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«Caro Longhi, come si sente a vivere con un genio?»

Il 3 settembre 1985 muore a Firenze la scrittrice Anna Banti, vedova dello storico dell’arte Roberto Longhi e presidente della Fondazione Longhi. Aveva 90 anni. Alvar González-Palacios ne ha scritto questo ritratto postumo per la serie «Persona e maschera», in esclusiva per “Il Giornale dell’Arte” n° 27, ottobre 1985

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I rapporti di Anna Banti con la storia dell'arte?

Difficili a definire in quanto la scrittrice fu moglie di Roberto Longhi e dunque preferì (o fu costretta?) a mettere in ombra una formazione professionale a cui era stata avviata dal marito che fu suo maestro (per quanto fra loro corressero solo cinque anni di differenza di età). Non voler essere seconda a nessuno imboccò la strada della narrativa. Da giovane aveva scritto alcuni studi su vari pittori seicenteschi, firmandoli col suo vero nome, Lucia Lopresti. Poi nulla. No, nulla no. Lascia infatti due importanti saggi monografici, uno su Lorenzo Lotto e un altro su Giovanni da San Giovanni (pubblicato, questo, quando ormai aveva più di ottant’anni, nel 1977).

Come erano questi scritti? Belli, certo, pur tuttavia letterari, dettati in chiave tardo-ottocentesca quando la critica d’arte voleva ricreare nella prosa l’ arte stessa, voltare in poesia la poesia. La sua lingua, preziosa e cesellata ben si adeguava a questo mestiere, sciorinando immagini lucenti e colpi di violenti chiaroscuri che, qua e là, illuminavano la sostanza di cui si trattava. Per quanto bizzarro, mi si creda, non è un complimento da poco.Fu Mario Praz (in un articolo del 28 giugno 1953 su «Il Tempo») ad individuare queste sue virtù: «Quella della Banti è una vera e lettura propria dell’opera di Lorenzo Lotto: una traduzione scritta in una prosa molto vivace e complessa dei valori figurativi del pittore», notando ancora che il libro e lo stile appartenevano all’indirizzo estetico di un Walter Pater. O di un D’Annunzio, aggiungo io. Questa precisazione non sarebbe stata gradita alla narratrice: i figli, si sa, odiano quasi sempre i genitori e il vate di Pescara non era passato se non con sussiego a Il Tasso oa Poveruomo. 

Le case dei Longhi a Firenze e nei pressi di Forte dei Marmi

Anna Banti fu sempre in grado di capire i dipinti per quanto, altera estinare opinioni personali, vivendo vicino ad un mago del mestiere. Qualche volta, però, quando era sola, apriva bocca per dire cose opportune, talvolta illuminanti. Buona conoscitrice, riuscì, ad esempio, ad definire un’opera capitale dell’eroe del suo secondo volume. La storia dell’arte ebbe enorme peso anche nella sua narrativa, e basti ricordare il suo celebre lavoro su Artemisia Gentileschi. Certo, qui entrava di pari passo anche un altro lato della sua mente: l’ossessione interesse per la posizione della donna nella società e nella cultura. Femminismo poco avvincente in quanto troppo esplicito, come pure altre sue fisime sull’illibatezza: non amava la maternità, ad esempio, lei che madre non fu, al punto di far sterilizzare sempre le sue bellissime gatte.

Pungente e polemica, il commercio con quel cuore fiammeggiante era arduo. Un giorno amabile e affettuosa, capace di gesti generosi e gentili, era anche in grado, il giorno dopo, di scoccare frecce al curaro. Qualche esempio. Sera di gala in una casa patrizia a Firenze. La signora in ghingheri, molto avvenente (mantenne una straordinaria «tenue» fino alla soglia della morte), mèche (naturale) nei capelli, perle stupende al collo, degna di qualche sorriso i vicini. Giunge una nobildonna («come sta, che piacere vederla qui… che bel vezzo…») che le rammenta un loro incontro di tre giorni prima. Eccola rispondere rapidissima: «Ci conosciamo, cara? Tutto può darsi». Non ebbe mai rapporti pacifici con gli allievi del professore. Molti anni fa Longhi aveva deciso di regalare un suo vecchio fumando ad un che doveva andare ad un ballo. Queste telefonate e parla con la signora. La quale, livida, ordina al vecchio cameriere: «Ottavio, faccia a pezzi lo smoking del professore e così potrà pulire l’argenteria un po’ meglio… Non solo vengono a succhiarti la scienza – disse subito al marito – ma ora vogliono anche il resto…».

