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Gino De Dominicis

Achille Bonito Oliva* traccia un profilo dell’opera dell’artista: la mitologia, la morte, l’immortalità del corpo, l’invisibile, la figura femminile. Da “Il Giornale dell’Arte” n° 39, ottobre 1986

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Gino De Dominicis, “Lo Zodiaco” alla galleria L’Attico, Roma 4 – 8 aprile1970, ph. Fausto Giaccone

Generalmente l’arte occidentale ha adottato il metodo della rappresentazione allegorica che tende sempre verso l’astrazione. L’allegoria è sempre fuga e mistica del significato quindi distanziamento della fisicità a favore di una teatralità che garantisce lo spettatore dell’esistenza rassicurante di due piani: la finzione dell’arte e la realtà della vita.

Invece Gino De Dominicis adotta quello metonimico della presentazione formalmente elaborata, dove tutti gli elementi visivi concorrono a definirsi concretamente nella propria funzione e presenza. Il principio della presentazione corrisponde esattamente a quello dell’apparizione, alla capacità cioè dell’artista di produrre un’immagine che non appartiene al deposito visivo della storia dell’arte. I materiali e i mezzi espressivi adottati nel corso di questi anni sono stati quelli più consoni al risultato da raggiungere. I temi affrontati riguardano tra l’altro la mitologia, la morte, l’immortalità del corpo, l’invisibile, la figura femminile.

L’arte degli ultimi decenni in genere ha sempre operato in termini edipici, nel senso che ha sviluppato tematiche e linguaggi dentro l’alveo protettivo di una linea progressiva, consumando entropicamente l’energia culturale e iconografica della storia. In questo senso l’artista si poneva con la faccia rivolta al passato e con le spalle sbarranti il futuro. De Dominicis lavora invece in un sistema di temporalità circolare, in cui confluiscono contemporaneamente passato, presente e futuro. In tal modo l’arte si svincola dall’ipoteca strettamente contemporanea per aprirsi verso orizzonti più vasti e originali. La tensione dell’artista De Dominicis è stata ed è quella diretta verso una condizione non filiale, di chi adotta cromosomi iconografici di un particolare gene dell’arte avuti in eredità, ma piuttosto quella di chi attua l’autorità paterna di fondare nuove famiglie di immagini.

La circolarità adottata di una temporalità circolare permette a De Dominicis di non avere un senso né archeologico e nemmeno futuribile del tempo. Semmai parte della constatazione dei limiti spaziali di una cultura, come quella occidentale, che sostanzialmente progetta con paradosso il proprio passato. Per fondare le sue nuove famiglie di immagini, l’artista ha adoperato i materiali anche consoni al momento artistico, per comunicare con la sensibilità del corpo sociale. Perché se l’arte scavalca il presente e cavalca il futuro, è pur sempre vero che i mezzi espressivi adoperati hanno la capacità di promuovere un primo corto circuito con l’opera.

«Il tempo, lo sbaglio, lo spazio» (1970) presenta uno scheletro di uomo e di un cane con pattini a rotelle. In tal modo l’artista presenta un’opera che formalmente e dunque fisicamente rappresenta la tematica dell’immortalità e l’oscuro limite della morte mediante un insieme materiale che sconfìgge la smaterializzazione dell’oggetto dominante negli anni del concettuale. Infatti in quegli anni il grande artista era Piatone che, come dice Nietzsche, voleva «contemplare le cose solo nelle pallide immagini del pensiero». Anche altre immagini, appartenenti alla stessa famiglia, erano state realizzate dall’artista negli anni precedenti (1968-1969): l’asta in equilibrio, il secchio con il gancio nell’acqua, fino ad arrivare agli uomini sospesi nell’aria e al superamento del 2° principio della termodinamica e all’opera della Biennale di Venezia (1972) in cui accanto al mongoloide erano poste altre opere come la palla colta un attimo prima del momento del rimbalzo, il cubo invisibile e la pietra in attesa di un suo spostamento spontaneo, per colonna sonora una risata continua, diversa da quella gioiosa della statua della Madonna (1973).

 

Gino De Dominicis, Palla di Gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo, 1968-70, Collezione privata, Bari – Italia, ph. Beppe Gernone

Gino De Dominicis, Seconda soluzione di immortalità (l’universo è immobile. Sono tre opere già esposte precedentemente: il Cubo invisibile (1967), rappresentato da un quadrato disegnato per terra; la Palla di gomma (caduta da 2 metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo (1968) e Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra. Ma l’elemento che amalgama gli altri e dà consistenza all’opera – oltre a scandalizzare e indignare stampa e opinione pubblica, che porterà alla chiusura della stanza – è la presenza di Paolo Rosa, un giovane affetto dalla sindrome di Down, intento a osservare i tre oggetti seduto su una sedia, di fronte agli spettatori. 8 giugno 1972, XXXVI Biennale di Venezia

