Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Ex enfant prodige, direttore a 27 anni della Kunsthalle di Berna e poi di due edizioni di Documenta, dagli anni Sessanta è stato tra i più corteggiati, amati e detestati curatori di mostre. A tracciarne un profilo, Wolfgang Nagel a pochi giorni dall’inaugurazione della mostra «Einleuchten» (Evidenze), curata da Szeemann nel 1988 nei padiglioni dismessi della Deichtor di Amburgo
per Vernissage n° 74, gennaio 1990
Sono in corso corrispondenze senza fine per i prestiti. Annuncio funesto: Gerhard Richter ha ritirato la sua promessa. E raccapriccio: la sala, che sta quasi per essere ultimata, riluce di eleganza, ha perso tutto il suo antico carattere. Richard erra trova «osceno» il simbolo dell’azienda del mecenate, innalzato sullo spiazzo antistante. Proteste degli artisti. Szeemann placa le ire. «Chi dà i soldi ha il potere». «Noi siamo solo figure di contorno, della cui sensibilità c’è ancora bisogno e che avranno ragione forse tra dieci anni». Di malumore schiaccia col piede la sigaretta. «Il potere nel contesto artistico è buono solo quando lo si mette continuamente in gioco. Solo allora ritorna, moltiplicato». Di ritorno ad Ascona, deve creare l’annuncio per una rivista d’arte americana.
Ci pensa su un attimo, scrive: «Each new fair is an alternative space for consacration» e infila il foglio nel telefax. «Io sono Mida!». Quando Szeemann fa una mostra, i prezzi salgono. «Grazie al cielo l’oro non è mio» Se un collezionista degli anni Sessanta gli avesse dato retta, adesso sarebbe miliardario. Lui personalmente rifiuta il collezionismo. Vorrebbe dire essere legato alle cose e dover sempre tener d’occhio gli aumenti di valore. Per lui è la stagnazione. Dalla fine degli anni Sessanta il suo motto è «sostituire la libertà d’azione al possesso». Dopo Documenta, quando era povero come mai prima per aver pagato molte spese di tasca propria, non ha ceduto neppure una volta. Si fa prestare soldi dagli artisti piuttosto che vendere uno dei loro lavori. Il suo fiuto artistico ha reso ricchi soltanto altri. Per un certo periodo consigliò, l’uno dopo l’altro, due collezionisti. Le provvigioni gli servirono a vivere quando le entrate delle sue mostre a soggetto non erano sufficienti.
Certo, così uno guarda poi con sospetto quelli della scena artistica che hanno fatto i soldi in fretta. Tutti gli artisti newyorkesi, da Julian Schnabel a Jeff Koons, le cui carriere rientrano nel filone della filosofia yuppie del successo, gli sono profondamente sospetti. Il boom dell’arte, constata, ha creato un nuovo pericolo per gli artisti. «Prima uno molto dotato, ma con una psiche debole andava in rovina per l’incomprensione della società. Oggi la rovina è piuttosto perché uno viene capito troppo presto, sfruttato e venduto. Il processo eli minatorio è diventato incredibilmente più veloce». E il pubblico paga la sovrapproduzione, su cui si basa la nostra cultura, con una costante recessione della lucidità dell’esperienza sensibile. Ora si sa quali sono i buoni artisti giovani. Ed egli non ne vede molti altri che seguano. Forse è anche una questione generazionale, osserva. «Oggi si vede dappertutto la cosiddetta trasparenza.
