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L’uomo che guarda al futuro ha lo sguardo lieto

Trent’anni d’arte raccontati da Luciano Pistoi, in un’intervista di Adalgisa Lugli. Da “Il Giornale dell’Arte” n° 98, marzo 1992

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Gli intermediari

Luciano Pistoi è una di quelle figure che potrebbe identificarsi con qualche personaggio familiare agli storici dell’arte antica. Se ne incontrano di molto simili accanto agli artisti del passato. Chastel qualche anno fa li aveva definiti «gli intermediari», personaggi chiave del mondo dell’arte, consiglieri di grandi collezionisti, assidui frequentatori degli artisti, capaci di affermare un gusto o nuove ricerche. Nel mondo dell’arte contemporanea, che in genere è frequentato da persone che non sembrano affondare le loro radici molto indietro nel tempo, ma soprattutto oggi in una situazione dispersa e caotica, con una grande confusione dei ruoli, ci può essere qualche difficoltà a collocare una figura come quella di Luciano Pistoi.

È stato un gallerista tra i più importanti d’Italia, dal 1958 con la Galleria Notizie a Torino e promotore della conoscenza dei maggiori artisti europei e americani fino agli anni Settanta e di diverse mostre alla Galleria d’arte moderna di Torino prima della chiusura per restauro. Oggi il suo ruolo è più sfumato, ma non meno importante. È dietro le quinte di alcune gallerie, soprattutto di quelle che presentano i giovani. Organizza mostre, con le sue scelte, al Castello di Volpaia in Chianti, e una fiera di gallerie a Firenze la cui terza edizione aprirà il 2 aprile alla Fortezza da Basso. Non vuole essere definito mercante, ma poi ha una grandissima considerazione per questa figura e trova che sono pochissime le persone degne di portare questo nome o Investirsi in questa funzione. Non scrive, non si auto storicizza.

È continuamente in movimento, pieno di contraddizioni e insieme di intuizioni felici. Parla come gli artisti di avanguardia, o meglio come gli artisti di avanguardia non parlano di più. Odia i musei, la didattica, le masse con i cataloghi in mano e la burocrazia dell’arte. Vuole continuamente essere sorpreso e meravigliato da ciò che vede. Viaggia da una città all’altra, da uno studio, da una mostra, da una galleria all’altra e tutto va in un fiume di parole. Nei momenti di crisi, suoi personali o di tutti, non dà segni di rallentamento, anzi accelera ancora di più la sua corsa. Gli piace molto fuggire verso qualcosa che non è nel presente, mostrarsi irragionevole o volere in ogni momento facendo la realtà facendo finta che non esiste. Ma ha idee molto precise e qualche ricetta singolare e curiosa da suggerire, come uno squarcio che si fa strada tra le parole.

Torino 1958

[Adalgisa Lugli] Siamo a Torino, la sua città, una città dalla quale non sa mai staccarsi completamente e che è stata la prima, ai suoi anni, a mostrare certi artisti, certi esperimenti. Come la vede oggi e ancora, da quanti anni è nel mondo dell’arte e come ci è entrato?

[Luciano Pistoi] Ne sono passati più di trenta. Ho aperto la galleria nel ’58 e tanto per dire come andava allora il mercato dell’arte, ho aperto una galleria, perché era l’unico modo per mostrare l’arte, e così è successo a me e ai miei amici di allora. Cito Guido Le Noci che era il proprietario della Galleria Apollinaire di Milano che è stata forse la più bella galleria d’Europa in quegli anni, Beatrice Monti che a Milano aveva l’Ariete, Gian Tommaso Liverani che era il proprietario della Salita a Roma. Siamo diventati galleristi per disperazione, perché nessuno ospitava l’arte che piaceva a noi. Io per mostrare alcuni capolavori di Wols ho dovuto aprire una galleria. Questa era la situazione e questa era la missione del mercante d’arte. Oggi è tutto cambiato.

[AL] La parola missione…

[LP] Sì, noi l’abbiamo ritenuta una missione, forse ci siamo un po’ illusi ma ci sembrava una missione. Ci sembrava doveroso partecipare con gli artisti alla loro avventura, cercare di aiutarli e quindi venderli, di promuoverli.

Wols

[AL] Come è entrato nel mondo dell’arte qui a Torino?

