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Paolo Fossati, il critico che non scriveva come un critico

Michele Dantini* recensisce l’antologia di testi critici di uno dei «casi» della cultura italiana. Intelligenza critica, conoscenza di prima mano di opere, artisti, situazioni, l’ossessione da topografo della cultura contemporanea, (citiamo dall’antologia): il «lettore di professione», il «critico militante», lo storico, il «teorico culturale». Storiografia e critica, interpretazione e teoria, condivisione e giudizio risultano sempre intrecciati in maniera relativamente indissolubile, al punto che spunti di polemica attraversano considerazioni di largo raggio, momenti di malumore increspano osservazioni illuminanti. Da “Il Giornale dell’Arte” n° 289, luglio 2009

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È singolare che a caratterizzare questa antologia sia un ordinamento non cronologico dei testi: proprio Fossati, nel 1985, contestava alla curatrice del volume dedicato agli scritti longhiani sull’Otto e Novecento di avere trascurato il più trasparente dei criteri. Ha senso, si chiedeva, «costruire una sequenza che va da saggi a testi per cataloghi e presentazioni di mostre, ad articoli per quotidiani e periodici», condurre il lettore per «le montagne russe» di una cronologia non lineare? La questione è piccola, ma non trascurabile. Per un critico e storico come Fossati sembra difficile, persino improduttivo, distinguere tra testi minori o maggiori, oppure figure professionali (citiamo dall’antologia): il «lettore di professione», il «critico militante», lo storico, il «teorico culturale». Storiografia e critica, interpretazione e teoria, condivisione e giudizio risultano sempre intrecciati in maniera relativamente indissolubile, al punto che spunti di polemica attraversano considerazioni di largo raggio, momenti di malumore increspano osservazioni illuminanti.

Potremmo parlare di Fossati, scomparso prematuramente da dieci anni, come di un «caso» della cultura italiana, proprio nel senso in cui Fossati stesso si compiace di indicare «casi». Vale la pena considerarne l’intelligenza critica, la conoscenza di prima mano di opere, artisti, situazioni, l’ossessione da topografo della cultura contemporanea. Al tempo stesso provarsi a ricostruire il contesto, spesso alluso o evocato, in modo malizioso o indiretto, entro cui si dispongono riflessioni e «conciliaboli», ricostruzioni storiche «a chiave» o a palinsesto, fascinosamente oscillanti tra la lettera del testo (gli anni Venti, Casorati, gli astrattisti italiani) e le possibili proiezioni contemporaneistiche (gli anni Sessanta, Fontana, Paolini, Pistoletto).

Il rapporto diretto con l’arte contemporanea entra in crisi attorno al 1970, quando Fossati recede dal ruolo di curatore dopo alcune mostre di interesse e livello nazionale. L’eccesso di intransigenza e cultura fanno problema. Il suo punto di vista è quello di «educatore nazionale» indicato dai buoni maestri della generazione precedente (Vittorini, Fortini, Panzieri). La sua ideologia di critico (e curatore) lo spinge a operazioni ragionate e in qualche modo prudenti, che provino a verificare nel passato recente opzioni presenti e future (non lontano, in questo, da Pistoi). Dialoga rispettosamente con Argan e con l’orientamento neoindustriale. Condivide con Brandi e Arcangeli la preoccupazione per la continuità di una storia culturale italiana, di una memoria messa in pericolo dalla modernizzazione consumistica del dopoguerra; e il culto di Morandi (si ricrederà in seguito).

La copertina dell’antologia, Paolo Fossati. La passione del critico, a cura di Gianni Contessi e Miriam Panzeri, 384 pp., ill. b/n e colore, Bruno Mondadori, Milano 2009.

Sovraccarica di responsabilità il proprio ruolo di critico, assumendo atteggiamenti eccessivamente censori. Reagisce con irritazione alle attitudini chiuse di clan e «tribù» che si vanno facendo largo tra le più giovani generazioni (molto significativa, in questo senso, la recensione acida e penetrante di Autoritratto di Carla Lonzi, critica e autrice che tornerà a stimare grandemente nei decenni successivi). È ostile a quella che chiama l’«accademia del nuovo» (lo afferma in una recensione dell’aprile 1967, dedicata al Museo sperimentale di arte contemporanea di Eugenio Battisti), e certo nutre profondi dubbi sul marketing poveristico: segue peraltro con attenzione l’evolversi della vicenda sin dal 1966, prima dunque del debutto genovese del movimento, quando recensisce, con eccellente capacità di interlocuzione, la mostra «Arte abitabile» che si tiene da Sperone (vi partecipano Gilardi, Piacentino, Pistoletto. Fossati ironizza sul termine «abitabile», che presenta in termini di commodity e design operazioni critiche, stranianti, decostruttive. Dichiara, dei tre artisti, di preferire Piacentino. La posta in gioco, per lui, è quella di una riflessione critica sul quadro, di una continua «messa in crisi» di statuti linguistici che rimanda agli «inglesi» contemporanei, Bacon e Sutherland, e attraverso di essi, possiamo immaginare, a Picasso e Degas. Argomenti immediatamente politici e modi da comizio sono per lui fuori causa, surrettizi.

«Coerenza e contraddizione»: il nuovo ha ai suoi occhi caratteri manieristici, «dialettici». In Italia «il rapporto costume, civiltà, cultura non sfocia in un territorio artistico (e in una società culturale) tali da fornire garanzie di sostanza e serietà»: questo, gramsciano e «politecnico» in origine, è il problema attorno a cui si muove Fossati. Il rapporto tra arte (o letteratura) e politica; la polemica antiromantica (e antitedesca); l’imperativo modernista della forma e l’altro, a suo modo eroico, della «ragionevolezza dell’uomo storico messo a confronto con gli ardori provvisori del guastatore». Esiste però la necessità di periodizzare il lavoro del critico, di illuminarne svolte, sia nel gusto sia nelle politiche autoriali e di scrittura. Non è questa la sede: possiamo solo limitarci all’indicazione di alcune cesure, e dei luoghi critici e testuali che possono raccontarle.

Ottobre 1971. Fossati scrive di Ugo Mulas. Riflette indirettamente sul rapporto tra immagine e parola, critica giudicante e condivisione di esperienze, critica e suo pubblico elettivo. «Testimonianza in prima persona [o] cronaca, interpretazione [o] convivenza»? Questo il dilemma. Qualcosa si è modificato, l’attitudine, anche nella scrittura, è più cauta e accostante: lo sarà sempre più, sino a trasformare il saggio in racconto, con il rifiuto di gerghi e terminologie. La posizione sovraordinata ed ex cathedra adottata in precedenza, quasi da critico anni Cinquanta, sembra non persuadere più. Troviamo un’ammissione, e l’indicazione di compiti futuri per la scrittura (critica). La carta di un nuovo territorio metodologico: più longhiano, se si preferisce, anche se pur sempre situato entro una storia e un’antropologia italiana che non concedono «al simbolico e all’espressionistico» (contributo indiretto al tema «Beuys e l’Italia», l’annotazione è in I dilemmi del designer, testo datato 1974).

Cena a Casa Sambonet. Milano, 1973. ph. Carla Cerati. Marco Zanuso (primo piano, architetto e designer), Paolo Fossati (seduto, critico d’arte), Roberto Sambonet (in piedi a sinistra, grafico), Guido Sambonet (in piedi a destra),