Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Dall’Astrattismo all’Arte povera: la cronologia dei luoghi, persone e tempi della rara, forse unica, «avventura internazionale» di una città italiana nel dopoguerra. Da “Il Giornale dell’Arte” n° 108, febbraio 1993
Nessun’altra città in Italia ha mantenuto per così lungo tempo, vent’anni buoni, la privilegiata postazione di Torino sul fronte dell’arte europea e mondiale. Torino città-calamità, frontiera non solo geografica ma anche intellettuale e culturale; Torino dotata d’energia centripeta, capace di accogliere, mutare, assimilare quanto di nuovo le provenisse dalla Francia, e poi dagli Stati Uniti, financo dal Giappone: così vuole documentarla la mostra aperta dal 4 febbraio al 25 aprile al Castello di Rivoli (cfr .Il Giornale dell’Arte, n.107, gen. ’93, p.10) E soprattutto una vicenda scandita da presenze e visite decisive; un dibattito critico che vede impegnati Luigi Carluccio come Michel Tapié; Pistoi come il giovane Celant.
Un susseguirsi di tendenze e di rinnovamenti, ma anche di avvenimenti registrati dalle mostre allestite alla Promotrice delle Belle Arti (le sette edizioni di «Francia-Italia»), alla Galleria Civica d’arte moderna, al Circolo degli Artisti (che accolse per primo l’Art autre e gli espressionisti- come tratti americani); nelle stesse gallerie private. Giunsero così, in persona, in spirito e in opere, Balla e Depero, de Chirico, Savinio, Picabia, Melotti, Burri, Fontana, Fautrier, Mathieu, Tàpies, la Nevelson, Klein, Manzoni, Schifano, Castellani, Giacometti, Bacon, Gnoli, Sutherland, Rauschenberg, Dine, Johns, Lichtenstein, Andre LeWitt, Nauman, Barry, Kosuth, Weiner; nacque l’Arte Povera.
Vent ‘anni vissuti in un’intensità straordinaria come la complessità di quell’alternarsi di voci sempre all’avanguardia, che ora lo stesso Germano Celant, Ida Gianelli e Paolo Fossati provano a riassumere in un ‘«Avventura internazionale» che tocca tanto le arti visive quanto l’architettura; il teatro e il cinema come la fotografia. Una multidisciplinarietà seguita in mostra e in catalogo dai tre curatori e da un’équipe composta da Gabetti e Isola, Gian Piero Brunetta, Cesare De Seta, Alberto Papuzzi, Gianni Vattimo, Mario Messinis, Paolo Pinamonti, Guido Davico Bonino e Maurizio Fagiolo dell’ Arco che, nella cronologia qui di seguito (che verrà pubblicata nel catalogo della mostra, edito da Charta), rende conto di una Torino che, se la tradizione vuole città magica, nelle arti è stata soprattutto tempestivamente magnetica. il teatro e il cinema come la fotografia.
Una multidisciplinarietà seguita in mostra e in catalogo dai tre curatori e da un’équipe composta da Gabetti e Isola, Gian Piero Brunetta, Cesare De Seta, Alberto Papuzzi, Gianni Vattimo, Mario Messinis, Paolo Pinamonti, Guido Davico Bonino e Maurizio Fagiolo dell’ Arco che, nella cronologia qui di seguito (che verrà pubblicata nel catalogo della mostra, edito da Charta), rende conto di una Torino che, se la tradizione vuole città magica, nelle arti è stata soprattutto tempestivamente magnetica. il teatro e il cinema come la fotografia.
Una città del dopoguerra: i bombardamenti, la resistenza, la liberazione, le macerie. Da rimettere in piedi le case e i palazzi, ma anche le istituzioni e la cultura. Il primo punto di riferimento diventa l’Unione Culturale (quasi un organo di quella giunta di sinistra che ha preso il potere nel 1946), ma non basta, se Cesare Pavese scrive a Fabrizio Onofri (7 settembre 1947): «All’inizio era nettamente di sinistra, ma non dava luogo a manifestazioni né a discussioni in questo senso. Si accontentava di dare concerti, organizzare recite, mostre, conferenze e proiezioni. Era più che altro una combutta artistico mondana caldeggiata soprattutto dai pittori per esporre le loro opere». Il collezionismo è scarso e per giunta si rivolge all’800 e ai fiamminghi (ancor oggi, due specialità torinesi), Casorati e i «Sei» hanno fatto il vuoto intorno a sé, l’editore Einaudi non è interessato all’arte moderna. Ma la città è vivace e vitale, riservata quanto appassionata, e destinata perciò a diventare in pochi anni (a mio avviso) il polo più interessante d’Italia (la persona più difficile da conquistare è un torinese; è un torinese l’amico che forse non perderai mai).
Nei dossier seguenti cercherò (con scarse annotazioni, visti gli apparati filologici del catalogo e la didattica mostra che affianca questo testo) di ritrovare il clima dell’Astrattismo (o meglio Concretismo); di analizzare le mostre Francia-Italia che contrassegnano gli anni ’50; di individuare i visitatori illustri; di indicare dissidenti ed eccentrici; dimostrare come Torino diventi il centro dell’«Art autre» (la corrente più viva degli anni ’50); di come si doti di un Museo che diventa esemplare negli anni Sessanta e poco oltre; di vedere come passi dall’amore per la figura all’esaltazione della Pop Art, per arrivare all’Arte Povera (l’icona e l’iconoclastia)… Tutti momenti specifici di Torino, che la rendono unica nel panorama italiano.
Il rilancio dell’Astrattismo che ebbe una fievole vita a Milano negli anni Trenta si deve soprattutto al Movimento Arte Concreta che ha soprattutto i suoi profeti in Gillo Dorfles, Gianni Monnet, Bruno Munari, Atanasio Soldati; la sede nella Libreria Salto; le filiali un po’ dovunque, Torino. Ecco la situazione vista da Paolo Fossati: «Inauguratasi verso 1947 una stagione astratta a Torino, tra il 1950 e il 1953 si ebbe un avvio verso forme geometriche: nel 1952 Biglione, Galvano, Parisot e Scroppo firmano un manifesto di adesione al Mac, in occasione di una mostra alla Sala Gissi: ma presto resteranno su quella via solo Galvano, Carol Rama e la Levi Montalcini». I fatti che precedono l’arrivo dell’Astrattismo o (meglio) Concretismo a Torino sono molteplici.
Nel 1946 sono da notare gli interventi di Max Bill su «Domus» (ricordo una delle sue chiusure: «Il gioco delle forme, delle linee, delle direzioni, dei volumi, l’apertura e la chiusura dello spazio, il rapporto fra spazio e idea raffigurata, costruita secondo determinati interiori, non possono essere raggiunti se non con la costruzione concreta. Le sue basi di ampliare un vasto campo di possibilità e impressioni, di cui il già realizzato non è che l’inizio»). Nel marzo 1947, il penitente manifesto del gruppo Forma si proclama «astrattista e marxista». E poi c’è l’attività dell’Art Club voluta da Enrico Prampolini (ma c’è anche Gino Severini e perfino l’appartato de Chirico) che seppe svilupparsi in un vero piano di ricostruzione della cultura europea in Italia: e ne parlo qui perché il gruppo nel 1949 arriverà in forze a svegliare Torino con una mostra internazionale che si tiene all’Unione Culturale.