[LP] Sono entrato perché mi hanno presentato il fratello di Wols, era il direttore dell’Agfacolor di Milano. Wols era una leggenda in quegli anni, Wols e Pollock erano due grandi leggende. Mi ha mostrato una raccolta di gouache, quadri e incisioni di suo fratello e ho voluto esporle. Prima ho trovato ospitalità nello studio dello scultore Franco Garelli, questo va ricordato. Attrezzammo il suo studio a galleria e organizzammo la prima mostra. In questa mostra fu esposto il famosissimo «Fantasma azzurro» di Wols che è forse uno dei suoi capolavori, e che la Brizio ha poi messo in copertina del suo libro sull’800 e il ‘900. Dopodiché ho ripetuto questa mostra inaugurando la mia nuova sede di galleria. C’era tutta l’opera incisa ed era una mostra straordinaria perché Wols è veramente un artista importantissimo, quello che dà il la a tutta l’arte che poi viene chiamata in modo stupido «informale».

[AL] È lui che disgrega la forma. Che anno era? Il ’58?

[LP] Sì, il ’58. Questo atto di nascita è interessante. Se ben ricordo Le Noci aprì la galleria per mostrare un grande dipinto di Savinio che di chiamava «Il matrimonio», un’opera bellissima che lui aveva e che non riusciva a far vedere perché c’era la più totale indifferenza. Adesso siamo passati al lato opposto. Tutto è cambiato. Per questo sostengo che le gallerie d’arte moderna sono morte come funzione, perché quel compito oggi lo assolvono istituzioni, musei, assessori, sottoscala di municipi, di Comuni…

Le fiere sono orrende

[AL] Ma che cosa pensa di questa crisi del mercato dell’arte di cui tutti parlano?

[LP] C’è una crisi nel modo di mostrare l’arte che inevitabilmente trascina anche una crisi di mercato. Lei pensi all’arte finita nelle fiere. Insomma, le fiere d’arte sono la cosa più abominevole che abbiano inventato negli ultimi anni, sono orrende. Questi mercanti in fondo da una funzione culturale si sono ridotti alla funzione di mostrare questa roba, mandarla al mercato nel vero senso della parola. Io nella mia follia ho anche tentato di fare una cosa diversa, una fiera a Firenze che per me doveva essere come un ritorno, come dire: si presentano le gallerie che mostrano bene degli artisti, non che portano un prodotto da vendere; mostrare quindi una mostra fatta dai mercanti. Questa era la mia idea, non so che cosa abbiano capito alla fine, perché la nostra categoria si è molto inquinata, ci sono ora tante persone che all’arte sono interessate marginalmente. L’inquinamento viene da questi personaggi e dai musei che hanno inquinato moltissimo per arroganza, per giochi di potere pesantissimi, per cui l’arte non è tanto libera…

[AL] Ma cosa pensa dei mercanti?

[LP] Sono molto divisi e molto individualisti e anche un po’ arroganti. Oggi una situazione critica come questa deve far affinare le idee. Si dovrebbero inventare nuove forme di collaborazione perché nessuno è così bravo da scoprire solo dei geni. In realtà c’è anche un atteggiamento generale che tende a trattare i mercanti come appestati. Non capisco perché un industriale, un finanziere sono meglio di un mercante d’arte. Questo dovrebbe essermi spiegato. Per esempio, per quale ragione a Torino si fanno convenzioni tra la Regione e gruppi finanziari e non con gruppi di mercanti. Un gruppo di mercanti dovrebbe essere meglio per l’arte che un gruppo di finanzieri.

Una mostra bruttissima

[AL] Poco fa ha detto che l’arte non è libera come si potrebbe credere…

[LP] No, anzi direi che si attraversa un momento durissimo e Torino secondo me è un esempio tipico, essendo una città che ha avuto anni straordinari. È stata una capitale dell’arte contemporanea, soprattutto per merito di gente come me, Sperone, che hanno fatto dei lavori incredibili, di Carluccio… Di Passoni… Di Passoni e del vecchio Viale persino. La Galleria d’arte moderna di Torino ha fatto mostre bellissime, l’arte americana a Torino si era vista benissimo in quegli anni e adesso al Lingotto si vede malissimo. Questo fa vedere a che punto l’inquinamento è arrivato. La mostra dell’arte americana del Lingotto si fa proprio nella città che ha capito per prima l’arte americana. Il primo Pollock l’ho esposto io al Circolo degli Artisti.

[AL] In che anno?

