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Horror Pleni: La (in)civiltà del rumore

A distanza di alcuni anni, in un secondo incontro con Gillo Dorfles, le domande di H.U.O. definiscono nuove traiettorie di pensiero: l’importanza del vuoto, della pausa, del silenzio, il colore infinito e il numero d’oro

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Gillo Dorfles

[Hans Ulrich Obrist] Possiamo continuare questa intervista che abbiamo cominciato due anni fa. L’ultima volta abbiamo parlato molto di tutto, ma sono successe nuove cose: soprattutto questo bellissimo libro, Horror Pleni.

[Gillo Dorfles] Questo libro è in un certo senso la continuazione di un altro mio libro, Intervallo Perduto, che io considero uno dei più importanti. In Intervallo perduto dicevo che oggi non c’è più l’intervallo, non c’è più il gap, la sosta fra le varie cose: fra noi e il mondo, fra gli oggetti, fra l’opera d’arte e l’opera d’arte. Finisce che troppe cose si uccidono tra di loro, troppa informazione crea il rumore. È la vecchia teoria dell’informazione.

[HUO] Dunque qual è la ricetta per resistere? Quando Lyotard faceva la mostra Les Immateriaux

[GD]  Si, certo, questi Immateriaux sono in un certo senso l’uccisione dei materiali. I troppi immateriali uccidono i materiali, le troppe immagini uccidono la pittura, i troppi suoni uccidono la musica. Quello che diceva Adorno quando parlava dell’ascolto disattento è una delle cose più importanti del nostro tempo. La gente va ai concerti e non ascolta: sente ma non ascolta. Va nei musei e vede cento quadri invece di vederne sul serio uno. E cosi succede anche nella strada, anche di fronte alla televisione. Si finisce per essere uccisi dal troppo pieno.

[HUO] Poco dopo Les Immateriaux, Lyotard voleva fare una seconda mostra, sulla resistenza. Perché aveva realizzato che oltre a questa immaterialità dei nuovi media, c’e anche il pericolo della troppa informazione. Questo sulla resistenza è rimasto il suo progetto non realizzato. Partendo dalla constatazione di Horror Pleni, quale sarebbe oggi la sua ricetta per un artista, per un curatore, per un critico, per resistere?

[GD] Naturalmente la nostra società è fatta in un modo a cui dobbiamo sottostare, però credo che ognuno di noi dovrebbe esercitare questo orrore, cioè esercitarsi ad evitare il troppo pieno. È il contrario di quello che succedeva quando i selvaggi, le civiltà primitive, sentivano il bisogno di riempire il vuoto. C’era l’horror vacui, la paura del vuoto. E quindi i graffiti sulle caverne, le impronte lasciate sulla terra, insomma l’uomo che aveva bisogno di impadronirsi del suo habitat. Oggi è il contrario: è l’habitat che respinge l’uomo poiché è già pieno, completamente.

[HUO] Questo ci porta al “grande numero”, di cui parla spesso il nostro grande amico Giancarlo Di Carlo, che in questi ultimi anni io e Stefano Boeri abbiamo incontrato spesso.

[GD] Sì, infatti quando c‘è stata la Triennale sul “grande numero”…

[HUO] Nel ’68.

[GD] Direi che è stato uno dei due punti fondamentali della Triennale: il numero d’oro da una parte, e i troppi numeri dall’altra. Una volta c’era questa riverenza per il numero d’oro, per la proporzione aurea. E invece poi siamo arrivati alla pienezza del numero, per cui si è perduto anche quel concetto di relazione intervallare che una volta c’era.

[HUO] Dunque la sparizione degli intervalli è forse il più grande pericolo.

[GD] È pericoloso. Per esempio l’intervallo fra le varie colonne del Partenone, l’intercolumnio, era una cosa studiata con una cura matematica straordinaria, perché si dava a questo intervallo una importanza fondamentale. Oggi non ci si accorge neanche più della differenza fra l’intervallo di terza e quello di settima diminuita.

