Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Un dialogo serrato del 2003 con Hans Ulrich Obrist e Stefano Boeri. Una preziosa testimonianza della complessità intellettuale di una delle figure più sofisticate e rivoluzionarie della critica italiana
[Hans Ulrich Obrist] Lei cominciava dicendo che la cosa più importante per un’intervista…
[Gillo Dorfles] È chi intervista. È la cosa fondamentale. Per esempio, recentemente abbiamo fatto un’intervista sull’avanguardia di Barcellona. Perfetta, è riuscita perfettamente. Perché avevano registrato, e poi messo le parole giuste. Sì, più o meno: non c’è tutto.
[Stefano Boeri] Però guarda la dimensione delle immagini, vedi? (sfogliando il libro) Questi sono errori. Guarda, guarda che meraviglia. Il bello di questo libro era entrare dentro le immagini, sarebbe stato bellissimo.
[HUO] Ma è come dice Schiffrin: adesso siamo nella condizione delle case editrici senza editori.
[GD] Si, il fatto è che vent’anni fa c’erano alcuni editori veramente eccezionali come Einaudi, come Garzanti, o anche Mondadori. Oggi c’è solo il nome di questi editori. Infatti, Einaudi non ha più ripubblicato i libri di (Ernst) Gombrich. Quindi non solo i miei. E neanche i libri di (Ernesto) De Martino, il fondamentale antropologo italiano.
[HUO] Anche lei ha lavorato con la Einaudi?
[GD] Io con la Einaudi ho fatto nove libri. E oltre a questi, altri sette.
[HUO] Una collana.
[GD] Si, era una collana che era cominciata con Il divenire delle arti, che ora è stato ripubblicato da Bompiani. Però Einaudi non ha più ripubblicato i miei libri, a parte Introduzione al disegno industriale perché è un libretto molto piccolo che va per le scuole.
[SB] Tu conoscevi personalmente Giulio Einaudi?
[GD] Lo conoscevo molto bene. Ma devo dire che soprattutto chi era straordinario era (Giulio) Bollati. Bollati era il caporedattore di Einaudi, ma praticamente era quello che faceva le scelte decisive. Per esempio, i miei libri li ha tutti scelti lui, quando ancora era un po’ difficile pubblicare queste cose. Bollati è stato un grandissimo editore. Ora c’è la casa editrice Bollati Boringhieri, che è diretta dalla sorella. Però non è più la stessa cosa.
[SB] Infatti erano stati interessanti i primi anni della Bollati Boringhieri: c’era questa lettura del rapporto fra scienza e letteratura. Aveva ritagliato un campo interessante all’inizio.
[GD] Si, effettivamente in quel campo era estremamente importante la scelta di qualcosa di nuovo, che ancora non fosse diventato luogo comune, corrente. Ma del resto anche Garzanti ha pubblicato quel mio libro su L’architettura moderna. L’ha ripubblicato due o tre volte, e poi è finito.
[HUO] Possiamo dire che c’e una sparizione degli editori, quindi.
[GD] Sì. Gli editori seri sono scomparsi, e sono rimasti soltanto i mestieranti. A parte alcuni casi personali come la Rossellina Archinto oppure Manni, di Lecce. Sono dei piccoli editori che fanno uno sforzo per pubblicare qualche cosa, ma non hanno i mezzi per fare delle grandi pubblicazioni. Questo stato dell’editoria rientra nel quadro generale della situazione.
[SB] È un contrasto stridente tanto più se si guarda agli anni Sessanta, cioè al periodo in cui sono stati pubblicati Artificio e natura o Nuovi riti, nuovi miti. Era un periodo in cui l’editoria aveva un rapporto molto forte con il campo della ricerca, dell’arte, della critica d’arte. Era un’editoria molto impegnata. Ma che rapporti c’erano fra editoria e impegno politico in quegli anni? Perché Artificio e natura è del ’68.