[LP] Nel 1958 ma abbiamo esposto anche Franz Kline, Rothko, abbiamo fatto mostre di Stella, di Noland, di Morris Louis, li abbiamo fatti tutti gli americani, li conoscevamo benissimo. A Milano c’era Beatrice Monti che faceva Rauschenberg e tutti gli altri e poi è venuto Sperone che ha fatto i Pop. Quindi l’arte americana in Italia era conosciutissima, a Torino soprattutto.

[AL] Con che scarto di anni rispetto agli Stati Uniti stessi?

[LP] Certe volte penso che siamo arrivati a capire i loro artisti prima di loro. Io mi sono trovato in America a parlare con persone e ho visto che forse eravamo più avanti noi di loro. Lei pensi che il premio Ariete del ’58 è stato vinto da Franz Kline. Queste cose vanno ricordate quando vedi una mostra come quella del Lingotto. C’è la presenza di Ben Shahn che è stato un pittore importantissimo nell’ambito figurativo di prima della guerra, e nella mostra è rappresentato solo da una piccola tempera. Ben Shahn è stato in Italia moltissimo, era un uomo delizioso. Carla Lonzi, questa critica d’arte leggendaria, ha fatto la sua tesi di laurea su Ben Shahn, con Roberto Longhi. E nel Chianti c’è un signore che ha la più bella collezione di Ben Shahn, ma naturalmente chi fa le mostre non lo sa. Chi organizza le mostre oggi non sa niente. È gente improvvisata. È molto triste vedere una città che non sfrutta le forze che ha e non si capisce il perché succede. Allora vai a vedere questa mostra e questa mostra è bruttissima. Sull’arte americana una mostra più brutta di così non si poteva fare.

Il Castello di Rivoli

[AL] Che cosa pensa del Castello di Rivoli?

[LP] È un’altra istituzione che richiama molta gente. Io ci vado molto volentieri. Ci sono degli amici che lo dirigono e auguro loro felicità e fortuna, però le dico: è sempre un revival. Vado lì e vedo tutte cose che ho già visto, che ho già esposto, quando mi piacerebbe vedere invece cose che non conosco. Le assicuro che quando si va a una mostra, si va con la speranza di vedere cose che non si conoscono. Rivoli fa rivivere una grande stagione dell’arte torinese.

[AL] Se lei fosse il direttore, avrebbe esposto gli artisti che ha mostrato negli anni Cinquanta?

[LP] No, però se avessi dovuto fare quegli artisti, avrei chiamato le persone che allora li avevano presentati a Torino, era un gesto doveroso. Se io avessi del denaro, lo utilizzerei per sbloccare delle situazioni nuove e non per chiudere quelle già esistenti. L’immaginazione del futuro è una cosa che bisogna avere. Busoni disse una cosa bellissima: «L’uomo che guarda al futuro ha lo sguardo lieto», e questo può succedere a un costruttore di aeroplani come a un artista. Qui a Torino stanno pietrificando ogni cosa e si sta verificando una situazione che è molto simile a quella che abbiamo trovato noi un tempo con la famiglia Casorati. Quando ho cominciato io a Torino, questa famiglia, per altro rispettabilissima, aveva da circa vent’anni un po’ il dominio della situazione. Sono passati trenta e più anni e a Torino c’è nuovamente un’altra famiglia, forse due, che hanno di nuovo il monopolio della città. Le cose si ripetono, e io penso che un artista giovane provi adesso la stessa rabbia che provavamo noi quando eravamo giovani. Casorati era veramente un grandissimo pittore, ma aveva una moglie, un figlio, una nuora e dipingevano tutti. Non potevi fare una mostra senza il consenso di questa famiglia. Non voglio per niente sminuire il valore di Casorati, però era così, era un uomo molto prepotente.

[AL] Era un uomo di potere?

[LP] Era un uomo di potere e la situazione sta ripetendosi…

I Casorati

[AL] Ma Casorati era un pittore. Adesso mi sembra che le persone che contano non siano pittori, ma piuttosto un entourage…

[LP] Sono anche pittori ed alcuni oggi sono anche molto potenti e producono molto danaro. Bisogna stare attenti. Ci sono alcuni pittori che sono quasi finanzieri, ormai tanto è il denaro che maneggiano e anche Casorati era potente per questa ragione. Era un pittore che guadagnava molto. Vendeva molto ed era ammirato e stimato. Gli uomini più potenti di Torino erano Casorati e Valletta, me lo ricordo benissimo. Per rinnovare il passaporto ci voleva uno dei due e te lo rinnovavano in 12 ore. Oggi grazie a Dio non siamo più a questi livelli, però questa chiusura c’è ancora.