[HUO] Alighiero Boetti mi ha sempre detto che tutto si muove attraverso delle onde, e le onde sono fatte di alti, di bassi, di intervalli, di pause e di silenzi. Nell’horror pleni troviamo di nuovo l’importanza del silenzio.

[GD] Il silenzio è fondamentale: sia per assaporare l’opera che per crearla ex-novo. Il silenzio equivale allo spazio vuoto. Non per niente nella filosofia Zen troviamo questo concetto di sumi-e, cioè di vuoto, che è più importante del pieno in un opera d’arte. L’Occidente sta appena imparando dallo Zen e dall’arte estremo-orientale l’importanza del vuoto.

[HUO] Yves Klein faceva la mostra da Iris Clert sul vuoto.

[GD] Certo. Yves Klein è stato uno di quelli che hanno capito l’importanza del vuoto, e del colore che non ha fine.

[HUO] E quali sarebbero altri esempi chiave di artisti che hanno capito questo?

[GD] Sono pochi. Sono molto pochi. Naturalmente Mark Tobey, con i suoi segni bianchi. Anche Fontana è uno di quelli che più di tutti l’hanno capito, perché in fondo il taglio è la creazione di un vuoto nel pieno della tela: questo vuoto ha un’importanza enorme proprio perché rompe il pieno. Io credo che gli artisti delle ultime generazioni che hanno capito il vuoto siano tra i più grandi. Melotti ha capito il vuoto, per esempio. O Tàpies.

[HUO] Anche il gruppo Gutaj.

[GD] Certo, il Gutaj è stato importantissimo per questo. E in generale lo zenismo è fondamentale per l’interpretazione del vuoto e dell’intervallo.

[HUO] E anche nella letteratura è la stessa cosa, no?

[GD] Lì naturalmente le cose sono un po’ diverse, perché se uno non riempie di lettere un foglio, non scrive niente. Però anche lì molto spesso sono importanti gli spazi lasciati vuoti da un poeta. Come del resto nella musica, una delle arti in cui ciò è più evidente. Una musica come quella di Webern molto spesso è fatta di vuoti.

[HUO] Reiner Maria Rilke ha espresso il suo consiglio nelle Lettere ad un giovane poeta. Quale sarebbe il suo consiglio ad un giovane artista o critico d’arte?

[GD] Rilke diceva: “durch alle Wesen reicht der eine Raum: Weltinnenraum“(attraverso tutti gli esseri si raggiunge l’unico spazio: lo spazio interiore del mondo). Effettivamente Rilke aveva anticipato questo concetto di spazio interno.

[HUO] Si potrebbe dire che il futuro sarà interno, più che esterno.

[GD] Il futuro dovrebbe essere talmente vasto da non potersi più illuminare.

[HUO] Quale sarebbe quindi il suo consiglio, nel 2008, ad un giovane artista, critico o curatore?

[GD] E’ difficile, direi impossibile dirlo. Soprattutto da parte di un vecchio critico, è difficilissimo dire quale sia il critico giovane: forse solamente quello che sa criticare il vecchio. Però molto spesso il critico giovane non critica quello vecchio, pensando che sia già storico. Questo è il grande difetto.

[HUO] Horror Pleni fa parte di una serie di libri che usciranno presso lo stesso editore, Castelvecchi. Oltre ad esso, che è il più recente, ci saranno Fatti e Fattoidi, Irritazioni, Conformisti, Il Feticcio Quotidiano, Dal Significato alle Scelte. Vorrei che mi parlasse un po’ di questi prossimi libri.

[GD] Questi libri sono quelli che io considero ancora attuali. Almeno a me pare che siano meritevoli di essere ristampati. Con alcune modifiche, naturalmente: sono passati alcuni anni e probabilmente aggiungerò e toglierò qualcosa.

[HUO] Fatti e Fattoidi mi interessa particolarmente, poiché per me è sconosciuto.

