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Gillo Dorfles, Il divenire delle Arti (Vol. 2/2)

Un dialogo serrato del 2003 con Hans Ulrich Obrist e Stefano Boeri. Una preziosa testimonianza della complessità intellettuale di una delle figure più sofisticate e rivoluzionarie della critica italiana

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Angelo Eugenio Dorfles, detto Gillo, laureato in Medicina, con specializzazione in Psichiatria è stato un critico d’arte, pittore, filosofo e accademico italiano

[Hans Ulrich Obrist] Fra i suoi molteplici ruoli – critico, autore, filosofo – che posizione ha quello del curatore? Lei ha curato delle mostre?

[Gillo Dorfles] Io ho curato poche mostre, anche perché avevo poca pazienza per tutto l’ingranaggio. Per questo non ho fatto il tipo di carriera di (Achille) Bonito Oliva o di (Germano) Celant, che io conosco da quando avevano diciotto anni.

[HUO] Provengono da lei.

GD: Beh questo no, ma io li conoscevo bene da quando erano proprio agli inizi. E loro hanno avuto l’abilità di seguire quella strada, per la quale io non mi sentivo adatto. Però io, per esempio, ho organizzato una mostra di Fausto Melotti a Dortmund, la prima mostra che ha fatto all’estero. E io considero Melotti un grande scultore. In seguito, ho fatto un’altra mostra a Dortmund, Elf Italiener Heute. Poi ho curato una mostra di italiani in Brasile, in occasione di una delle Biennali di San Paolo. L’unica che tuttavia considero importante è una mostra che si chiamava Al di la della Pittura, che ho fatto insieme a Filiberto Menna – il quale è stato un grande critico, morto qualche hanno fa. L’abbiamo fatta a San Benedetto del Tronto, una cittadina sull’Adriatico. Questo avveniva negli anni Sessanta. Lì furono esposti per la prima volta degli ambienti di Bonalumi, di Castellani…

[HUO] Anche Fontana?

[GD] Anche Fontana. Poi c’era Turcato, c’era Kounellis…

[HUO] L’idea era di andare al di là della pittura, nello spazio ambientale dove lo spettatore poteva immergersi?

[GD] Appunto. Fare una mostra che fosse basata sullo spazio, sull’intervento concettuale. C’era una zattera che galleggiava sul mare, c’era un muro costruito da Kounellis, insomma erano delle cose allora completamente nuove. Poi dopo quel periodo ho presentato decine e decine di artisti, ma grandi mostre non ne ho più fatte. Sono stato coinvolto in una Biennale di Venezia, mi pare tre Biennali fa. Lì ho fatto esporre per la prima volta un artista completamente sconosciuto: Trafeli, scultore di Volterra.

[HUO] È molto interessante questa nozione di ambientale. Vorrei saperne di più sui suoi dialoghi con Fontana.

[GD] Fontana era molto mio amico, ed è intervenuto anche nelle mostre e nei bollettini del MAC. Nelle cartelle numerate che producevamo c’erano delle tavole di Munari, Dorazio, Perilli, e c’era anche una sua tavola. Io, Fontana sono stato uno dei primi ad appoggiarlo: ancora prima della guerra, quando faceva le sculture nere.

[HUO] Negli anni Quaranta?

[GD] Negli anni Quaranta. Naturalmente se lei guarda la sua bibliografia vede citato il solito Crispolti, e non me, perché io non ho mai fatto una monografia su di lui. In genere mi interessava di più lanciare per la prima volta un artista piuttosto che fare la fatica di scrivere una monografia.

[HUO] Il suo si può definire un lavoro di laboratorio, in un certo senso.

[GD] Sì, direi di sì. A parte alcuni artisti, come per esempio Castellani e Bonalumi – per i quali ho scritto anche delle monografie e sono stato uno dei primi ad appoggiarli – per molti degli altri che mi hanno interessato ho fatto solo una prima presentazione in una mostra, e poi non me ne sono più occupato.

[HUO] La sola domanda ricorrente nel mio progetto-intervista è la domanda sulle unbuilt roads. Potrebbe parlarmi dei suoi progetti non ancora realizzati?