Vede noi abbiamo usato il museo di Torino con Vittorio Viale che in fondo era un istintivo avversario dell’arte moderna, perché veniva da tutt’altre esperienze, però è stato un uomo di grande signorilità e gentilezza e ha ospitato mostre bellissime. Io lì ho fatto mostre da Burri a Fontana, a Picabia, abbiamo fatto di tutto in quel museo. Altri hanno fatto Franz Kline, Yves Klein, si è fatto proprio di tutto, era una galleria famosissima nel mondo, forse la più attiva, la più attuale di allora. Venivano da tutta Europa a vedere, non era per niente provinciale allora l’Italia, eravamo aperti a tutto. Noi abbiamo portato questi artisti in tutto il mondo. Fontana e Burri esponevano da Martha Jackson che era il più grande mercante d’arte americano di allora. Era quella che aveva il contratto con Pollock, erano figure leggendarie. Castellani esponeva lì. Questi artisti li abbiamo portati in tutto il mondo, non eravamo per niente provinciali. Voglio vedere oggi chi li porta.

La situazione è che gli italiani non escono più all’estero portati dalle gallerie, questa è la terribile verità purtroppo. La nascita di questi nuovi musei che tutti abbiamo auspicato pensando a tempi migliori, in realtà secondo me ha creato tempi peggiori perché ha bloccato la crescita dell’arte, la vivacità. Ti danno un quadro sbagliato della situazione. Bisogna tornare a visitare gli studi per sapere che cosa fa l’artista e che cos’è l’arte. Nei musei tu vedi sempre le stesse cose ormai. Li fanno gli stessi architetti, ci mettono gli stessi quadri, è una cosa noiosissima.

Chi ha detto che l'arte deve moltiplicare il denaro?

In questi ultimi anni la proliferazione del mercato ha contribuito a fare entrare nel campo dell’arte degli oggetti che probabilmente sono in eccesso. Sì, ci sono anche molte persone in eccesso; girando molti soldi in mezzo sono entrate in questo ambiente delle persone che non sempre sono quelle che amano l’arte. In questo ultimo mese ci sono stati tre o quattro dibattiti su arte e denaro solo tra Milano e Torino.

L’arte è sempre stata vicina al danaro perché gli artisti lavorano per persone che hanno del danaro. Michelangelo lavorava per i papi, che avevano moltissimo danaro, ma c’è modo e modo. Qui veramente si pensa che l’arte sia una cosa per moltiplicare i soldi, ma non è un modo di avvicinarla e tanto meno per capirla. Ora si è rovesciato il concetto. Si legge l’arte in base al suo costo, ecco perché c’è la crisi quando ti accorgi che il costo non è più quello. Un quadro che costi poco o costi molto, se è bello è bello, se è brutto è brutto e non cambia niente tutta questa storia.