[GD] In questo caso non dovrebbe praticamente esistere un rapporto con la politica, perché questi libri sono né di Destra né di Sinistra. Però è inutile nascondersi il fatto che la cultura in Italia è sempre stata di Sinistra, salvo pochissime eccezioni. Sinistra moderata finché si vuole, ma l’Italia non ha la cultura di Destra che ha la Francia, per esempio. La Francia ha degli autori come Maritan, come Malraux. O come i padri gesuiti: ne conoscevo due o tre, ed erano molto avanzati.
[HUO] Questo non esiste in Italia?
[GD] Questo in Italia non esiste, salvo pochissime eccezioni. No?
[SB] Assolutamente. Poco niente. Perché non esiste una cultura liberale, un pensiero liberale che nella letteratura o nella riflessione artistica abbia prodotto qualcosa. Tant’è che oggi, quando si cercano degli intellettuali di Destra, vengono fuori sempre due o tre nomi, fra l’altro non di grande (rilievo).
[GD] Nella letteratura ci sono degli autori che non hanno niente a che fare né con la Destra né con la Sinistra. Dei romanzieri come (Aldo) Nove, oppure (Tiziano) Scarpa, o (Antonio) Tabucchi. Beh, Tabucchi in realtà è già contaminato dalla Sinistra.
[HUO]Potrebbe parlarmi dei suoi inizi?
[GD] Inizi in quale settore? Perché ho iniziato in vari settori.
[HUO] Io sarei interessato a capire la complessità della sua trajectory.
[GD] Ho cominciato a disegnare quando avevo quattro o cinque anni, nella scuola, sopra i libri. Ho sempre avuto una grande passione per la pittura, per il disegno, per le arti visive. Credo che l’inizio sia questo. Poi mi sono iscritto all’università e mi sono laureato prima in medicina e poi in psichiatria. Ma tutto questo l’ho abbandonato subito, perché ho visto che non era adatto al mio temperamento.
[HUO] Ma è questa la cosa fantastica: il suo è uno dei pensieri più transdisciplinari. A me interessa molto la nozione di pooling of knowledge di cui parla Kepes. Sempre di più c’è una paura di questo pooling of knowledge.
[GD] Per me questa formazione neurologica è stata molto importante, perché volevo rendermi conto di come funzionassero la mente umana, i disturbi della personalità e naturalmente la follia. Poi mi sono accorto che non ero adatto a fare il medico, per cui ho lasciato quell’ambito. Ho frequentato la filosofia, ho fatto la libera docenza in estetica, ho fatto il concorso per l’università e sono diventato professore di estetica a Milano. E poi anche in altre città.
[HUO] E dopo ha lavorato molto su arte, architettura, design.
[GD] Sì, credo di essere stato tra i primi professori di estetica a rendersi conto che il design e l’architettura erano due settori fondamentali di questa disciplina. Perché molto spesso gli estetologi, che hanno una formazione filosofica, si interessano solo dell’aspetto teoretico, e quindi gli oggetti dell’arte non gli interessano. Tutt’al più un po’ di pittura. Ma tre quarti dei miei colleghi della facoltà di filosofia non sanno neanche cosa vogliono dire sul serio la pittura, il design… Dell’architettura poi non parliamone.
[HUO] Per questa ragione è molto importante questa intervista, perché lei è il pioniere di tutti questi ponti.
[GD] Effettivamente io ho dovuto lottare molto, perché prima di darmi questa cattedra c’era molta sospettosità verso di me. Perché, dicevano, questo qui è uno che si occupa di critica d’arte, di architettura, quindi non è un vero filosofo. Ho dovuto fare dei saggi su Schelling, su Vico, insomma su filosofi – diciamo – veri, perché accettassero di farmi entrare all’università.
[HUO] Vico è stato anche un punto di partenza.
[GD] Vico, Schelling, e poi anche altri autori come Herbert Read o Gombrich, a meta strada fra storia dell’arte e filosofia, mi interessavano molto.