Ma di mezzo c’è un evento notevole. La mostra «Arte italiana d’oggi – Premio Torino 1947», che si tiene a Palazzo Madama, nasce (come si legge nell’introduzione) «con lo scopo preciso di raccogliere e di conoscere le nuove forze e le nuove correnti della pittura e della scultura che stanno prendendo forma in Italia, dalla fine della guerra». Il «gruppo di artisti e letterati torinesi» che lo promuove è formato da Mattia Moreni, Umberto Mastroianni, Ettore Sottsass jr, Oscar Navarro e Piero Bargis. La mostra concede uno spazio ai «maestri», i protagonisti dell’anteguerra, che sono in un vicolo cieco, come nota sempre il catalogo: «È evidente come i massimi fautori della pittura italiana dei trent ‘anni passati si trovino ad una svolta che per ora non ha uscita». Eppure, Luigi Carluccio, critico de «Il Popolo Nuovo», ha paura che questi «obblighi di cortesia» siano in realtà un alibi per i nuovissimi pittori. Sospetta che hanno avuto via libera a Palazzo Madama «soltanto (o in maggioranza davvero curiosa) le opere che portavano il visto d’un qualche italico Picasso» ; denuncia «chiari perciò i limili etici, estetici e persino politici del panorama del “Premio Torino”».
Ma chi sono questi «nuovi» che inficiano (eticamente, esteticamente e perfino politicamente) il Premio Torino? I veneziani Vedova e Pizzinato, i milanesi Cassinari e Morlotti, Peverelli, il torinese Moroni… Uno dei premiati, Armando Pizzinato, annota su «L’ Unità» (Torino 23 marzo) che ha trovato a Torino «un punto vivo di incontro tra un ‘attesa all’avanguardia, da parte di alcuni autentici progressisti, e una risposta d’avanguardia che la giuria ha dato, pronta e decisa come un fioretto che tocca il segno». E torna alla «I Mostra internazionale dell’Art Club» che si tiene nel 1949 all’Unione Culturale (Palazzo Carignano). Ci sono i protagonisti della «ricostruzione», da Gino Severini e Enrico Prampolini (ma il presidente della mostra è pur sempre Felice Casorati che non dimentica di aver allestito nel suo studio nel 1935 la mostra dei giovani astrattisti milanesi). Tra gli stranieri, noto Torres Garcia e Alechinsky. Tra i pittori di una certa età ma rinnovati: Capogrossi, Afro. Tra i giovani: Dorazio, Turcato, Rotella, Accardi. Gli espositori torinesi sono Galvano, Scroppo, Parisot, Carol Rama (e c’è anche un gruppo di maestri degli anni Trenta).
Una prova generale di quello che saranno a Torino gli anni Cinquanta. Ma, per tornare alla pittura, i torinesi non vogliono certo restare all’ombra della Mole o nei caffè Baratti o Torino… nel 1951 partecipanti alla mostra «Arte Astratta e concreta in Italia» (una sorta di ottimistico censimento) alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Il testo di Albino Galvano precisa il lavoro dei compagni (non dimentichiamo che Galvano pubblicava nel 1940 e nel 1947, nella storica collana di Scheiwiller, una monografia su Felice Casorati): «Non può certo stupire che anche a Torino siano proprio gli artisti più responsabili di fronte ad un loro mondo interiore a volgersi a questa pittura: si tratta di Filippo Scroppo, impegnato in un purismo che è trasposizione figurativa di una tensione religiosa e politica vissuta secondo i dati del rigorismo calvinista, o del muoversi di Adriano Parisot in quel mondo di presenze meccaniche che incombe su tanta parte dell ‘arte di oggi, o la dis articolazione e ricostruzione allusiva della forma operata da Eugenio Guglielmetti». Nella raccolta dei «Documenti d’arte d’oggi» del Mac del 1952 appare il «Manifesto del gruppo torinese» (Biglione, Galvano, Parisot, Scroppo): «Se il nome stesso di “arte concreta” – sorto dall’esigenza di definire un nuovo atteggiamento dello spirito in ordine non soltanto ad una negazione polemica o ad un processo di “astrazione” dal dato ottico o mnemonico sta a significare il desiderio di rigore di chi ha rotto ogni ponte con tradizioni storicamente esaurite – per quanto gloriosa possa esserne stata altra volta la vita – per sostituire loro la ricerca d’una diretta “presentazione” di oggetti in cui si vengano obiettivando i bisogni spirituali dell ‘uomo, come negli strumenti del suo lavoro quotidiano sì proiettano i suoi bisogni materiali: l’aderire ad un movimento di “arte concreta” non può non implicare una responsabilità liberamente assunta sul limite più impegnativo, staremo per dire “più aggressivo” di lotta contro ogni conformismo o pigrizia intellettuale». Nella raccolta dei Documenti d’arte oggi» del Mac del 1955-56 troviamo il catalogo della mostra personale di Carol Rama (presentata da Dorfles) oltre alla partecipazione alla mostra della Galleria del Fiore di Milano di Galvano, Parisot, Scroppo (accanto agli astrattisti storici o al Gruppo Espace).
Nel 1954 nasce la rivista «I 4 soli – rassegna d’arte attuale» (dura fino al 1969, e ho fatto in tempo a collaborarvi) promossa da Adriano Parisot. Le voci dei grandi vecchi (Prampolini, Severini, Giannattasio) si alternano molto presto a quelle d’uno scompaginato presente o d’un malcerto futuro (Wols, Pollock, Vasarely, tra i tanti). Chi sfoglia oggi quelle pagine (dalla caratteristica impaginazione «anni Cinquanta») ha l’impressione che l’Europa è di casa a Torino: soprattutto nei primi cinque anni, un lavoro esemplare. Nella raccolta dei «Documenti d’arte d’oggi» del Mac nel 1958 troviamo i cataloghi delle mostre personali di Paola Levi-Montalcini, Carol Rama, Albino Galvano, Mario Becchis. Il catalogo che li segue è quello degli achromes di Piero Manzoni: un’epoca è finita…
Già che ci siamo non sarebbe male una disgressione sulla critica d’arte torinese. Nel dopoguerra sono molto attivi Albino Galvano («La Nuova Stampa»), Piero Bargis («l’Avanti»), Filippo Scroppo e Luciano Pistoi («L’Unità»). Nel 1953 Marziano Bernardi torna a scrivere sulle colonne de «La Stampa» facendone l’organo del (pur onesto) tradizionalismo e conservatorismo. A «La Gazzetta del Popolo», Luigi Carluccio alterna l’amore per il passato a imprevedibili aperture. Angelo Dragone è sempre vivace (dal 1960 recensisce le mostre su «Stampa sera») anche nei cataloghi di gallerie. Un fatto è da notare: la tempestività di tutti questi giornalisti che interpretano il loro lavoro come cronaca immediata e critica istantanea. Molte le polemiche rimaste famose. Quella sul Premio Torino nel 1947 riempie colonne di piombo; memorabile quella che si scatena nel 1948 a proposito della venuta a Torino della Collezione Peggy Guggenheim (esposta in estate alla Biennale di Venezia), bloccata da ceppi politici. Negli anni Settanta è molto vivace il ruolo di Paolo Fossati, che scrive su riviste e presenta cataloghi e mostre storiche. Nel 1978 «La Stampa» si presenta con una pagina dedicata all’arte (Angelo Dragone e il «nuovo» Marco Rosci) finalmente di livello nazionale.