È che tutta questa massa di gente che è entrata nel mondo dell’arte non ha le idee chiare, non ha criteri di qualità, non ha educazione estetica, mentale, non ha passione. No, non ha niente di tutto questo. Ci sono persone che non hanno alcuna educazione però hanno una grande passione e un grande intuito e sono quelle che noi amiamo di più. I veri collezionisti sono così, sono persone che hanno un intuito folgorante del quale a volte rimani sbalordito e dai quali devi imparare moltissimo. La frequentazione dei collezionisti è interessantissima, perché il collezionista procede con un istinto, un fiuto e una tenacia veramente sorprendenti. Parlo di quelli veri naturalmente. Sono pochi ma grazie a Dio sono anche tanti. Ma oggi sono veramente subissati da una massa di persone che tratta solo sui consigli dei giornali finanziari o delle case d’aste. Pensi all’importanza oggi delle case d’asta. È una sede abbastanza squallida per vedere l’arte. È tutto questo che va in crisi oggi. Sì, perché nel momento in cui la società attraversa una crisi economica, tu ripensi all’arte in maniera diversa, stai attento, ti poni il problema di dove mettere i soldi. E devo dire che il problema c’è, perché li hanno messi malissimo e soprattutto non si moltiplicano come speravano. Ma perché l’arte deve fare moltiplicare il denaro? Chi l’ha detto? Non voglio neanche dire che è un buon investimento, perché tutto sommato è un mediocre investimento. Ci sono investimenti migliori, si possono investire i soldi in tante altre cose, ma perché nell’arte? L’arte se ti piace la acquisti. Certo io non penso che l’artista debba avere una ostilità nei confronti del mercato, il mercato può essere anzi un elemento amico dell’artista. Se non fosse così non avrei fatto questo mestiere, lo dico francamente, e quindi ho sempre combattuto questo atteggiamento degli artisti, che rifiutavano il mercato negli anni Sessanta e Settanta, perché in fondo era falso. Ma ora c’è una forma di depravazione in questa storia e secondo me sono colpevoli di questo un po’ anche gli artisti che dopo tutta quella polemica, sono passati esattamente alla parte opposta, a vendere il loro prodotto in una maniera un po’ industriale, molti artisti sono diventati piccoli industriali. Cioè si sono messi soprattutto a ripetere… A ripetere sì, direi quasi vittime del mercato, ma non sempre. In qualche caso sono gli artisti che hanno in mano il mercato, non dimentichiamolo. Gli artisti sono molto più ricchi dei mercanti. I mercanti non sono più ricchi. Questa è la grande verità che nessuno vuole ammettere. Già in America gli artisti pop a un certo punto sono diventati i padroni delle gallerie pop. Sono loro che dettano legge. Sono loro che fanno il danaro. Ma in Italia questo è un fenomeno recente. Sì, da quattro o cinque anni. In tutto il mondo è un fenomeno recente. Ma negli Stati Uniti è cominciato prima. È cominciato con la Pop Art. In fondo Leo Castelli, tanto mitizzato, è il primo mercante totalmente succube dei suoi artisti, che subisce fino a farne dei finanzieri, perché io credo che certi artisti pop americani siano proprio degli uomini di finanza. Se hai tanti soldi cosa fai? Li devi investire. Lì è avvenuto questo fatto nuovo.

Ma negli Stati Uniti i musei hanno giocato un ruolo molto forte. L’Italia è imparagonabile. Vede, a me piaceva molto l’Italia fino a qualche anno fa, perché era un Paese che aveva tantissimi collezionisti, dei fanatici dell’arte. Nascosti.

Nascosti, ma tanti che hanno tenuto in piedi tutta questa baracca e pochissimi musei, quindi il gioco era aperto, era libero e bellissimo. Sta cambiando, non so dire perché, ma sta cambiando.

Kassel è uno dei luoghi più brutti del mondo

[AL] Non certo perché nascono musei nuovi: ci sono solo tre musei d’arte contemporanea in un intero Paese…

[LP] No, il vero motivo è che questo collezionismo italiano non può più stare al passo con un gioco di speculazione, come è avvenuto all’estero, dove certi artisti hanno ottenuto certi prezzi in base a giochi complicatissimi di danaro, che qui in Italia non ci sono, forse perché non abbiamo quel denaro o forse perché agli italiani non interessa quel gioco. Non è facile capirne le ragioni, però l’Italia sta attraversando un momento gravissimo, rischia di essere esclusa. Sì, gli italiani cominciano a far fatica ad andare all’estero perché si dice che non fanno prezzo. Lo si sente dire. Non fanno prezzo perché non sono sostenuti dal mercato: ma quale mercato li deve sostenere? Io spero che tutto questo non si avveri mai, perché sarà la rovina. Perché sostenere questi artisti significa inevitabilmente sacrificarne tanti altri e nessuno di noi è in grado di fare delle scelte così sicure. Vai ad una conferenza su Kassel e senti tre poveretti che scelgono gli artisti e uno li sceglie per l’Italia e ti chiedi come si permettano di chiamarlo. Credono di fare delle scelte dure, assumono l’aria da giustizieri e tu dici: ma come si permettono? Ma no, non si avvicina l’arte in quel modo! Non c’è bisogno di giustizia, l’arte è tutta una ingiustizia ed è bello che sia così. Poi il direttore di Kassel viene presentato come un ex-pugile. Questa è una cosa che fa veramente impressione, come fa impressione che l’arte venga trascinata in luoghi così brutti. Kassel è uno dei luoghi più brutti del mondo, dove tutti vanno malvolentieri. L’arte viene trascinata in posti brutti e alla fine questa cosa si paga.

Da sinistra: Luciano Pistoi, Lucio Fontana, Sconosciuto e Franco Garelli, Torino 1959