[HUO] In Internet ho immesso il suo nome in un motore di ricerca, e la cosa interessante è che si trovano tante differenti descrizioni per la sua attività. In alcuni casi si dice che lei è un critico d’arte, in altri un filosofo, in altri un critico del design, in altri un giornalista. Io sono molto interessato a questa moltitudine di ruoli, perché è una cosa adesso molto attuale.
[GD] Direi che è una cosa rovinosa. Per me è stata una rovina, perché io sono entrato all’università come professore ordinario quando avevo già cinquant’anni passati. Proprio perché mi guardavano con orrore, oppure con sospetto.
[HUO] Dunque lei e stato indipendente per molti anni, prima.
[GD] Si, prima ho fatto il critico su giornali e riviste.
[HUO] E per quali riviste?
[GD] Varie riviste, nessuno se le ricorda più. Marcatre, Il Verri, aut-aut. aut-aut fu creata da Enzo Paci – il filosofo – e da me, negli anni Cinquanta. Esiste ancora, ed ora è una rivista soltanto filosofica diretta da Pier Aldo Rovatti. Ma alla fine degli anni Cinquanta aut-aut fu una delle prime riviste italiane a pubblicare saggi di Herbert Read, di Gottfried Benn, di architetti come Rogers, di musicisti come Dallapiccola e Berio. Cercava di pubblicare quello che offriva il mondo nel campo dell’estetica.
[HUO] Lei mi dice che a questa rivista prendevano parte dei critici, degli architetti, degli artisti. Una cosa di cui abbiamo parlato molto con Stefano, ad esempio in interviste con Giancarlo De Carlo, con Ettore Sottsass o con altri architetti o artisti, è questo particolare momento che stava vivendo Milano. A me interessano molto alcuni momenti, come quello dell’Independent Group a Londra. Sono molto interessato ad avere la sua visione su questa effervescence, su questo miracolo di Milano.
[GD] Effettivamente Milano negli anni Sessanta-Settanta è stata un punto d’incontro molto importante per l’arte e per la cultura in generale. Molto più di quanto non lo fossero la Germania o la Spagna. In Francia c’erano gia Lyotard e Baudrillard, ma erano appena agli inizi. L’Italia era molto avanzata, difatti in seguito al mio lavoro ad aut-aut, che era diretta da Paci e da me, sono stato invitato negli Stati Uniti con un travel grant assegnato dallo State Department. Si trattava di fare un viaggio di cultura, e io ho chiesto di incontrare tutti gli architetti importanti. Per cui ho conosciuto Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright, Louis Kahn, insomma tutti quelli che allora erano i più interessanti del momento. Era il ’58, mi pare.
[HUO] Ancora oggi, nella storia dell’arte o nella filosofia dell’arte, ci sono molti autori che rifiutano di incontrare gli artisti, che hanno questa distanza. Lei invece ha sempre avuto rapporti, dialoghi con architetti ed artisti; sono interessato a conoscere l’importanza che per lei hanno avuto questi dialoghi. Ne parlavo con David Sylvester, che ha avuto delle conversazioni lunghissime con Bacon, e mi sono domandato se anche lei con alcuni artisti ha sviluppato dei lunghissimi rapporti.
[GD] È fondamentale. Negli anni Cinquanta qui a Milano fu creato un movimento artistico, chiamato MAC (Movimento d’Arte Concreta). Venne fondato da (Bruno) Munari, (Atanasio) Soldati – il pittore metafisico -, (Gianni) Monnet – un architetto di Torino – , e io stesso. Abbiamo fatto una serie di mostre e di pubblicazioni – bollettini, cataloghi, depliant – dedicate all’arte astratta, all’arte non figurativa.
[SB]A quei tempi era un’operazione di grande rottura, di grandissima rottura.
[GD] Con rapporti col design. Già allora sia Sottsass che Munari avevano collaborato ai nostri bollettini.
[HUO] C’era un collegamento con l’arte concreta di Max Bill?