Torino sembra un punto di passaggio obbligato sulla via Parigi-Milano-Germania. Nel marzo 1950, Paul Eluard tiene la conferenza «Poesie de circostance» al Teatro Carignano. Nel marzo 1953 Jean Cocteau, l’enfant terrible, nello stesso teatro, conversa col pubblico. Il 19 maggio, più severa la performance di Tristan Tzara: parla dei doveri della poesia nella moderna società all’Unione Culturale. Nel frattempo, arrivano i teatranti: Jean Louis Barrault nel 1952, Jean Vilar nel 1953. «L’artiste et son temps» è il tema della conferenza di Albert Camus nel novembre 1954 ai «Venerdì letterari».
Per non parlare del viavai di intellettuali di sicuro avvenire (c’è chi ha un passato, ma non tutti) che si alternano, magari per visite alla casa editrice Einaudi. In questo accelerato teatrino, amo immaginare a Torino, non i soliti, ma certamente ignari, bloccatori culturali (alludo ai venerabili, venerabilmente tradotti e imposti: Gyorgy Lukàcs, Bertolt Brecht, Theodor W. Adorno) ma a quei fantasmi carichi di futuro, evocati forse da Italo Calvino che va dipanando nei primi anni Cinquanta la sua fiaba di visconti e baroni… Da Jorge Luis Borges (Finzioni – La biblioteca di Babele appare nel 1955 tradotta da Franco Lucentini) a Samuel Beckett (Aspettando Godot è tradotto da Carlo Fruttero nel 1956) a Eugène Jonesco (tradotto nel 1958)… Tra parentesi: saranno la fonte per le generazioni più inquiete degli anni Sessanta (penso per tutti a Giulio Paolini). E poi gli uomini (e le donne) dell’immagine. La surrealista pentita Leonor Fini (espone alla Bussola nel 1952), Georges Braque (sempre alla Bussola nel 1953) ; e poi quella marea di astratto-concreti con l’erre moscia traghettati dalle mostre «Francia-Italia». E, Certo, l’aristocratico e accigliato Balthus che ha una mostra (auspice Carluccio) prima alla Galatea (1958) e poi nel carrozzone «Italia-Francia» (1961).
È nell’ottobre 1951 che apre al Parco del Valentino la prima mostra dal titolo speculare: «Peintres d’aujourd’hui, France-Italie / Pittori d’oggi Francia-Italia». Nella prima edizione, la commissione è duplice: quella francese vede Raymond Cogniat e René Huyghe, Jacques Lassaigne, Jean Cassou e Jean Leymarie; quella italiana ha come segretario Vittorio Viale, mentre la commissione è formata da Arcangeli e Argan, Ragghianti e Viale, Vitali e soprattutto quel Luigi Carluccio che sarà un po’ il padrino dell’annuale confronto. La linea oscilla tra astratto e figurativo: tra i consigli di Lionello Venturi e le reprimende di Roderico di Castiglia. Un certo tono «moderno» accosta Afro a Gruber, Vedova a Fougeron, Hartung a Guttuso, Moreni a Manessier, Pirandello a Pizzinato, Licini a Romiti, Severini a Soulages, Vieira da Silva (e poi i soliti classici, Casorati in testa).
Nel settembre 1952 la commissione è simile. Si vede di nuovo: Vasarely, Fontana, Birolli, ma la mostra non è poi tanto lontana da uno di quei premi che sono l’unica speranza di denaro per un sistema dell’arte che vive il suo piano Erp. L’appuntamento del 1953 si presenta più aperto. Una retrospettiva è dedicata a Jacques Villon, e ci sono omaggi a Bissière e Léger, Casorati e Mafai, Pougny e altri. Tra gli espositori «nuovi», Soulages e Pignon. Dopo la sosta del 1954, la quarta mostra si tiene nel 1955 a Palazzo Madama. La mostra si caratterizza per le due retrospettive: Louis Marcoussis da una parte, Atanasio Soldati dall’altra. Particolari omaggi (come recita l’occhiello) sono dedicati a Roberto Melli e Jean Metzinger, Nicolas de Staël e Georges Valmier, Nicola Galante, Ossip Zadkine (sembra attivo e trionfante il vizio di «commissioni interne» di altri enti). Tra i «nuovi», da notare, Scialoja Saroni, Arturo Martini, Estève, Brunori…
Torna al Valentino la quinta edizione nel 1957. Ormai la commissione esecutiva è ristretta: Carluccio, Cogniat, Lassaigne, Viale. Due retrospettive sono dedicate a Fernard Léger e Osvaldo Licini (morirà l’anno dopo). Un particolare omaggio è reso a Jean Le Moal e Ennio Morlotti, Castone Breddo e Pierre Soulages, Carlo Corsi e Andre Masson; generazioni e correnti a confronto (casuale). Importante, l’omaggio a Giacomo Balla, ancora vivo e residente a Roma in via Oslavia (dio dei giovani dell’astrattismo) che deve proprio a Torino la sua «resurrezione». Tra i pittori nel salon, da notare Bram Van Velde, Scroppo, Dova e Ghignine, Dorazio e Burri… (Una parentesi è doveroso riservarla alla «Mostra d’arte moderna» che annualmente promuove Torre Pellice. La prima è del 1949 con introduzione di Filippo Scroppo, una biennalina o quadriennalina di indubbio interesse. Noto nella quinta edizione, 1954, l’ introduzione del ventiquattrenne Edoardo Sanguineti; e poi i contributi di Angelo Dragone e Renzo Guasco, i genii loci. L’ultima a me nota è del 1958).
La mostra del 1959 capita nel clima di rinnovamento che noteremo dal 1958. Torino diventa patria dell’«Art autre» di Michel Tapié, ma anche di un appassionato interesse per la figura (quella che dà vita, per intendersi, alla mostra del MoMa « Nuove immagini dell’uomo»). La commissione è quella dell’edizione precedente; gli omaggi sono per Auguste Herbin e Ennio Morlotti, Luigi Spazzapan, ma anche per Deyrolle e Vieira da Silva, Romiti e Paola Levi Montalcini, Cassinari e Zao Wu Ki. Avanza l’Informel ma con (torinese) prudenza. La settima e ultima mostra coincide con le manifestazioni di «Italia 61», e si tiene nel nuovo organismo che Torino si è data, la Galleria Civica d’Arte Moderna (Marella Agnelli firma il viatico in catalogo). Gli omaggi sono particolarmente significativi: Balthus e Campigli («figura» sì, ma venata di astratti stupori). Le venticinque opere di Balthus (esposte già tre anni prima, nell’aprile 1958, da Carluccio alla Galatea) lo pongono indubbiamente al centro dell’attenzione degli intellettuali più emaciati o dei pittori un po’ esangui, più che del pubblico vero e proprio. Quanto all’ «Art autre», sembra trionfare, ma con il solito ragionato cocktail (correnti o amicizie).