[GD] Ho vari saggi che penso di raccogliere per fare un volume sul tipo di quelli che ho già pubblicato. Inoltre, dovrebbero essere ristampati ancora altri due o tre libri, sempre da Skira. Poi naturalmente ho fatto alcune mostre, anche negli ultimi tempi. Il PAC di Milano ha ospitato una mia grande antologica. Avrei intenzione di fare ancora qualche mostra, purché sia importante: non in una qualsiasi galleria, ma ad esempio in una sede comunale.

[HUO] Sono mostre tematiche o monografiche?

[GD] Beh, monografiche: della mia opera.

[HUO] Della sua opera di artista?

[GD] Sì, sì.

[HUO] Potrebbe parlarmi un po’ della sua opera di artista? Si tratta di dipinti? Perché io conosco soprattutto i suoi scritti.

[GD] Posso mostrarle il catalogo della mostra che ho fatto al PAC. Si inizia dalle mie prime cose, che sono ancora un po’ surreali; poi ci sono le cose più concrete, e poi si arriva a quelle di oggi.

[HUO] Lei ha sempre proseguito in quest’attività di pittore?

[GD] Sì. Purtroppo, siccome avevo molto da fare e spesso non potevo occuparmene praticamente, ho finito per trascurarla. Se avessi potuto fare solo il pittore sarebbe la cosa che avrei fatto con più piacere. No, forse è colpa mia; d’altro canto, la fiducia in me stesso non era tale da permettermi di ipotecare tutto il mio lavoro solo sulla pittura.

[HUO] E quindi dipingere è rimasta un’attività clandestina.

[GD] È rimasta clandestina, perché effettivamente a parte alcune mostre ufficiali…

[HUO] Dunque con Munari c’e sempre stato un dialogo molto forte. Mi interessa, perché Munari oggi è riscoperto da molti giovani artisti, ad esempio in Giappone e in Francia. Probabilmente Munari e Boetti sono gli artisti italiani che interessano di più i miei amici artisti.

[GD] Munari era un uomo geniale, molto interessante: anche nel campo del design è stato fondamentale. Ma come pittore non si può dire che sia stato molto importante.

[HUO] I suoi libri hanno una forte influenza.

[GD] I libri, il design, l’insegnamento: lui ad esempio ha fondato dei gruppi di lavoro per bambini. Munari è importante soprattutto come didatta e come teorico del design; e poi come creatore di giochi, macchine inutili, cose a metà tra il gioco e il design. Come pittore vero e proprio e proprio non è molto interessante.

[HUO] Lei ha parlato, in molte interviste, di Schifano come uno dei suoi pittori preferiti.

[GD] Chi?

[HUO] Mario Schifano.

[GD] Mario Schifano tra i miei preferiti? Beh, com’era una volta, quando era ancora astratto e faceva quelle superfici gialle con un numerino in mezzo. Poi, finito. Purtroppo. Finito completamente: la droga, il vino, l’alcolismo. Se Schifano avesse continuato a fare quello che faceva quando aveva diciotto, vent’anni, senz’altro sarebbe stato uno dei pittori più interessanti.

[HUO] Lei ha incontrato molti artisti ed architetti quando erano giovani, spesso ai loro inizi. Vorrei parlare della nozione della ricerca: nei suoi saggi si parla della sua ricerca continua.

[GD] Ero a contatto con l’ambiente. Attraverso le mostre o nelle gallerie venivo a contatto con qualcuno che mi interessava, e lo seguivo. Ancora adesso, quelle poche volte che trovo qualche artista che mi interessa, cerco di seguirlo.

[HUO] Quali sono i giovani artisti che oggi lei trova interessanti?

[GD] Eh, oggi è un brutto momento. Lei si occupa della Biennale, anche, no?

[HUO] Di una sezione.

[GD] Qual è?

[HUO] Sull’utopia.

[GD] Beh, bello. Bellissimo.

[HUO] E dunque esistono giovani artisti che a lei piacciono?

[GD] Mah, difficile. Fra quelli di oggi, veramente… Non vorrei fare dei nomi. Perché poi sono sempre quelli: il Cattelan da una parte, la Beecroft dall’altra… Non c’è molto da scegliere. Qualche artista video, tipo Pipilotti Rist. Oppure Tony Oursler per esempio mi piace molto, ma sono sempre dei casi parziali. Marginali, diciamo. È un momento particolarmente difficile.

