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Harald Szeemann epic (Vol. 3/6)

Ex enfant prodige, direttore a 27 anni della Kunsthalle di Berna e poi di due edizioni di Documenta, dagli anni Sessanta è stato tra i più corteggiati, amati e detestati curatori di mostre. A tracciarne un profilo, Wolfgang Nagel a pochi giorni dall’inaugurazione della mostra «Einleuchten» (Evidenze), curata da Szeemann nel 1988 nei padiglioni dismessi della Deichtor di Amburgo

per Vernissage n° 74,  gennaio 1990

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Harald Szeemann e alla sua sinistra il fondatore di Documenta Arnold Bode all’inaugurazione di Documenta 5. ph. © Stadtarchiv Kassel

Dalle Mitologie individuali al Museo delle Ossessioni

«Mitologie individuali»:

Così Szeemann chiamò nel 1972 una sezione di «Documenta 5». In un momento in cui ovunque l’arte si conquistava rilevanza sociale grazie alle aste, egli squarciò l’angolo visivo limitato e guidò l’attenzione a forme espressive dalla creatività più complessa. «Mitologie individuali»: questo titolo, da alcuni erroneamente interpretato come ritorno al privato, descrive uno «spazio spirituale, in cui un individuo pone quei segni, segnali e simboli che per lui significano il mondo»: I pensatori «da cassetto» afferrarono al volo e con riconoscenza questa creazione verbale per usarla come etichetta per le installazioni di un Beuys e i mondi-igloo di Mario Merz. Tuttavia, per Szeemann non si era trattato di un nuovo concetto di stile, piuttosto di un concetto di atteggiamento, che lascia «il motore della creatività (consapevolmente) indefinito». Proprio la franchezza della sua creazione linguistica piace agli autori, perché per questo si deve applicare a tutto ciò cui si dà forma intensamente: «Anche un buon realista ed un costruttivista e un malato di mente possono essere mitologi individuali».

«Museo delle ossessioni»:

speciali lampi di genio possono spesso essere datati con precisione. Il mattino del lunedì di Pasqua del 1973 (Szeemann sedeva, le gambe penzoloni, a bordo dell’imbarcazione (ormai quasi ultimata) «Le Devenir» che un amico si era fatto costruire a Loreto, sul mar Adriatico) gli venne in mente questa espressione per definire quello a cui egli, in fondo, aveva da sempre lavorato e che lo avrebbe occupato anche in futuro. «Ossessione» nel suo modo di vedere non è il diavolo che si è impossessato del corpo e dell’anima di un indemoniato e che il prete deve scacciare, piuttosto «una fonte d’energia gioiosa mente riconsociuta e prefreudiana, che non si cura affatto se si esprime o si lascia usare a vantaggio o a svantaggio della società». Tutti gli artisti di concezione tradizionalista – ma appunto solo loro – sono ossessivi, almeno per un certo periodo. «Kandinskij all’inizio era ossessivo, poi le cose sono rapidamente andate a rotoli, mentre Beuys lo è rimasto per tutta una vita». «Come si riconosce l’ossessione? La si sente»: Szeemann vuole rapidamente superare le definizioni, come gli è già riuscito di fare con la rivalutazione della pittura degli alienati, e giungere sulle tracce di un mistero che si trova aldilà di qualsiasi creazione.

Il museo delle ossessioni non è una raccolta di capolavori, documenta le energie creative di piromani e cercatori d’acqua, anonimi costruttori di aeroplani e sadici, di riformatori del mondo, esoterici, utopisti e anche artisti. Sebbene abbia progettato diverse proposte per la visualizzazione, lo sapeva fin dall’inizio: il museo delle ossessioni rimane una visione. ‘Non è un’istituzione, ma il compito di una vita. Ogni esposizione che Szeemann offre al pubblico rappresenta un frammento di quella grande mostra che non potrà mai essere realizzata. Una idea dalle ossessioni di Szeemann. «Io voglio esporre sempre tutto».