Una mostra che dura quindi dieci anni, che cambia sedi e commissari, che il passaggio dalla ricostruzione (astrattismo/realismo) al nuovo clima informel (ma senza artisti del calibro di Jean Dubuffet). Un salon che potrà riservare qualche sorpresa quando saranno accessibili i documenti (il retroscena) di un aplomb che trova il suo «garante» in Luigi Carluccio, il leader torinese di una certa situazione (il «suo» Casorati è ancora vivente). Le critiche? Come al solito in Italia, non è una mostra scambio: resta un pallido episodio la presentazione di un settore «Francia Italia» alla Galerie Charpentier di Parigi nel 1960. Quanto sembrano lontani i tempi di Marinetti che, prima di convincere l’Italia, vuole conquistare l’Europa; di Mario Broglio che, per «Valori Plastici», lavora in Germania e a Parigi, muovendo dall’intorpidita Roma; o della signora Sarfatti che trascina il carrozzone del ‘900 dall’Europa continentale all’estremo nord, fino alle Americhe, del sud e del nord… C’è poi un tarlo di fondo. In queste mostre dedichiamo istituzionalmente a Parigi, si coglie a malapena che la capitale dell’arte sta cambiando. New York non è più tanto lontana…
Torino sembra sotto la cappa (un po’ ingessata e plumbea) di Felice Casorati; anche se va a suo onore l’aver ospitato nel 1935 i giovani astrattisti milanesi nel proprio studio. Tutti prendono (o vorrebbero prendere) ordini da lui: pittori e critici.
Eppure, nella sua galleria di fiducia (La Bussola in via Po, diretta da un gentiluomo, Giuseppe Bertasso) viene lasciato il campo a molti (come del resto fatto Casorati nell’anteguerra con la galleria La Zecca diretta con Paulucci). Viene lasciato campo libero al cosiddetto «secondo Futurismo»; (Mino Rosso espone nel 1951); ai vecchi caposcuola del ‘900 (Filippo de Pisis, ormai ricoverato a Brugherio espone nel 1952) ; nel 1950 cede cavalierescamente il campo al dioscuro stanco, Alberto Savinio, che tiene una mostra con una trentina di pezzi, suona «La vita dell’uomo», tiene la conferenza «Io e la musica». Uno spazio è perfino concesso all’Avanguardia (Alberto Burri espone alla fine del 1957; Mario Merz esordisce nel 1954). La Bussola ambisce a le ultime novità: gli «ultimi naturalisti» di Francesco Arcangeli (una mostra del 1954); la corrente astratto-concreta di Lionello Venturi (nel ’56 espone il gruppo Cassinari, Pirandello, Morlotti, Birolli); i giovani informali del «Milione» presentati nel 1958 da Marco Valsecchi. Una personale di «opere scelte» di Casorati (luglio 1955) segue una mostra presentata da Carluccio (nel gennaio) col titolo emblematico: «Niente di nuovo sotto il sole» … Ma il vero dissidente è Italo Cremona. Alla fondazione di «Paragone», ricordando il suo spirito acre e sottilmente illuminato, Roberto Longhi gli ha concesso una rubrica intitolata «Acetilene».
Nel 1952 espone anche lui nelle sale de La Bussola; nel 1955-56 pubblica i cinque numeri di «Circolare sinistra», la rivistina bizzarra condotta col vecchio amico di «Strapaese» (collaborarono negli anni Trenta) Mino Maccari: una piccola tribuna dove si parla di simbolisti e di surrealisti, dove si combatte il «modernismo» (come fa il Grande Metafisico, da un altro versante ). Un lavoro che si concludeva col volume edito nel 1964 (e che ricordo con passione), Il tempo dell’Art Nouveau. Con le sue «armi improprie», Italo Cremona (amico di Savinio) dipinge quadri che somigliano a pagine scritte, scrive pagine che somigliano a scenografie organizza (penso a L’antipatico condotto sempre con Maccari alla fine degli anni Cinquanta) che sembrano scenografia. Ricordo quanto dichiarò a Guido Ceronetti: «Guarda che l’assenza, anche giustificata, dal Luogo Comune, è punita: punita sempre. È considerata una malattia, non infettiva, però ugualmente da richiedere certe cautele».
Uno spirito autonomo ed eccentrico (da poco riconosciuto) è Carlo Mollino. Un uomo che esercita arti diverse, impaurito della razionalità, uno spirito allegro che (parafraso Savinio) diffida dalla «verità». Non ci sono «le» verità, anzi, quanto più alto il numero delle verità, tanto più bassa la possibilità di una verità sola. Nostro compito è di aumentare il numero delle verità, fino a rendere impossibile la ricostituzione della «verità». Compito sacrosanto. L’uomo che crede in una sola verità (dio unico, principio unico) reca in sé il germe della pazzia… E allora comincia con la letteratura: nell’anteguerra scrive su «Casabella» e «Il Selvaggio», testi che qualcuno potrebbe poter definire «humour noir». Si interessa di aeronautica e di automobilismo. Si occupa della fotografia: è edito da Chiantore nel 1945 l’ineffabile librone. Il messaggio della camera oscura. Studia le segrete leggi dello sci: le edizioni Mediterranee pubblicano a Roma nel 1951 Invito al discesismo. E poi le polaroid piccanti e il sesso non tanto velato: il produrre per tutto mobili viventi, vivaci, vitali. Impossibili, come (per chi non l’ha mai visto) sembra inconcepibile un millepiedi. Un lavoro paziente in cui l’artigianato vuole sublimare, in un conscio teorema, l’io e l’es. ha mai visto).
Michel Tapié, Un Art autre – ou il s’agit de nouveaux dévidages du réel, Gavriel-Giraud et fils, Paris 1952: inizia un’epoca diversa (autre) che stranamente arriverà a coinvolgere Torino con la quale Tapié stabilisce ponti sicuri pochi anni dopo e dove si trasferirà nel 1960 con il suo «International Cen-ter of Aesthetic Research» (presidente Ada Minola). Non è la bibbia quel libro, ma le somiglia. Perfette le scelte francesi, nordiche, Usa, nel nuovo clima: da Pollock a Dubuffet, da Fautrier a Wols, da Mathieu a Tobey, da De Kooning a Hartung, da Soulages a Appel, da Rothko a Sam Francis. Peccato che la sua informazione sugli italiani sia relativa: giusta la presenza di Capogrossi, sfumata quella di Dova, discutibili di Sironi e Marino Marini. In breve tempo, grazie all’azione di gallerie come Notizie di Luciano Pistoi, ex giornalista de «L’Unità» (apre nel 1957 con le mostre di Wols e di Jorn) il verbo dell’«Art autre» (una etichetta che Tapié modifica presto in «Informel») trova a Torino la sua fortuna sicura.