[GD] Si, c’era. Noi avevamo un rapporto di amicizia con Max Bill, con (Richard Paul) Lohse, con (Camille) Graeser, col gruppo della Konkrete Kunst.
[HUO] È soprattutto Bill che trovo interessante, per la sua partecipazione ad entrambi i campi: quello artistico e quello architettonico.
[GD] Max Bill è venuto in Italia varie volte, ed ha esposto nella galleria dove esponevamo noi. Non era in realtà una galleria, ma una libreria, Salto, sulle cui pareti venivano presentati i lavori. Bill è stato uno di quelli che hanno avuto più contatti col MAC. Come anche Max Huber, un grafico che ha lavorato molto a Milano, grande amico di Bill. Allora avevamo un rapporto molto intimo con loro, e anche con Margit Staber. Quando Bill ha piantato la moglie – poveretta – lei è diventata la sua compagna.
[HUO] Dunque i dialoghi con artisti e architetti sono un elemento importante nel suo lavoro.
[GD] Sì, per conto mio è fondamentale: io ho cominciato ad interessarmi all’architettura soprattutto per merito di un gruppo di amici, tra i quali il gruppo BPR, che erano Rogers, Banfi, Belgiojoso. Avevo un continuo rapporto con loro, e anche quelli un po’ più anziani come Figgini, Pollini, Albini, erano tutti miei amici. In un certo senso non ho mai avuto il coraggio di decidermi a fare architettura, perché mi dicevo: piuttosto che diventare un mediocre architetto, meglio niente. Però l’architettura come arte mi interessava forse più delle altre. Difatti il mio libro L’Architettura moderna, quello pubblicato da Garzanti, lo doveva fare Rogers. Garzanti gli aveva chiesto di scrivere un libro introduttivo all’architettura. Rogers non aveva voglia o tempo in quel momento e allora mi ha detto: “perché non lo fai tu?”. Il libro ha avuto una decina di edizioni; ormai è invecchiato, ma fino a cinque, sei anni fa era abbastanza aggiornato.
[HUO] E con quali artisti o architetti ha avuto i dialoghi più profondi, nella sua vita?
[GD] Naturalmente ci sono degli architetti con cui è particolarmente interessante colloquiare; e invece altri che hanno soltanto interesse per quel che fanno, e che quindi sono meno intellettualizzati. Per esempio, Rogers è stato un tipico architetto intellettuale: aveva più importanza come teorico che come creatore. Tutto il contrario di Peressutti, che invece era un pratico e non un teorico. E così molti altri: Terragni, Lingeri, tutto questo gruppo proto-razionalista era meno teorico di quanto non fossero degli architetti come Michelucci, oppure Libera, o altri che avevano cominciato in quegli anni.
[SB] Che rapporto avevi con Bruno Zevi?
[GD] Beh, con Bruno Zeri… Zevi… (ridendo) Beh, con (Federico) Zeri abbiamo avuto degli ottimi rapporti, ma con Bruno Zevi abbiamo sempre avuto dei rapporti molto conflittuali. Non proprio al punto di litigare, ma insomma…
[SB] Quasi.
[GD] Sì, perché io riconoscevo il suo merito nell’aver portato in Italia e in Europa l’architettura organica e la conoscenza di Wright, che ovviamente all’epoca non era conosciuto e che era uno dei massimi architetti allora viventi. D’altro canto, il suo fanatismo, sia per l’architettura organica che in genere per certe posizioni molto perentorie, faceva sì che io non andassi d’accordo con lui. Anche perché a me interessava molto di più un’architettura meno razionalista e più modulatrice; più plastica, diciamo. Tipo l’Einsteinturm di (Erich) Mendelsohn, che è un precursore; o tipo (Hans) Hollein, per dire un architetto dei nostri giorni. O anche (Renzo) Piano, se vogliamo, piuttosto che (Jean) Nouvel. Dunque, la posizione di Zevi è stata completamente diversa dalla mia, però è stato uno dei critici più importanti.