Capsule Digitale

Il mondo dell’arte e il mercato dell’arte (Vol. 2/5)

Chi decide il successo di un artista nel mercato internazionale? Galleristi, mostre e vernissages, collezionisti, critici, televisione,radio e giornali, musei, aste, fiere biennali, sponsors: un colossale apparato costruisce la fama di un artista.Ma attenzione: la gerarchia è rigidissima e intoccabile. René Berger* offre un’alisi che rintraccia le regole complesse di questo sistema. Da “Il Giornale dell’Arte” n°2, giugno 1983

Social Share

Il 21 ottobre 1959, apre le sue porte al pubblico il Solomon R. Guggenheim Museum, cambiando per sempre lo skyline di New York e il paesaggio culturale della città, il capolavoro a spirale di Frank Lloyd Wright, un’architettura radicale e uno degli spazi più iconici del mondo. Photo Robert E, Mates, Courtesy Solomon Guggenheim Museum New York

Il mondo dell'arte e i suoi agenti

I musei: una gerarchia feudale

Di primo acchito, nei musei tutto appare diverso. Il Louvre a Parigi, gli Uffizi a Firenze, la National Gallery a Londra, il Metropolitan di New York, tanti luoghi elevati dove i visitatori sono certi di scoprire tramite l’arte le immagini dell’Egitto, della Grecia, di Roma, della Cina, del Giappone, o di seguire quelle dell’Occidente lungo il Medioevo, il Rinascimento e i secoli successivi. Perciò vi si recano in folla, a centinaia di migliaia, a milioni ogni anno, talvolta venuti di lontano, individualmente o più spesso in gruppo. Il sentimento che tutti provano, conscio o no, è che i musei, come le biblioteche, conservino la memoria collettiva, con la differenza che si permettono di scoprirla con un approccio sensibile, invece di decifrarla nei libri.

Da qualche decennio esistono musei d’arte moderna, in seguito alla mutazione subita o provocata dal nostro mondo. Come i musei d’arte antica hanno la funzione di proporci gli aspetti del passato, i musei d’arte moderna hanno quella di offrirci l’immagine pubblica e molteplice della nostra epoca. Da essi ci si attende, questo è il sentimento prevalente, che stabiliscano una sorta di continuità con l’arte antica oppure, se non è il caso, che mutamenti o rotture siano se non espliciti, almeno spiegati, in ogni caso spiegabili.

I musei d’arte moderna son così diventati uno degli elementi importanti del mondo dell’arte e del mercato che essi contribuiscono a far funzionare. Il mercante, in questo simile al collezionista, desidera vedervi le opere dei «suoi» artisti ben in vista. L’essere acquisita da una istituzione fornisce l’opera d’un potere supplementare, quello di essere parte del patrimonio pubblico, inalienabile in linea di principio; la collezione permanente è lo strumento di elaborazione della memoria collettiva. [5]

I musei d’arte moderna rappresentano così contemporaneamente più parti: la parte di «designatore» attraverso gli acquisti; la parte di «conservatore» attraverso l’amministrazione delle collezioni già costituite o di quelle da costituire; la parte di «pubblicitario» attraverso l’esposizione pubblica delle opere acquisite (si aggiungono a questo le notizie dei cataloghi, i manifesti, le riproduzioni, le cartoline postali ecc.); la parte diretta, e più spesso indiretta, di «promotori» attraverso l’effetto di notorietà di cui s’avvantaggiano gli artisti prescelti, i mercanti, i collezionisti; senza tener conto del prestigio che i musei ottengono in occasione di acquisti prestigiosi (è spesso il caso dei musei americani), o di acquisti che hanno effettuato per primi e che valgono loro, quando l’artista diventa celebre, la reputazione di scopritori.

Ora i musei d’arte moderna non hanno tutti la stessa configurazione. Alcuni sono ufficiali; altri semiufficiali, altri ancora privati. Anche se la loro funzione è in pratica la stessa, illuminare l’evoluzione dell’arte contemporanea, essi la esercitano in modi diversi. In certi casi il loro statuto li obbliga a comperare solo artisti del paese, in altri casi di suddividere gli acquisti tra artisti nazionali e artisti stranieri. L’immagine dell’arte espressa dalle loro collezioni non dipende dunque soltanto dagli artisti, ma dal potere politico ed amministrativo che si trova all’origine dell’istituzione.