L’arte che si dice «informale» è il modo di esprimersi di diverse mentalità sconvolte dalla realtà dei disastri della guerra, ma è anche in certo senso la ricerca d’una estrema Internazionale. L’idea fissa è quella di proiettare sullo schermo della tela ribellione e paura, materialismo e primordialità, nevrosi e orgasmo. Nella babele delle definizioni (Abstract, Expressionism, Abstraction Lyrique, Action Painting, Cobra, Spazialismo, Nuclearismo, Informel, Gesto, Materia, Tachisme…) si avverte proprio l’incapacità di dare una etichetta univoca a quello che, più di una ricerca artistica, è un disorientato stato d’animo. «Un art autre». Le matrici sono in diversi territori. In arte, questi pittori sono eredi prima di tutto del Surrealismo (Breton riconosceva che il suo movimento era la tipica espressione di una esasperata crisi tra le due guerre): riprendono le tecniche automatiche, la fiducia nell’inconscio, la preminenza dell’immaginazione, la poesia della ribellione.
C’è poi lo sguardo rivolto a Oriente: la bussola della storia sta spostandosi verso la contemplazione, l’azione aspira all’inazione, la filosofìa Zen è presente in moltissimi artisti del periodo. C’è poi la coscienza del pensiero nuovo: la filosofìa dell’Esistenzialismo, la psicanalisi ribelle di Reich, la letteratura della Beat Generation. Si tratta di un’arte, insomma, sottilmente colta: che nasce in un clima da palingenesi, non certo dallo sciuscià ma dal beatnik, dall’hypster, dal blouson noir, da gente insomma che cerca una nuova cultura (e una nuova tradizione) lontana dai sistemi tradizionali di potere. Sono interessanti le diverse tappe critiche, proprio perché i gruppi non si formano da soli (a parte i «Cobra») ma nascono come raggruppamenti «critici». Subito dopo la guerra, bisogna tendere l’occhio alle diverse mostre curate da Michel Tapié, che tra l’altro procedeva alla riscoperta di Francis Picabia (una radice dada del movimento). Soprattutto una delle sue mostre, «Vehémences confrontées» nel 1951, presenta un chiaro raggruppamento: Bryen, Capogrossi, De Kooning, Hartung, Mathieu, Pollock, Riopel-le, Russel, Wols. L’epigrafe è presa da Picabia: «Le problème de la connaissance ne se présente à nous que lorsque nous commençons à comprendre dans quelle mesure nous pourrions nous passer de comprendre». Da parte sua, Tapié chiede tutto il potere per «l’anarchie totale du Réel». La sua teoria arriverà alla decantazione in un libro dell’anno dopo, Un art autre.
A questa data, si può dire che l’esperienza di ricerca germinale sia conclusa: poi vengono dieci anni di approfondimento da parte dei protagonisti, e l’accorrere di nuovi adepti. Tra gli anni ’40 e ’50, in un ventennio (vent’anni dopo il Surrealismo), sono molti gli artisti a muoversi nell’art autre. Da una parte affiora l’inquieta metafora esistenziale di Wols che muove da Klee per arrivare al «cuore dell’universo», dall’altra la sapiente ingenuità di Dubuffet il materiologo. Da una parte il gesto magniloquente di Mathieu, dall’altra la paziente ricerca sulla materia di Tàpies. Da una parte l’intuizione bruciante dello Spazialismo di Fontana, dall’altra il caos solennemente organizzato di Burri. C’è poi la calligrafia nevrotica di Michaux, l’indagine sul segno di Hartung, il «sound and fury» di Vedova. A parte, la violenta operazione-colore del gruppo Cobra: un repechage quasi delle nevrosi di Munch e dell’espressionismo tedesco. E così via. Il tempo dell’«Art autre» è stato il momento di una sapiente follia (la stessa, durante l’altra guerra, che dava vita all’anarchia di Dada), di una fiducia ancora illuminista nel ruolo dell’individuo e dell’intellettuale. Il tempo d’una squilibrata saggezza.
Una svolta nella cultura italiana si deve al nuovo territorio scelto dal profeta per la sua opera di proselitismo. Alcune mostre hanno segnato un’epoca: «Arte nuova» del ’59 (con Pistoi) presenta i contributi europei americani e giapponesi, fino a «Strutture e stile» del ’62 alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino (con Moretti). Nel ’60 apre a Torino l’«International Center of Aesthetic Research», un punto di riferimento alla vigilia del declino del «movimento» autre. Molto interessante la sua posizione riguardo al pensiero artistico orientale. Nel libro “Continuité et avangarde au Japon” del ’61 scopre nell’«art de vivre» giapponese le radici d’una «tradition vivante» che è quella dell’arte autre. Una tradizione che ha in sé i succhi stregati della religiosità e della filosofia, che perfino sottintende il pensiero nicciano. L’astrazione fa parte quasi naturalmente del pensiero orientale, come anche «la nozione della contraddizione» sconosciuta all’occidentale. C’è poi il momento del grafismo lirico e il cosiddetto «spazio qualitativo», cioè un tipo di composizione anti-cartesiana e non euclidea. Ma la sua teoria pura è fissata nel libro “Morphologie autre” del ’60 edito a Torino. È una attitudine che si identifica con le nozioni di continuità, unicità, vicinanza (mutuate dalla teoria scientifica degli insiemi) che vengono a sostituire le classiche nozioni di ritmo, equilibrio, composizione, proprio come la materia è venuta a sostituire le nozioni di forma e bellezza. Due soli movimenti hanno posto le basi d’un nuovo pensiero: Dada («canto del cigno» del classicismo) e Surrealismo («forma e bellezza» come supporto d’una magia misteriosa).
In definitiva, Tapié ha dato vita a un clima di libertà o liberazione, di nuove mitologie legate non all’idea ma al materialismo. Questo pensiero, tipico d’un dopoguerra, quasi naturalmente coincide con il periodo della ricostruzione.
Informale, aformale, informel. Ma chi sono gli informali a Torino? Ruggeri-Saroni-Soffiantino, grazie all’appoggio di Luigi Carluccio diventano in pochi anni quasi una ditta: e fanno una pittura di tono esistenziale, lirica e onirica a un tempo («ultimi naturalisti» in certo senso). Paola Levi Montalcini e Albino Galvano (coltissimi, tra l’altro) sperimentano una sorta di astrattismo surreale, dove Jung e il simbolismo si coniugano all’insegna della materia (nel frattempo Galvano, già compagno di banco di G.CArgan, scrive le sue eccentriche pagine). Anche Carol Rama accelera il suo magma fantastico. Non sono da trascurare alcune presenze, discrete ma anche profonde, come quella di Piero Rambaudi e Gino Gorza. Insieme a Ruggeri e Saroni, Luciano Pistoi presenta, nel gennaio 1957, Mario Merz in una plaquette intitolata «Tre nuovi pittori aformali». (Forse non è male ricordare tra parentesi che inizia le pubblicazioni l’editore Boringhieri, destinato a diventare un punto di riferimento per gli studi psicoanalitici).
