente dimostrato Maurizio Fagiolo dell’Arco, non è inconciliabile con l’arte. Per configurare questa, non è necessario, infatti, erigere un monumento «aere perennius», come diceva orgogliosamente Orazio. Anche il legislatore se ne è accorto, quando alla vecchia locuzione «I beni culturali sono testimonianze materiali aventi valore di civiltà» (termine usato negli anni Sessanta dalla Commissione Franceschini) ha sostituito «testimonianze aventi valore di civiltà», eliminando l’aggettivo «materiali», che non si concilia con le nuove idee sull’arte.
Ma l’effimero ha, per sua natura, una limitata tutela nella legge sul diritto d’autore. Più propriamente, questa si limita a prevedere, all’art. 80, che quando l’arte consista nel «rappresentare, cantare, recitare, declamare, o eseguire in qual-siasi modo» (in tal caso, l’artista è denominato «artista-interprete») la tutela sia concretamente prevista solo nel caso in cui l’effimero si materializzi nel cosiddetto «procedimento di fissazione»: una registrazione assolutamente neutra, che consenta la fruizione ex post della creazione artistica (come la riproduzione discografica).
Ma cosa succede quando la registrazione non si limiti a una mera presa d’atto, bensì interpreti la creazione: un caso, come direbbero i latini, di artifex additus artifici? Perché Claudio Abate, quando fotografava le performance, le interpretava e le ricreava, aggiungendo ad esse il suo proprio procedimento creativo. Che è anch’esso tutelato nella legge sul diritto d’autore (artt. 87-92), in quanto, giustamente, si è vista nell’opera fotografica una interpretazione del reale e di artisti-fotografi conclamati ne esistono ormai a bizzeffe, a partire dal mitico Nadar per arrivare, in anni più prossimi, a Man Ray.
E allora, come si conciliano i due diritti contrapposti? In altri termini: se Fabio Sargentini intendesse moltiplicare le inter-pretazioni tratte da Claudio Abate dalle performance di Luigi Ontani, dovrebbe accordarsi solo con il fotografo, ovvero con questi e con l’artista, oppure, nichilisticamente, con nessuno dei due? Si badi: dire «accordarsi con tutti e due» significherebbe riconoscere a ognuno una sorta di diritto di veto. Sempre per esemplificare, il creatore della performance potrebbe, a suo piacimento, negare il consenso alla riproduzione di una fotografia, così paralizzando l’interesse contrario del fotografo a diffondere la propria creazione.
E possibile ipotizzare che, ove insorga il contrasto, il Giudice Ordinario decida, caso per caso, a chi dare la priorità? Quest’ultima soluzione è certamente da scartare. L’assenza di qualsiasi parametro per stabilire quale dei contendenti debba prevalere non consente di devolvere la soluzione del conflitto a un Giudice, che deve applicare la legge e non il suo personale arbitrio.
E allora, tra le pieghe della legge, si potrebbe trovare la soluzione: l’artista-creatore, nel momento stesso in cui accetta la riproduzione della sua creazione da parte non di un onesto professionista, bensì di un fotografo-collega, perché riconosciuto artista, devolve a quest’ultimo il diritto sull’immagine fotografica e non potrà opporsi all’ uso che il fotografo intenda farne.
Mi sembra che la proposta abbia una sua convincente materialità: la fotografia-interpreta-zione appartiene all’autore del corpus mechanicum, mentre l’autore del corpus misticum ha il diritto di rivendicare la paternità della creazione contro chi intendesse disconoscerla. Tanto più che il corpus mechanicum ingloba anche il corpus misticum dell’interpretazione fotografica.
È una soluzione ragionevole e mi sembra non stravolgente. Questo basta: chi cercasse nel diritto la verità e la vita, non può non essere smentito. In tutti i campi, ma, soprattutto, in quello dei rapporti del diritto (inteso come regola) con la creatività che, per natura, a ogni regola sfugge.