[HUO] È importante ricordarsi che questo è un mondo dinamico, non nostalgico. Ma io penso che questi souvenir, queste memorie sulla Milano degli anni Sessanta, sulla Londra degli anni Cinquanta-Sessanta, possano essere molto utili oggi.

[GD] Si, per esempio il rapporto con Londra. Proprio negli anni ’50 veniva fatta This is Tomorrow.

[HUO] Lei ha visto This is Tomorrow?

[GD] Sì, sono stato a Londra in quel periodo. Ero molto amico di alcuni di loro, per esempio di (Eduardo) Paolozzi e di (John) McHale, che poi è andato in America.

[HUO] Morto giovane.

[GD] Morto giovane; era un uomo molto intelligente. Insomma, allora ero molto amico di questo gruppetto.

[HUO] Dunque c’era un collegamento fra il momento londinese e quello milanese. Perché anche a Londra c’era questo aspetto transdisciplinare, fra arte e architettura.

[GD] Sì, effettivamente. Perché allora c’era un contatto con gli Smithson, per esempio, o con (James) Stirling. Tutto in quel periodo lì, insomma.

[HUO] Una cosa di cui non abbiamo ancora parlato sono i rapporti con la scienza. Quando leggo Artificio e Natura, ma anche molti altri suoi testi, trovo spesso links, legami con la scienza. Qual è il suo rapporto con la scienza?

[GD] Il rapporto è dovuto solo a quella base di fisiologia, psicanalisi e psichiatria che ho avuto, perché effettivamente credo sia importante per capire molte cose. Sia della pittura, che dell’architettura. Quindi è in quel senso che mi interessa. Non che ci sia un rapporto fra scienza e arte nel senso che l’arte rispecchi la scienza: queste sono delle cose completamente stupide, non credo a questo tipo di rapporto. No, penso che (la scienza) sia interessante – per esempio – per spiegare molta arte concettuale. O forme di arte tipo poesia visiva, in cui bisogna tenere conto anche dell’aspetto teorico.

[HUO] Come vede il futuro dell’arte?

[GD] È molto difficile. Dirò anche che io, che dipingo, considero le pitture che faccio come appartenenti al passato. Però se potesse, nel futuro, esserci un ritorno ad una pittura – non figurativa ovviamente, non mimetica ma pur sempre pittura – credo che sarebbe una cosa positiva. Ossia: negli ultimi tempi si è esagerato con il video, con la computer art, con queste forme di manipolazioni artificiali, e io credo che effettivamente dovrebbe esserci un ritorno ad un maggior contatto con la natura. Però dire come potrebbe essere domani l’arte visiva è difficile. Per l’architettura si può dirlo.

[HUO] Qual è il suo punto di vista per quanto riguarda l’architettura?

[GD] Ma lo vediamo: la scomparsa della fissazione sopra le costruzioni rettangolari di vetro e di cemento, che ormai annoiano tutto il mondo. Senza bisogno di arrivare alle esagerazioni di Gehry, (andiamo verso) un’architettura che – a seconda dei casi – tenga conto della dilatazione spaziale, della possibilità di ondulazioni, di manipolazioni dello spazio; in modo da creare un panorama diverso da quello attuale. Per l’architettura mi sembra prevedibile. Per le arti visive devo dire che, se tutto dovesse sfociare nel video, sarebbe triste. Credo che alcuni dei nuovi mezzi, per esempio la computer art o un certo tipo di collage fatto attraverso il computer, possano avere ancora molte possibilità di sviluppo. Ma tutto sommato io credo che la manualità, cioè l’intervento diretto dell’uomo nella creazione artistica, debba essere importante anche in futuro.

[HUO] Questo ci conduce alla questione del futuro del museo. In un certo senso stiamo vivendo una crisi dei musei, che diventano sempre più grandi e offrono percorsi accelerati senza più momenti di silenzio. Se si guarda agli inizi del MoMA o al lavoro di Alexander Dorner ad Hannover, che erano esperimenti radicali, si nota una perdita di complessità. I meccanismi della globalizzazione ci portano sempre di più verso una omogeneizzazione di tutti i musei. Sono molto interessato al suo punto di vista, oggi. E a quali sono i suoi musei preferiti, anche del passato.

