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Harald Szeemann epic (Vol. 5/6)

Ex enfant prodige, direttore a 27 anni della Kunsthalle di Berna e poi di due edizioni di Documenta, dagli anni Sessanta è stato tra i più corteggiati, amati e detestati curatori di mostre. A tracciarne un profilo, Wolfgang Nagel a pochi giorni dall’inaugurazione della mostra «Einleuchten» (Evidenze), curata da Szeemann nel 1988 nei padiglioni dismessi della Deichtor di Amburgo

per Vernissage n° 74,  gennaio 1990

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Harald Szeemann nel suo studio a Maggia nel Canton Ticino

Primavera 1989

Come prima di ogni progetto di una mostra Szeemann viaggia attraverso gli atelier. New York, Londra, Colonia, Dùsseldorf. Il circolo degli artisti, sul cui sviluppo egli si tiene al corrente, negli ultimi anni si è ridotto ad un centinaio. In compenso, li vede tutti più di frequente. Ad Amburgo vuole presentarne cinquanta, di cui alcuni del tutto sconosciuti. È diventato prudente nei confronti degli artisti giovani. Fa loro visita preferibilmente solo quando sa con certezza che tipo di opera lo aspetta. Durante Documenta ha sentito enormemente pesante la pressione di dover essere per centinaia di candidati il giudice del bene e del male. «Alla fine ho detto: lasciate solo entrare quelli che sono d’accordo che io mi guardi la loro roba per cinque minuti e poi dia un giudizio, senza però dovere poi parlarne per mezz’ora».

Naturalmente hanno accondisceso tutti e poi tutti alla fine volevano ancora discuterne. Visto oggi, pensa Szeemann, il suo tasso d’errore durante la scelta per Documenta non è stato molto grande. Degli artisti respinti si ricorda ancora per molto tempo. «A dire il vero non dimentico nulla. Sono sempre ancora in grado di dire in quale anno ero nell’atelier di quell’artista e perché non l’ho trovato buono. Fa parte del mestiere».

Alcuni artisti che egli ha scelto per Amburgo gli fanno visita a Tessin, la maggior parte di loro si lasciano guidare da lui attraverso i padiglioni della Deichtor. L’accordo con tutti loro per Szeemann è prioritario. Con ognuno discute sul posto esattamente dove e come le sue opere dovranno essere presentate. Szeemann riesce a dare ad ognuno la sensazione che egli per lui tira fuori il massimo. Tra gli organizzatori di mostre è quello in cui gli artisti hanno più fiducia. Con schietta franchezza impedisce che gelosie, animosità e invidie culminino in litigi. Nessuno deve temere di cadere vittima di una tattica impenetrabile. Szeemann comunica a tutti i partecipanti con circolari ogni variazione del piano d’esposizione. «Procura molto lavoro, però finora ne è valsa la pena. Alla fine, lo spazio che ognuno ha ed il contesto in cui uno si trova è parte dell’effetto dell’opera. «La questione se la mostra, questo complesso amalgama di gioia dello scoprire, burocrazia, managerialità, presentazione, tempo, spazio, sapere e denaro, debba essere al servizio di chiunque, l’ho risolta nel senso di una scienza dell’armonia soggettiva, che soltanto nel momento in cui io la rendo un mezzo espressivo unico e vissuto, serve anche ad altri».

Il confronto con il Monte Verità («la mia stufa a fuoco continuo») per Szeemann non è conclusa. Come fedele minatore vuole continuare a rendere i suoi servigi senza il salario dell’utopia. Il futuro del monte lo mette di cattivo umore. Qui si sarebbe potuta erigere un’accademia. Ma ai politici locali piacque trasformare l’hotel, costruito in stile Bauhaus dal fondatore del monte Verità Eduard von der Heydt, in un centro congressi. Eh sì, il monte ne ha già sopportate tante. E sul suo fertile terreno continua a fiorire l’arte. Perché è proprio ai suoi piedi che Szeemann ha il suo ufficio. Ufficio? Un antro da lavoro al primo piano di una casa, tre camerette, strapiene di libri, giornali, manoscritti, cartelline, raccoglitori, porta diapositive, scatole di cartone, fotografie, lettere, schizzi e posaceneri traboccanti… La carenza di spazio sugli scaffali di compensato e sul tappeto ha sospinto la marea di carta fino alla vasca da bagno. La macchina da scrivere è vicina al wc.