Quando però si prendono le mosse dal mistero che dovrebbe esserci dietro si è piuttosto delusi. Io vorrei si andasse di nuovo in cerca del tipo ossessivo». Alla commercializzazione può opporsi soltanto organizzando il tutto di nuovo un po’ più ermeticamente. Come nella mostra su suo nonno o in quelle a tema, in cui non c’era un pezzo che fosse vendibile. Perciò è molto lieto che sarà di nuovo una mostra a soggetto ad occuparlo fino al 1991, dopo una retrospettiva su Beuys e una su Baselitz: «La Svizzera visionaria», per le celebrazioni del settecentenario della sua patria. I preparativi ad Amburgo sono giunti alla fase finale: Szeemann ora è sempre presente mentre il suo progetto assume forma concreta. Quasi tutti i giorni corregge come sono appese le opere. Per lui in questo lavoro di centimetri si manifesta la qualità di una mostra. «Ci si accorge subito se qualcosa è fatto con cura e amore» Fino all’ultimo lo disturbano le cose che distraggono.
«Ogni interruttore della luce e ogni estintore sono di troppo».
Quando si entra nell’edificio spoglio, funzionale, si va direttamente verso un Cézànne, a un’immagine tarda del monte di «Sainte Victoire». A fianco è appeso un Kandinskij del 1911, seguito da una «Immagine della follia» di Matisse. Nell’ambiente successivo sono riuniti con circospezione Malevic e Mondrian. Marcel Duchamp ha invece una sala tutta per sé. A grandi balzi si giunge al presente. Un ambiente con quadri di Barnett Newman e Robert Ryman, un Beuys, infine tra contemporanei: Richard Serra, Brace Nauman, e il più recente Reinhard Mucha.
Questa galleria d’arte esiste solo nella fantasia. È un «musée imaginaire» del XX secolo, che Harald Szeemann organizza improvvisando – con un budget di entità illimitata e con l’unica condizione di limitare le opere esposte ad una dozzina. In un certo senso la somma di quasi quarant’anni di interesse e lavoro per l’arte, l’essenza di mille visite e discussioni in atelier. La scelta è facile. «Naturalmente – aggiunge – ci sono sempre più artisti che mi piacciono, ma se mi immagino veramente il concentrato, sarebbero questi». Una volta che vi ha preso gusto, prolunga il gioco di pensieri e abbozza un elenco per eventuali lavori di ampliamento: un igloo di Mario Merz, una figura in legno di Baselitz». È visibilmente soddisfatto. E ancora nessun Picasso? «Non saprei quale». Ma poi decide: uno studio di donna per le «Demoiselles d’Avignon».
Sul pubblico: «Le opinioni della gente sull’arte spesso non sono così avanzate come a proposito di ecologia o del terzo mondo. L’arte, infatti, è qualcosa di molto stancante, perché non è trasformabile politicamente in maggioranze o cose simili. Ed è anche il suo aspetto eccitante».
Dopo la pittura chiassosa di inizio secolo, cui Christos Joachimides fornì un pubblico con la mostra «Zeitgeist» (Spirito del tempo) di Berlino, nel 1988 la mostra di sculture «Zeitlos» (Senza tempo) di Szeemann nella stazione di Berlino celebrò il silenzio solenne. Cinquemila visitatori giunsero in pellegrinaggio in questo luogo di raccoglimento, sebbene quasi nessun tassista sapesse dove si trovava la stazione di Amburgo. Ancora una volta Szeeman era riuscito a creare un’isola di intensità in mezzo ai rumorosi commerci d’arte. Sei mesi fa se ne ridestò il ricordo, benefico, di fronte al caos nella testa che lasciò la mostra «Bilderstreit» a Colonia, chiusa in anticipo per il rifiuto del pubblico. Fino al 18 febbraio è aperta «Einleuchten», nello stesso luogo in cui una volta arrivavano i treni provenienti dalla stazione Amburgo, il che dimostra ancora una volta le relazioni di tutto col tutto. Anche questa mostra più che un evento artistico è il tentativo di una città di darsi un profilo artistico. Gli organizzatori si augurano più di centomila visitatori. Neppure aspettative di questo genere mettono Harald Szeemann sotto pressione. Con una rilassatezza contagiosa dice:
«Io preferisco che venga uno solo e che vibri, entri in sintonia».