Se i rapporti con gli alunni furono combattuti, quelli col mentore erano addirittura drammatici poiché improntati da sentimenti profondi quanto imperscrutabili. Non solo vengono a succhiarti la scienza – disse subito al marito – ma ora vogliono anche il resto…». Se i rapporti con gli alunni furono combattuti, quelli col mentore erano addirittura drammatici poiché improntati da sentimenti profondi quanto imperscrutabili. Non solo vengono a succhiarti la scienza – disse subito al marito – ma ora vogliono anche il resto…». Se i rapporti con gli alunni furono combattuti, quelli col mentore erano addirittura drammatici poiché improntati da sentimenti profondi quanto imperscrutabili.

Un urlo sovrumano

Verso il 1965 Longhi si ammalò gravemente di cancro. La Banti si rifiutava di prendere atto di questa circostanza e così, poco dopo l’operazione a cui il marito si sottopose, quando ancora era sofferente, quasi cianotico, e poteva camminare a malapena, la vidi dargli una spinta decisa: «Muoviti, non hai nulla, possibile che tu sia sempre così lamentoso?». Ma nel 70 il medico curante di Longhi morente dovette spiegarle ciò a cui si’ad incontro. Un urlo sovrumano, la testa battuta contro il muro: la signora subì allora il distacco della retina.

La sua inarrestabile volontà, il suo potere di lavoro, la sua straordinaria forza di concentrazione, l’impegno quasi mostruoso che metteva in ciò che faceva, restano inimitabili. Ogni giorno passava ore ed ore davanti al foglio bianco finché trovò quel che doveva dire. Non demordeva mai, nemmeno malato. Credo che il grande nemico di Roberto Longhi ammirasse queste sue capacità. In occasione dei novant’anni del rivale, nel 1955, Longhi fece pace e fu lui a portare a Bernard Berenson la laurea honoris causa dell’Università di Firenze. Seguirono pranzi e dotti conversari. In un’occasione Berenson, in mezzo al silenzio religioso che regnava alla sua tavola quando parlava, esordì: «Mi dica, caro Longhi, come si sente lei a vivere insieme a un genio?». Il professore, spesso imbarazzato in società, abbassò lo sguardo.

Fino in fondo Donna Lucia (come la chiamavano i pochi intimi) ha continuato imperterrita le sue fatiche, senza tenere conto dell’età e degli acciacchi. In questi quindici anni divanza ha portato a termine quelle che sono forse le sue opere migliori, rinnovando ogni giorno sé stessa in un periodo in cui si suole tacere. Molte energie vengono dedicate alla Fondazione Longhi (voluta per testamento dal professore) che, malgrado infinite difficoltà, ha già avuto un suo peso nella vita accademica europea. La gloriosa rivista «Paragone» da lei fondata assieme al marito nel 1950, l’ha avuta come guida per ben trentacinque anni e, per quanto il tempo si faccia sentire, continua ancora a godere indiscusso prestigio.

Questi stessi anni di solitudine non sono stati occupati esclusivamente dal lavoro:
In quei giorni un giovane editore di Milano la chiamò a Firenze ed ebbe immediata risposta telefonica: «No, caro, non posso vederla… come sa sono a Napoli, mi chiami quando torna a Firenze». Il giovane restò perplesso: la Banti era sì a Firenze ma forse, non sicura di sé, era davvero, in forma mentis, a Napoli. Testimone, protagonista, madre e matrigna… certo, con lei si volta definitivamente una pagina della cultura italiana di questo secolo, una pagina talvolta brillante, talaltra ambigua e persino disumana. A chi meglio si dice l’assioma degli antichi: nessuna cosa è vera se non è vero anche il suo opposto.

Anna Banti con in braccio una delle sue gatte, 1960, ph. di Marisa Rastellini