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Dress to Dress 8: Ambush School of Rave

La FW 2023 di Ambush è una collezione che traccia le basi per una storia: la direttrice creativa Yoon Ahn infatti immagina un gruppo di adepti dei rave sui banchi di scuola che combatte attraverso piccoli dettagli vestimentari l’omologazione imposta dalla divisa. Attraverso gli occhi di uno dei fittizi membri di questa tribù di danzatori notturni, l’articolo intende descrivere in maniera narrativa i capi del brand.

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photo via Luxferity.com

Creare false narrative è il compito preferito di chi scrive. E chiunque abbia mai detto che il periodo del liceo è quella parte di vita che più avrei rimpianto una volta ingrigiti i capelli, probabilmente aveva deciso di cospargersi gli occhi di acido e ignorare la realtà. Per me i diciotto anni sono stati come una sauna: un continuo calore, un bruciare di cose nuove cariche di spirito vitale. Paradossalmente, avvolto in quel fervore alienante, uno è in grado di riconnettersi al bambino che era e nel farlo è pronto a lasciar andare quella parte sé. Nel mentre, però, si è incapaci di mettere freno ai propri sfoghi, come una pianta che cresce a se ne infischia di dove si dirigano le radici: l’importante è espandersi.

Di giorno una cascina diroccata, le stalle lasciate all’abbandono e il deposito riempito di rottami su quattro ruote. La chiamavamo Collie perché si trovava sulla cima di una piccola collina lontano da qualunque cosa. Di notte le luci dei laser erano quasi impossibili da vedere grazie alla pineta che le faceva da contorno. I campi che la accerchiavano rendevano l’accesso pressoché impossibile in macchina: terribilmente facile scappare a piedi se scoperti da qualcuno. Collie era uno dei nostri posti sicuri oltre che del cuore e lì facevamo i nostri raduni con una certa regolarità: nessuno voleva essere schedato, specialmente dopo che alcuni amici avevano dovuto fare la notte in cella per della musica e degli amplificatori di divertimento, come ci piaceva definirli. A quei tempi la legge e il Governo ci imponevano di rinchiuderci in casa, ma di tutta risposta noi avevamo intenzione di farci sentire più che mai, di riempire l’aria di ritmi ipnotici e fumo.

Non era una vita disseminata di incertezza la nostra. Nel nostro gruppo tutti avevano una madre, un padre, una vita normale da classe media. Eppure, eravamo consci di essere eccezionali e che la provincia ci stava appiattendo: attendevamo di uscire da quella prigione di banchi, campanelle e obblighi per iniziare a vivere. E a farlo nel modo più sconsiderato possibile: eravamo giovani, ma sentivamo di avere già tanto tempo da recuperare.

Sentivamo l’urgenza di scappare da quel piattume di esistenza; lo vedevamo negli occhi dei nostri genitori: quelle vite fatte nell’ombra accompagnate solo dalla consapevolezza di non lasciare traccia di sé a parte noi, non poteva che scatenare qualcosa negli animi di chi la realtà voleva plasmarla e non viceversa. Eppure, nel frattempo, mentre stavamo ancora realizzando la grandezza che era dentro di noi, avremmo continuato a ballare fino a quando le ginocchia non avrebbero retto.

Ricordo che la preparazione era quello che ci divertiva di più. Quando poi i raduni si spostavano nel mezzo della settimana, avevamo la certezza che non saremmo tornati a casa e ci preparavamo di conseguenza anche per presentarci alla lezione del mattino successivo. C’era chi indossava parti della divisa scolastica e chi combinava latex con pizzo: il nostro stile era una grande crogiolo di fonti provenienti da piccoli furti negli armadi di casa e dei capi che avevamo a disposizione ovvero quelli che ci venivano imposti da scuola e famiglia.

Eppure pareva che nel nostro gruppo ci fossero delle implicite regole che ognuno seguiva: un’invisibile legge di stile alla quale tutti in un modo o nell’altro si adeguavano. Il risultato? Una schiera di variazioni dello stesso tema. Ognuno di noi faceva il meglio che poteva per porre una firma sulla standardizzazione imposta dalla divisa; le cinture andava per lo più: con tutte multiple fibbie di chiusura contornate in argento ci davamo le arie di veri trasgressivi.

Come tutti i ragazzi della nostra età la nostra giornata era occupata almeno per un terzo di essa da lezioni. In mezzo ai banchi di scuola avevamo realizzato quanto possa essere difficile per degli spiriti liberi come i nostri conciliare l’affermazione di sé sia che si parlasse di idee che di apparenze. Avevamo un rapporto speciale con la campanella; la mattina, ammassati sulle panchine di fronte all’entrata principale della scuola, era proprio lei che ci faceva aprire gli occhi. In quel delicato momento che è il risveglio, potevamo percepire i passi sulla ghiaia degli altri studenti che, ben più diligenti di noi, non avevano di certo recuperato un paio di ore di sonno su quel precario giaciglio.

Entrando in classe sentivamo gli occhi inquisitori degli insegnanti, pronti a giudicare l’odore di alcool e sigarette impregnato nei nostri vestiti ma altrettanto celeri nel predicare la poesia vagabonda di Rimbaud l’ora successiva. <<Il mio castello era l’Orsa Maggiore[…]>> quanto sentivamo vicino quelle parole, noi abitanti della notte, danzatori tribali all’ombra di luci a neon e onde sonore delle casse. Come Rimbaud anche noi vedevamo le stelle ogni notte, nel nostro cielo si moltiplicavano e roteavano come fossero infuocate. E con quelle parole cariche di poesia in testa, eternamente incompresi come tutti i grandi geni, continuavamo a fantasticare sui banchi riguardo il successivo raduno.

photo via Luxferity.com

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