[GD] Il termine che ho dato di fattoidi è preso dall’inglese. Ho trovato qualche critico americano che parlava di factoids, cioè finti fatti. Ho applicato questa nozione all’arte dei nostri giorni, dove ci sono moltissime opere che non sono fatti, ma fattoidi. Non opere autentiche ma opera false: è la falsificazione che spesso sta alla base di molta arte contemporanea. Troviamo un’infinità di pittori che copiano le cose degli altri. C’è stato l’Informale, e troviamo una caterva di informali. C’è stato il Concettuale, e tutti facevano l’arte concettuale. Lo stesso vale per la musica, del resto. Credo che il fattoide sia uno degli elementi pericolosi della nostra civiltà, proprio per la possibilità della replica. Da quando l’arte ha potuto essere moltiplicata, quello che era positivo si è trasformato in un fatto negativo.

[HUO] Alexander Dorner all’inizio del Novecento ha parlato di questa grande possibilità, del museo moltiplicato.

[GD] Appunto. Effettivamente oggi noi possiamo rifare perfettamente un capolavoro di Giotto. Col computer, se uno non ha troppi scrupoli, si può benissimo produrre una replica tale e quale. Questo sarebbe positivo se fosse fatto una volta per un’università. Ma se diventasse una consuetudine non si avrebbe più il senso dell’unicità dell’opera.

[HUO] In un certo momento degli anni Sessanta Nam June Paik e altri hanno iniziato a fare grandi opere con il video e con la televisione. Questo non è successo con l’invenzione della televisione: l’arte ha iniziato a lavorare con questi strumenti solo dieci, quindici anni dopo. Mi chiedo quale sia il suo atteggiamento nei confronti degli artisti che fanno opere d’arte con Internet.

[GD] Anche Internet, come il video a suo tempo, è uno strumento che permette nuove forme espressive. Io non nego che ci sia una computer art come c’è stata una video art. Naturalmente anche in quel caso c’era pericolo che qualcuno, manovrando il video, credesse di fare un’opera d’arte soltanto perché vedeva delle operazioni che, attraverso il video, avevano l’apparenza dell’arte.

[HUO] Lei è ottimista o pessimista per il futuro del mondo?

[GD] Tutto sommato, meno pessimista di quello che sembrerebbe. Penso che, nonostante tutto, a un certo punto l’uomo finisce per saper regolare se stesso.

[HUO] Alcune ultime domande. Io m’interesso molto a quest’idea dell’intervista come medium: come David Sylvester faceva con Francis Bacon, come Marcel Duchamp faceva con Pierre Cabanne, come lo facciamo oggi io e lei. Nel suo percorso, fatto di centinaia di libri e di mostre, mi domando quale sia stato il ruolo dell’intervista e della conversazione con l’artista.

[GD] Io credo che l’intervista sia molto importante, perché attraverso l’intervista molto spesso l’artista, o in genere l’uomo di cultura, riesce a dire quello che non direbbe da solo. Naturalmente il grande merito è spesso quello dell’intervistatore, che alle volte è ancora maggiore di quello dell’intervistato.

[HUO] Lei ha fatto molte interviste con artisti. Quali sono state per lei quelle più memorabili?

[GD] Io non ho fatto molte interviste. Me ne hanno fatte molte, ma io ne ho fatte poche. Mi ricordo un’intervista che ho fatto ad Andy Wahrol, l’ultima volta che è stato a Milano.

[HUO] Per l’Ultima Cena.

[GD] Per l’Ultima Cena. In quell’occasione gli feci un’intervista, che fu pubblicata sul Corriere della Sera. Ed effettivamente riuscì molto bene. Però non mi ha aperto delle strade per la comprensione di Wahrol. Avrei preferito tutto sommato non sapere quello che lui mi diceva. E lo stesso posso dire di Rauschenberg, al quale ho fatto un’intervista un paio di anni fa poiché c’era una sua scenografia a Venezia. Anche in quel caso, io conoscevo Rauschenberg da molti anni e l’intervista non mi ha aggiunto molto a quello che già sapevo. Ma forse per colpa mia. Perché, appunto, non sono un intervistatore.

[HUO] E in generale, i dialoghi con gli artisti? O le amicizie?