Solo le schede di prestito delle opere d’arte vengono battute a macchina. Tutto il resto Szeemann, capo e segretaria al tempo stesso lo scrive a mano. La sua interfaccia con il mondo sono il telefono ed il fax. Da quanto egli spedisce le proprie ambasciate nel mondo dal Monte della Verità grazie al fax è diventato anche il proprio ufficio postale, avvicinandosi di un altro passetto all’ideale dell’organizzatore di mostre come «colui che fa tutto da sé». Talvolta siede già alle cinque del mattino nel suo ufficio e si sforza di tenere il passo con la corrispondenza «ogni giorno un sacco da immondizia pieno». In tutta tranquillità si occupa di tutto e va avanti fino a mezzanotte. Per lo più, però, nel corso della giornata cambia luogo.

Due anni fa ha acquistato a Maggia, a circa dodici chilometri, una fabbrica per la galvanizzazione vuota.
Ora si muove perennemente in triangolo con la sua Peugeot rossa tra abitazione, ufficio e fabbrica. Non ha ancora finito di trasferire il suo archivio nello spazioso edificio che ha duecento anni e che prima servì da stazione di posta e poi cinema. In scaffali di metallo, che vanno dal pavimento di cemento al soffitto, sono ordinati alfabeticamente e per tematica in modo esemplare i libri ed i cataloghi. Alcune opere d’arte (un oggetto di Warhol, una scultura di Willi Kopf, un quadro di Immendorff, regali per anni di collaborazione) non hanno ancora la loro collocazione definitiva. Attualmente c’è una storica dell’arte che si occupa di archiviare migliaia di inviti di gallerie. Così si canalizza l’ondata di posta e viene conservato tutto per il caso che un giorno si debba completare con precisi dettagli il catalogo di una mostra d’un artista. Quando spegne la luce nella fabbrica, dove nessun squillare di telefono lo strappa ai suoi pensieri, e torna a casa, spesso è già notte inoltrata.

La nuovissima casa-atelier a Tegna, la cui oggettiva eleganza tradisce immediatamente l’artista degli spazi, l’ha progettata egli stesso, in modo funzionale e con alcune stravaganze: un camino davanti ad una vetrata a due piani ed una vasca da bagno da cui si gode di un’ampia vista nel verde. All’alba Harald Szeemann è già di nuovo a fare i suoi giri in giardino, da un lato perché camminando avanti ed indietro raccoglie i suoi pensieri per la giornata, dall’altro perché Ingeborg Lùscher, sua vivace compagna e madre della loro figlia Una, ha imposto in casa un divieto di fumare severissimo.

Un aneddoto. Emma Kunz (1892-1963), guaritrice e naturista svizzera che conduceva vita molto ritirata e che sapeva usare il pendolino, cui Harald Szeemann ha dedicato un saggio per una serie di disegni in cui riunisce il proprio sapere teologico, riceve una visita di Rudolf Steiner; e si dice che di fronte al fondatore dell’antroposofia ella sia stata piuttosto riservata. «Naturalmente lui è molto bravo, ma voleva a tutti i costi fondare una comunità, e per questo dovette abbassare il suo livello», citò Szeeman la mistica con guizzo sovversivo e aggiunse: «Questi sono quegli insegnamenti che si possono trarre». Come già disse nel 1481 il santo nazionale svizzero Nikolaus von der Flüe: «Non fate il recinto troppo lontano».

La Fabbrica rosa a Maggia, veduta parziale dell’interno, foto Christoph Zürcher.

La Fabbrica rosa a Maggia, veduta parziale dell’interno, foto Christoph Zürcher.