Attraverso l’evidenza concreta dei materiali, De Dominicis ha ribadito la necessità essenziale dell’arte di produrre mediante la propria intensità formale, un’emozione coinvolgente tutti i livelli psico sensoriali dell’uomo e non soltanto quelli strettamente mentali. Perché l’arte non è l’introduzione del piano inclinato della conoscenza, platonicamente avulsa da quello della realtà, semmai è la possibilità di risolvere le antinomie dei due diversi piani mediante la soluzione di un’immagine che sposta realmente il livello statistico del nostro panorama iconografico e generalmente visivo. Una conferma viene dalla presentazione dello Zodiaco (1970) realizzato, per la prima volta nell’arte attuale, fuori dalla convenzione vitalistica della performance, attraverso l’adozione di persone viventi ma immobili in una posizione precostituita dell’artista, come può avvenire con l’impasto di colori prescelti dal pittore, l’artefice completo dell’opera.

«La bellezza è innalzata tanto al di sopra del mondo sensibile che ne dimentichiamo le radici terrestri, umane» (Nietzsche). Tale principio risulta lampante nell’opera di De Dominicis tanto che dimentichiamo a memoria la materia ed accediamo alla soglia della bellezza, intesa come introduzione di un perturbante, formalmente fondato dall’immagine, precedentemente insospettabile.
Se, in queste famiglie di immagini, De Dominicis ha segnalato il limite del nostro presente, altre famiglie di immagini si affacciano al nostro orizzonte, mediante l’irruzione di una diversa iconografia realizzata con la materia della pittura, preconizzata nella sua manualità dal disegno di una donna (1970) e dall’esposizione degli omini colorati (1973).

Gino de Dominicis, Manifesto per l’esposizione “Lo Zodiaco”, 1970. Stampa offset cm. 62×96, realizzato in occasione della mostra “Lo Zodiaco”, Roma, Galleria L’Attico, 1970. ph. Fabio Sargentini

 

«Il limite non è il punto in cui una cosa finisce ma, come sapevano i Greci, ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza» (Heidegger). De Dominicis adotta il mezzo pittorico e lascia tra l’altro defluire dal passato immagini appartenenti all’universo iconografico dei Sumeri, un popolo con una cultura iniziatica che aveva fondato il proprio sistema espressivo nella centralità dell’immagine. In tal modo scatta un’affinità che scavalca il confine della pura ripresa iconografica per approdare alla fondazione di presenze che si affacciano sul nostro presente, arricchite dalla loro distanza storica e da un’identità alternativa alla sopraffazione logocentrica della cultura occidentale.

Queste immagini posseggono, nella loro asimmetrica costituzione, l’inquieto silenzio di una presenza reale. De Dominicis attraversa il tempo per fondare un’iconografia che si presenta nei caratteri di un’apparizione lampante, contestuale al nostro sguardo, che viene trafitto dalla vertigine di un diverso spazio mentale e materiale. Le figure, armate di occhi che ascoltano e nasi che guardano, si lasciano tenere dalla cornice del quadro ed emergono da interni che sono anche profondità felicemente squilibrate da un sistema di pensiero insieme intuitivo e soavemente lucido.

Gli anni ’80 di De Dominicis sono abitati da queste figure che vivono architetture articolate e fondali misteriosi, che trovano nella pittura lo strumento per abitare il nostro presente, ma senza patine archeologiche. Armate di aste, di mani furtive e di profili ironici, introducono il segno di una loro contemporaneità. Questo è possibile, in quanto l’artista ha realizzato l’opera e non si è fermato sul limite dell’enunciazione formale. Egli ha realizzato un processo di nascita che mette in vita immagini prima insistenti e non appartenenti al deposito della nostra memoria collettiva, visiva e generalmente culturale.

De Dominicis ha, con la perizia cieca dell’artista, saldato la temporalità di una storia separata. La circolarità di questo anello si rinsalda ancor più negli ultimi anni con l’ultima famiglia di immagini presentata nel 1986 nella galleria Mazzoli di Modena. Ora le immagini sembrano provenire dal futuro, figure dai nasi aggettanti e dall’occhio centrato talvolta unicamente, pronto ad occupare lo spazio occupato dalla ragione. Improvvisamente queste figure realizzate a diversa grandezza e colori che vanno dal blu al rosso e al nero, producono un perturbamento e un imprevedibile corto circuito con il nostro sguardo che, come dice Goethe, «vincendo ogni costrizione della cultura riesce a riemergere coll’innata crudezza dei selvaggi che amano le smorfie». Qui esiste il guizzo, il saettante turgore degli occhi e dei nasi che sembrano aspirare le contingenze precarie del nostro presente, con un risucchio silenzioso e maestoso. Gli occhi si tengono socchiusi per non vedere, forse esistono altri organi prensili che il futuro ci indicherà.Tutta l’opera di De Dominicis è tenuta sotto il segno di un tempo che si chiude in circolo, fuori dagli aggiustamenti della cronaca culturale, e si apre ad una sfida, quella dell’arte che non vuole più omologare o nobilitare il presente o il passato ma abitare un orizzonte sconfinato.

Gino De Dominicis, “Prospettiva rovesciata” 1991