[GD] Io ho avuto la fortuna di partecipare a molti dialoghi. Per esempio è uscito un libretto due anni fa, che consiste in una lunga intervista che mi ha fatto una giovane critica argentina, Flavia Puppo (Destino Dorfles, Ediciones Luis Revenga, 2005). Il libro è uscito a Madrid, ed è riuscito molto bene. Poi l’hanno tradotto in Italia, ma la traduzione non è molto buona. Però in Spagna ha avuto un notevole successo, perché questa ragazza ha saputo pormi delle domande molto ben fatte. Sulla mia vita, sulla mia pittura, sulla mia attività in genere.

[HUO] Il mercato oggi è molto dominante, e il ruolo del critico e del curatore sono cambiati. Come vede nel 2008 la situazione del mercato?

[GD] È una delle domande più pericolose.

[HUO] Lo so, per questa ragione la pongo.

[GD] Oggi il mercato domina. Non si può non sottostare al mercato. Una volta c’era l’artista che moriva di fame in una soffitta, veniva scoperto e diventava celebre. Oggi non esiste. Intanto perché nessun artista sta in una soffitta e muore di fame, in quanto se ha un po’ di successo diventa ricco. E poi perché effettivamente se oggi l’artista non è inserito nel mercato, non risulta. Deve appartenere al mercato. Naturalmente qualcuno potrebbe obiettare che spesso è la mancanza di fortuna che impedisce ad un artista l’ingresso nel mercato. Ma non è cosi. Se un artista è di valore, originale, con una personalità, entra nel mercato.

[HUO] Quindi lei non vede più spazi fuori del mercato.

[GD] Fuori del mercato non è possibile. Ci sarà qualche eccezione, ma rarissima.

[HUO] Qual è il suo museo preferito nel mondo?

[GD] Come edificio o come contenuto?

[HUO] Tutti e due.

[GD] Come edificio il Mies van der Rohe di Berlino (Neue Nationalgalerie). Come contenuto, diciamo il Prado, con Bosch.

[HUO] Ho visto la mostra di Goya la settimana scorsa, incredibile. Una grande retrospettiva.

[GD] Bè, al Prado poi c’è Velàzquez che mi piace molto, e molte altre cose. Credo che sia uno dei musei più completi. Poi naturalmente c’è il Gehry (di Bilbao), ma come contenuto non è eccelso.

[HUO] È più un gesto architettonico.

[GD] Sì.

[HUO] Siamo qui in Sardegna, a Cagliari. E lei ha un rapporto molto forte con quest’isola, perché vi ha insegnato per tre anni. Potrebbe parlarmi un po’ del suo sentimento verso la Sardegna, del suo rapporto con essa?

[GD] Io ho passato quattro anni ad insegnare estetica all’università di Cagliari. Quindi ho un rapporto familiare con la Sardegna. Che, come ho spesso detto, non è una regione d’Italia, ma un continente a sé stante.

[HUO] Un continente indipendente.

[GD] Assolutamente. La popolazione, la civiltà nuragica… La Sardegna non assomiglia a nessuna parte dell’Italia, e i sardi hanno una loro lingua molto precisa, che non è un dialetto. Come il catalano e lo spagnolo. La Sardegna non si può considerare solo come un posto di turismo: la famosa Costa Smeralda. La Sardegna non è una regione marittima. Molti non l’hanno capito. La vera Sardegna è l’interno, la parte montuosa.

[HUO] Lei ha conosciuto il grande scultore di Nuoro?

[GD] Bè, (Costantino) Nivola. Certo, è un mio grande amico. Lo conoscevo già a Milano negli anni ‘30. Quando lui è andato in America sono andato a trovarlo a Greenwich, nel Connecticut, dove aveva una casa. Ho visto le cose che ha fatto a Chicago e altrove, e lo considero veramente uno scultore notevole. Credo sia una cosa positiva che ora l’abbiano riscoperto in Italia, perché è uno dei buoni scultori del secolo.

[HUO] Fantastico, molte grazie. Sono felice che abbiamo questo nuovo capitolo.