[GD] Sono tornato pochi giorni fa da Rovereto, dove c’è questo grande museo di Mario Botta (MART), che è effettivamente molto ben strutturato. C’era una mostra sull’arte degli ultimi cinquant’anni, una bella mostra: da Fontana a Castellani. Un museo che abbia questo tipo di collezioni è già una cosa soddisfacente. Mi soddisfano molto meno quei musei che vogliono impostare tutto – come dicevo prima – sulla performance, sull’installazione, sul collage polimaterico: su questi elementi raccogliticci che ancora non hanno avuto il tempo di sedimentare. Credo che uno degli errori di molti musei, soprattutto in America e in Germania (in Italia ce ne sono troppo pochi per parlarne), sia di accettare delle opere prima che siano state mature. Questo è dannoso, perché oggi l’artista ormai crea con l’idea di finire nel museo: fa opere gigantesche, tele di quattro metri, ambientazioni. Questo è un fatto veramente dannoso.

[HUO] Quindi lei pensa che si debba rallentare, non accelerare.

GD: No, non bisogna accelerare. In questo momento credo che bisognerebbe proibire l’ingresso ai musei alle persone che non abbiano avuto un consolidamento, un’affermazione sicura negli ultimi dieci anni.

[HUO] Un museo per lei può essere anche un laboratorio?

[GD] Certamente. Ma bisogna distinguere. Un museo-laboratorio dove si ospitano degli artisti per farli lavorare, per poi magari tenere alcune opere, come ne ho visti in vari paesi – in Germania come in Spagna, ma anche in Italia c’e qualche piccolo raduno – questo mi pare giustissimo. Ma non con l’idea che debbano poi andare a finire nel museo.

[HUO] Quali sono i suoi musei preferiti?

[GD] Come spazialità, principe è il Mies van der Rohe di Berlino (Neue Nationalgalerie). Poi naturalmente il MoMA e l’Art Institute di Chicago sono musei di prim’ordine, come del resto è bellissimo il Cleveland Museum of Art: io ho visitato tutti i musei dell’America, e devo dire che in gran parte sono soddisfacenti. In Europa abbiamo questo nuovo museo di Gehry, il Guggenheim di Bilbao, che indubbiamente è molto affascinante, però non ha ancora una collezione fissa, quindi non sappiamo come diventerà.

[HUO] Abbiamo parlato della transdisciplinarità, della scienza, dell’architettura e del design. Oggi è un momento in cui fra i giovani artisti troviamo molti ponti: fra arte e musica, fra arte e architettura, fra arte e scienza. C’è però un ponte che sta mancando sempre di più, che era molto presente nelle avanguardie del XX secolo, nel Surrealismo e anche negli anni Sessanta: oggi è sparito il rapporto fra giovani e artisti e giovani autori letterari. Sia (Giulio) Paolini che Giancarlo De Carlo mi hanno detto che hanno conosciuto bene Italo Calvino: dunque c’erano molti dialoghi fra arte e letteratura e fra architettura e letteratura. Oggi è una cosa che manca: il rapporto con la letteratura si è perso, in un certo senso.

[GD] Effettivamente si è perso, per colpa della letteratura. Ossia: per quel che riguarda l’Italia, personalità come Calvino oggi non ci sono. Fra i giovani io mi sono interessato ad Aldo Nove, a Tiziano Scarpa, e poi naturalmente ad Antonio Tabucchi. Però non mi pare che abbiano molta affinità con le arti visive. Il grande momento dei rapporti tra, ad esempio, Gadda e i pittori d’avanguardia di allora, oggi è passato.

[HUO] Attraverso Stefano Boeri l’altro giorno ho incontrato il figlio di Einaudi, Ludovico Einaudi.

[GD] Il musicista?

[HUO] Sì. Abbiamo parlato, ed Einaudi raccontava il funzionamento della casa editrice all’epoca…

[GD] Sì, difatti oggi mancano anche i rapporti con i musicisti. Io sono sempre stato molto amico di Berio, di Dallapiccola, e soprattutto di Franco Donatoni, che considero il maggior compositore italiano.

[HUO] Più ancora di Berio?

[GD] Si, Donatoni è il più grande. E poi anche i più giovani, come per esempio Francesconi e Gervasoni, li conosco molto bene. Mi interesso molto alle loro cose, tuttavia non direi che ci sia un rapporto con l’arte.

[HUO] Molte grazie, una bellissima intervista.