E l’attività delle gallerie? La Bussola si interesse anche all’«Informel»: nel 1963 presenta «Undici pittori americani» (Motherwell, Sam Francis, Marca-Relli, e altri; nel 1964 Jean Dubuffet; nel 1965 Burri (le Plastiche); nel 1967 Wols e Fontana. Ma sembra la galleria Notizie il tempio del-l’«Art autre». Presenta nel 1958 Wols; nel 1958 dedica un numero della rivista al gruppo Gutai (fondamentale per il futuro di un’arte basata non più sull’oggetto ma sul soggetto), Lucio Fontana nel 1960, Jean Fautrier, Georges Mathieu, Mark Tobey; nel 1961 Asgerjorn, un gruppo di americani (Francis, Gorky, Kline, Nevelson, Rothko, Tobey, Twombly, presentati da Carla Lonzi). Nel 1962 Louise Nevelson e Cy Twombly (non ancora «romano»), Antoni Tàpies; nel 1965 Lucio Fontana. La vague informale sembra placarsi con il cambio di galleria nel 1966. Una mostra determinante si tiene nel maggio-giugno 1959 al Circolo degli Artisti in Palazzo Graneri: «Arte nuova-1959 Torino», organizzata da Michel Tapié e Luciano Pistoi. Una specie di incontro al vertice tra gli americani e i giapponesi (cari a Tapié), gli italiani informali e segnici, i nordici colorati. Una sorta di benvenuto all’arrivo torinese dfì Tapié.
L «International Center of Aesthetic Research», la tana dell’Informel, si inaugura nel 1960 con una mostra collettiva e con la pubblicazione del libro-manifesto Morphologie Autre di Michel Tapié. Nel 1962 una mostra di Fontana è accompagnata dal bel libro Devenir de Fontana (sempre editi da Ezio Gribaudo), e così via tra europei (Hans Hoffmann, Antoni Tàpies) e giapponesi (Sofu Teshigara), e nuove categorie d’insieme («Lettrisme et Hypergraphie» nel 1964 , «Le Baroque generalisé» nel 1965). Una mostra emblematica è «L’incontro di Torino, pittori d’America d’Europa e Giappone», che si apre nel Palazzo della Promotrice al Valentino il 20 settembre 1962. C’è una presentazione di Carla Lonzi, un omaggio a Lucio Fontana, a tutte le presenze internazionali.
Un momento particolare è segnato nel 1955 dalla apertura ad Alba del laboratorio di esperienze del «Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista», formato da Asger Jorn, Pinot Gal-lizio e Piero Simondo. Eccentrico personaggio, questo Gallizio: studia la cultura popolare e la botanica officinale, si dice archeologo, si professa pittore, viaggia e intreccia rapporti (il cuore nelle Langhe, l’orizzonte in Europa). Il suo laboratorio vuole essere la risposta (esistenziale) alla nuova Bauhaus fondata da Max Bill a Ulm. Tra manifesti e mostre (memorabile la «Prima mostra di pittura industriale» aperta nel 1958 nella Galleria Notizie, dove i rotoli di tela dipinta vengono venduti a metri), fusioni e litigi, proclami e gioco, Gallizio (morirà nel 1964) consuma una vita di agit-prop, forse più che di pittore.
31 ottobre 1959. Dopo lunghi lavori (e appassionate attese) apre la Galleria Civica d’Arte Moderna. La mostra inaugurale è presentata da Marco Valsecchi, oltre a due sale omaggio (Casorati, Spazzapan) allinea il meglio del passato, tramite le collezioni di Gianni Mattioli e due collezioni «in maschera» di Milano (sono quelle strepitose, oggi possiamo dirlo, di Tosi e Giovanardi, entrambi milanesi). L’introduzione è firmata dal sindaco Peyron; Lionello Venturi auspica al museo l’eternità del futuro (che durerà poco più di vent’anni).
Non è facile l’epoca della ricostruzione, eppure anche le istituzioni si sforzano di animare il clima della città (sia pure con timidi segnali). Presso il museo c’è però da notare nel 1953 la ricca mostra «Marc Chagall» voluta da Lionello Venturi e quella sull’«Espressionismo ed arte tedesca» nel 1954; il poco «moderno» si può integrare con il delirio post tridentino delle mostre «Manierismo piemontese e lombardo del 600» (1955), «Tan-zio da Varallo» (1959), entrambe a cura di Gianni Testori; e qualche esotismo («Arte del Gandhara e dell’Asia Centrale», «Il kimono giapponese», entrambe del 1958).
Ma dal 1959 la musica cambia. D’altra parte, anche un editore (si può dire «ufficiale») come Einaudi si tiene ben lontano dal territorio dell’arte moderna: ricordo appena il bel libro di Zeri sull’arte «senza tempo», il saggio di Argan su Gropius e i libri (diseducativi) di Bruno Zevi. Si è detto, sono temi di ricostruzione: forse erano utili altri problemi e altre linee culturali (comunque bisognerà arrivare al 1969 per trovare una collana dedicata al moderno). Diretto da Vittorio Viale e poi da Luigi Mallè, tutt’altro che «modernisti», in breve tempo il museo si qualifica come modernissimo. L’attività delle gallerie lo rinsangua, così come il Museo rinfocola l’attività dei collezionisti e del mercato. Si comincia sul sicuro (Robert e Sonia Delaunay, 1960) ma anche su un classico moderno (Nicolas de Staël, 1960). Nel 1961 e 1962 sono presentate due collezioni di capolavori: la pittura moderna nelle collezioni italiane, la collezione G. David Thompson. Crispolti e Galvano presentano nel 1962 «Aspetti del secondo futurismo torinese» e nello stesso anno Tapié e Luigi Moretti presentano «Strutture e Stile». E poi le personali: Hans Richter e Francis Bacon nel 1962 (le due facce dell’avanguardia). Nel 1963 la grande mostra di Giacomo Balla precede la memorabile «Mostra del Barocco piemontese». Continuano le personali di classe: Franz Kline nel 1963, Felice Casorati e Maria Helena Vieira da Silva nel 1964.
Nel 1965 si passa da Hans Hoffmann al fotografo Steichen ai «Sei di Torino» a Graham Suther-land; nel 1966 è la volta di Hans Hartung, Robert Motherwell, Bram van Velde. Una occasione particolare nel 1967, la presentazione del Museo sperimentale d’arte contemporanea organizzato per Genova da Eugenio Battisti (rifiutate da quell’università, le collezioni fanno parte oggi della Galleria Civica di Torino). Nel 1968, a dieci anni dalla morte, la retrospettiva di Osvaldo Licini. Nel 1969 Louise Nevelson, «New York Dadae Pop art newyorkesi» (curata da Mallé), ma anche Atanasio Soldati. Gli «astratti» si ripresentano nel 1970 con Lucio Fontana (la serie continua nel 1972 con Fausto Melotti, nel 1973 con Mauro Reggiani).
La direzione è ormai passata al pacato Aldo Passoni che presenta agli inizi degli anni Settanta mostre memorabili: «Arte povera, Land art, Conceptual art» e Yves Klein nel 1970, Alberto Burri nel 1971 (un vivace ricordo personale, l’ampia retrospettiva di Francia Picabia da me curata nel 1974). Una politica per molti versi esemplare, prima attenta all’Europa dell’«Art autre» ma anche ai valori dimenticati (uno per tutti, Balla), poi incline alla moda trionfante (la Pop art), ma anche attenta a nuove scoperte (l’astrattismo classico, Dada) e alle proposte in fieri (l’Arte povera)… Non bisogna dimenticare che dal 1967 Luigi Carluccio affianca alle mostre del museo (una sorta di Biennale torinese) quattro mostre organizzate dall’«Associazione Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea» (presidente Marella Agnelli). Quattro mostre che hanno fatto riflettere gli appassionati per i tre quarti delle opere esposte, ma per molti versi ambigue (penso agli approssimativi apparati di ricerca, al tono diciamo così «giornalistico»).
Nel 1967 si apre, con clamore, «Le Muse inquietanti (maestri del Surrealismo)»: accanto a capolavori indimenticabili (qualche quadro nel frattempo sembra perso per sempre) possiamo individuare un imbarazzante uso del termine «surrealista» adattato ai pittori delle correnti più diverse. Lo stesso discorso vale per «Il Sacro e il Profano nell’arte dei Simbolisti» (1969), «Il Cavaliere Azzurro» (1971). Più quieta la quarta mostra «Combattimento per un’immagine» dedicata nel 1973 alla storia della fotografia: Luigi Carluccio, arbitro e giudice unico, è qui affiancato da Daniela Palazzoli. Insom-ma, mostre che non ci trovarono d’accordo per le scelte spregiudicate e per il taglio autoritario, ma che non possiamo fare a meno di ricordare con nostalgia.
Apre nel 1959 a New York, Museum of Modern Art, una mostra singolare, in piena Action pain-ting (o Informel): «New Images of the Man», incentrata sulle opere di Karel Appel, Francis Bacon, Jean Dubuffet, Alberto Giacometti. Anche Torino, almeno nel 1958, vive questo clima: il «desiderio» della Figura. Appaiono nella Galleria Galatea i primi quadri di Francis Bacon: Mario Tazzoli, che dirige la galleria, si distingue per scelte di qualità (da notare le ricorrenti mostre «Selezione» al posto delle personali) nell’ambito della figura, anche storica. È nell’introduzione di Luigi Carluccio nella mostra di Bacon al museo (settembre 1962) che appare il valore «estraneo» (violenza e offesa) di questo pittore: «La mostra diFrancis Bacon, questa catena di dipinti che non danno tempo di riprendere fiato, sarà un colpo rude per il pubblico italiano; un colpo portato diritto al suo radicato compiacimento per le manifestazioni dello spirito che non manchino di gradevolezza. Qui hanno buona accoglienza anche le più arrischiate esperienze d’avanguardia, purché mostrino di possedere una certa decente soavità di ispirazione.
Nel corso di mezzo secolo di arte figurativa è possibile trovare nell’arte italiana soltanto qualche esempio di figura “gradevole “, conseguente però alla popolana volgarità dell’artista, soltanto in certi “nudi”, in certi “ritratti”, e più ancora incerti “autoritratti”, di Rosai. Quanto alla rappresentazione dell’orrore si affaccia, è vero, più volte, dalle tele di Savinio, ma ammiccando e sempre con i modi di una controllatissima ed elegante ironia». Sempre nella Galleria Galatea (aprile 1958), auspice Luigi Carluccio, si presenta la faccia soft della figurazione: una mostra personale di Balthus con dieci tele (1951-1957). Quel gioco tra adolescenza e perversità, Piero della Francesca e avanguardia, luce e ambiguità, trova nelle pagine di Carluccio un equilibrio felice. E affascinerà i torinesi.
Il bello è che, in questo stesso 1958, in aprile e maggio per l’esattezza, riappare a Torino il Grande Metafisico. Trentaquattro opere di Giorgio de Chirico, in mostra alla Bussola, presentano il suo volto «antimodernista» (e infatti terrà sul tema una conferenza al Teatro Carignano il 23 aprile, curandone un estratto divulgativo). Autoritratti rubensiani e nature morte gravide di Delacroix, cavalli velazqueni e Venezie canalet-tiane, qualche ripresa metafisica: il tutto per precisare che una sola speranza esiste ed è da confidare nel già fatto, nel ciclo inesauribile del tempo, nella magia della memoria. Forse la mostra fa sorridere o sogghignare, ma la riproposta dell’artista a Torino è netta: i quadri (quelli storici soprattutto) cominciano a entrare nelle case torinesi. Nel 1964 La Bussola ci riprova con la prima mostra dedicata ai Dioscuri: de Chirico e Savinio; ci riprova nel 1968 con 25 quadri che vanno dagli anni Venti al Barocco. Una Europa della protesta in nome della figura (ricordo anche la mostra di Georg Grosz presentata da Carluccio alla Galleria Galatea nel 1962, quella di Sutherland ed Egon Schiele nel 1963); una Italia del superomismo.
Ma c’è qualche cosa di nuovo. Nella primavera 1960 appaiono in mostra (sempre alla Galatea, sempre auspice Carluccio) una ventina di opere di Michelangelo Pistoletto, un ventisettenne biellese che, pur con un orecchio a Bacon, propongono una storia italiana. Alla scadenza dei trent’anni (stessa galleria, stesso critico), Pistoletto ha risolto il suo problema: delle 16 opere esposte nel 1963, la prima è ancora un olio, le altre sono (dice il catalogo) «veline plastificate su acciaio inox». È nato il maestro dell’illusione, del soggettivo che diventa oggettivo, dello «spettatore al centro del quadro», della magia della realtà o meglio del realismo della fantasia.
Mi sembra logico (ma commetterò un errore) che Torino possa essere la città più disposta ad accogliere la Pop art (e prima il New Dada), per quel tanto di figura che si oppone al trionfante Informale. Qualche spunto si vede già nella galleria Il Punto di Remo Pastori (direttore Gian Enzo Sperone): nel 1962 la mostra di Roy Lichtenstein; ma è soprattutto la galleria di Gian Enzo Sperone che apre nel 1964 all’angolo di piazza Carlo Alberto (davanti alla lapide di Nietzsche dove amava sostare de Chirico) a puntare sulla Pop art. La prima mostra del 1964 è un chiaro programma Italia-Usa (Rotella, Mondino, Pistoletto, Lichtenstein) . Poi nello stesso anno Rauschenberg e Rosenquist; nel 1965 Andy Warhol, Rauschenberg, una collettiva pop in maggio,Jim Dine; nel 1966 ancora Andy Warhol e poi Tom Wassel-mann; nel 1967 Tom Wasselmann, nel 1968 James Rosenquist. Ma in quelle sale si cominciano a vedere eventi che annunciano un clima nuovo (Pascali nel 66). Dall’iconismo assoluto sta nascendo una nostalgia aniconica. Con grande velocità il museo recepisce le idee della città: nell’aprile 1969 si apre alla Galleria Civica di Arte Moderna la mostra «New Dada e Pop art newyorkesi», curata da Luigi Mallè, con opere di Nevelson,Johns, Rauschenberg, Olden-burg, Lichtenstein, Wesselmann, Warhol, Rosenquist, Indiana.
E furono tempi di passione. Dopo l’«Usa landing» alla Biennale di Venezia del 1964, quella sembrava la parola del momento, e mi accanii a vedere e scrivere. Ma i tempi erano accelerati. In quella stanzetta d’angolo tra via Cesare Battisti e via Carlo Alberto, parlo sempre di Sperone, si cominciò a vedere qualcosa della Minimal art (Dan Flavin nel ’68, Bob Morris nel ’69) e della Conceptual art (Joseph Kosuth nel 1969) ma soprattutto le opere di quei torinesi che dovevano trovare una etichetta con Germano Celant, ma affascinavano allora per una accentuata «torinesità» unita al sogno italiano (tra Futurismo e Metafisica, per intenderci) … Intanto, anche la cultura andava cambiando. Alla vigilia del 1960 appariva la prima traduzione di Alain Robbe-Grillet (Lucentini, per Einaudi), ma in breve potevamo passare da L’opera d’arte nel-l’epoca della sua riproducibilità tecnica (Filippini, per Einaudi, 1966) a L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse (sempre da Einaudi nel ’68). Non poteva trovare classici più appropriati la nostra idea di allora di una esteticità vitale…
Così intitolavo un articolo apparso sulla rivista «Qui arte contemporanea» nel 1975. Infatti, i vari movimenti politici e studenteschi mi avevano riportato saldamente in biblioteca a studiare l’arte antica, ma anche a riflettere sulla tradizione del nuovo, su quelle correnti sacrificate dall’accaval-larsi delle mode negli anni anteguerra. Torino non era avara di capolavori della storia dell’avanguardia. Nella Galleria Gissi, per esempio, che pure non seguiva un’attività rettilinea, si potevano vedere capolavori solenni e riproposte sorprendenti: ricordo le mostre di Severini, quelle di de Chirico negli anni Venti (1964) e di Savinio (1967) entrambe curate da Luigi Carluccio. Una galleria che si inaugura proprio nel 1960 è la Narciso della famiglia Pinottini. Apre con la benedizione di Felice Casorati, ma in pochi anni presenta mostre storiche sull’avanguardia: ricordo il secondo Futurismo, Prampolini (1963), Savinio (1963), Mafai e Raphaël (1960, 1969); Hans Hartung (1967). Anche La Bussola ripropone il Futurismo (penso alla mostra di Severini nel 1964).
Da parte sua la Galatea mostra molti surrealisti sicuri (a pensarci bene, anche Magritte è una riscoperta torinese). La più attiva nella direzione della ricerca di Dada e dell’astrattismo è tuttavia la Galleria Notizie, che rinasce sdoppiandosi (sede in via Assietta) con un problema di antico e nuovo a confronto. Tra i lavori cui tengo di più sono proprio tre di quei giornali che accompagnavano mostre pionieristiche: quella del 1968 dedicata all’Astrattismo degli anni Trenta (in quell’occasione parlavo di Licini), quella dedicata a Fausto Melotti, una riproposta (sempre nel 1968) e la mostra di tutti i periodi di Francis Picabia (1969). Nelle stesse direzioni si muoveva la Galleria Martano. Ricordo di quei giorni il contributo alla mostra di Fortunato Depero (un «rilancio» torinese) e, proprio alla fine del decennio, sempre sui due fronti collegati, la mostra di Luigi Veronesi (tenuta a Saint-Paul-de-Vence) e il lavoro su Man Ray (condotto insieme a Luciano Anselmino). Queste occasioni suscitavano la politica scientifica del museo che, a partire dal 1968, riproponeva le mostre monografiche di tutti gli astrattisti del «Milione», sotto l’accorta regia di Aldo Passoni. Un primo risultato: trovano (sicuro e riservato) asilo a Torino i capolavori di quei movimenti un po’ obliati (ma anche sottovalutati). Una curiosità era la riproposta «storica» del passato più recente. Ricordo, per esempio, nella galleria di Christian Stein nel 1967 una tagliente retrospettiva di Ettore Colla (con un testo del sottoscritto) e nel 1969 la mostra «Romaanni 60: Angeli, Festa, Schifano, Lo Savio, Uncini» ricostruita con un testo di Marisa Volpi.
Una premessa. Lavora a Torino, non troppo pubblicamente, già dal 1960 Giulio Paolini: fa un lavoro alla Borges o alla Roussel (pensando a lui vengono in mente letterati più che artisti), attraversa gli anni Sessanta con discrezione e testardaggine concettuale. È uno dei primi «poveristi», ma la sua grande nostalgia resta sempre la pittura, il doppio della vita, l’inestricabile complicazione-semplicità dell’essere… Tra gli eventi che preannunciano l’Arte povera, che ha Germano Celant come profeta, metterei il movimento Gutai, presentato da Pistoi nel 1959 (la parola significa letteralmente «concreto», e le opere che producono gli artisti del gruppo sono più legate al comportamento che all’oggetto vero e proprio). Poi c’è l’attività del Living Theatre le cui apparizioni a Torino sono frequenti: tutto comincia nell’ambito di Italia 61, quando Julian Beck e Judith Malina mettono in scena «The Connection» di Gelber; nel 1966 si presentano con «La bonne» di Jean Genet, nel 1967 «Antigone» di Sofocle e poi «Frankenstein» di Mary Shelley, fino a quel «Paradise Now» rappresentato al Teatro Alfieri nel 1969 che chiude in certo senso l’attività più sperimentale del gruppo.
C’è poi il libro di Jerzy Grotowsky, Towards a Poor Theatre (tempestivamente tradotto da Bulzoni, Roma 1970) a fornire altre suggestioni. E nella galleria di Gian Enzo Sperone che espongono i poveristi dopo il manifesto di Pistoletto. Le ultime parole famose, distribuito in forma di pamphlet nel 1967. Nello stesso anno, allora, troviamo una personale di un rinnovatissimo Pistoletto; nel 1968 Mario Merz, e poi Giovanni Anselmo (accanto a quello di Celant c’era un testo del sottoscritto) e JannisKounellis; nel 1969 Gilberto Zorio, Mario Merz, Alighiero Boetti, Giuseppe Penone.
Nuovi spazi e nuovi comportamenti; un grado zero che trova i suoi spazi anche nella galleria di Christian Stein: espone Aldo Mondino nel 1966; Alighiero Boetti nel 1967, insieme a una collettiva che include poveristi e immaginisti; nel 1968 ancora Boetti e Pistoletto con la «Rosa bruciata» per concludere il decennio con gli «Animali decapitati» di Pino Pascali. Questo grado zero rinnovato (dopo quello di Tapié) viene subito recepito dalla Galleria Civica di Arte Moderna nella memorabile mostra «Conceptual art-Arte povera-Land art» curata da Germano Celant (con testi di Malie, Passoni, Lippard).
Ma è come l’ultima girandola di una grande festa. Molte gallerie emigrano, qualche ragione politica cambia, il più notevole clan economico cerca di occultarsi (rimane solo il riflesso dell’editoria con Umberto Allemandi: il n.l di «Bolaffì Arte», con una copertina di Scanavino, appare nel 1970). Sembra la diaspora, il destino di tutto quello che è nato a Torino. Gli anni Settanta cominciano: e sembrano non promettere più che un centro italiano possa diventare internazionale.