Il fattore decisivo, almeno in Occidente, è la disponibilità finanziaria. A seconda che il museo disponga di fondi importanti o limitati, le sue acquisizioni variano per il numero, ma soprattutto per il prezzo. Un Picasso o un Braque sono fuori portata per un museo medio; per parlare dei viventi, un assemblaggio di Rauschenberg, una tela di Lichtenstein, una scultura di Henry Moore non possono essere acquisiti che da musei ricchi. L’immagine pubblica dell’arte contemporanea non dipende dunque solo dai responsabili. Il potere economico determina tra i musei una gerarchia che frutta ai privilegiati le collezioni più ricche e rappresentative, le più care; ai diseredati, salvo eccezione (a prezzo di acrobazie finanziarie o grazie a donazioni provvidenziali), toccano collezioni locali o di second’ordine e talvolta depositi.

I direttori di queste istituzioni (direttori di pieno diritto, conservatori capi o solo conservatori) debbono avere oggi talenti manageriali. Forse sarebbe più opportuno parlare d’imprenditori culturali? Non so se l’epiteto cambia molto lo stato dei fatti. La maggior parte dei musei d’arte moderna dedica una parte notevole della sua attività, oltre all’acquisizione di opere d’arte, all’organizzazione di mostre temporanee, individualmente o in collaborazione con un altro museo, o anche in pool, con divisione delle spese. Il pubblico, che su questo punto non viene mai informato, come ignora anche i prezzi delle acquisizioni, non sa che l’esposizione temporanea è un’operazione onerosa per le spese di assicurazione e di trasporto, che gravano pesantemente sul bilancio. Quanto più le opere sono costose, tanto maggiori sono le spese, così che la voce «assicurazioni» diventa spesso proibitiva. Perciò non fa meraviglia che soltanto i grandi musei (grandi è sinonimo di ricchi) siano in grado di presentare esposizioni che nessun altro museo di minori mezzi potrebbe affrontare.

Questa singolare situazione fa dei musei un mondo semifeudale. Duchi e baroni occupano i grandi feudi; la piccola nobiltà si disputa le posizioni minori. Vedo bene ciò che la mia immagine ha di caricaturale. Ciò nonostante, aiuta ad illustrare i costumi che vi dominano, dove l’ambizione non è certo la prima a scomparire. I direttori dei musei esercitano un potere che è proporzionale ai mezzi di cui dispongono: Le grandi esposizioni si elaborano tra pari, le esposizioni che attraversano i mari per raggiungere Parigi, New York, Tokio, e di cui tutti parlano: le loro scelte sono tanto più “costrittive” quanto più alta è la posizione che il direttore occupa nell'”aristocrazia”. Le «esposizioni»: alla ricerca dell’indice di gradimento.

Un altro fenomeno su cui si deve attirare l’attenzione: aperta la mostra, il museo si trasforma in «emittente» che, per settimane o per mesi, diffonderà un «messaggio» rivolto ad un pubblico sollecitato a riceverlo. Gli artisti e le opere si avvantaggiano di una «esposizione» (questa volta nel senso tele visuale del termine) che rinforza la loro presenza e quindi la loro esistenza (i «non esposti» restano nell’anonimato, spesso sinonimo di non esistenza). Premeditatamente uso termini tratti dal vocabolario dei media. Senza che ce ne si renda conto, i musei assumono sempre più forma di emittenti. Ma se essi hanno assunto il potere di un medium, per alcuni di un medium di massa (i visitatori si contano a centinaia di migliaia), ne adottano anche la logica il cui principio è la successione ininterrotta delle trasmissioni. Un fenomeno analogo si produce oggi nei musei. Le esposizioni si susseguono senza interruzione, talvolta contemporaneamente in quelli che si è convenuto di chiamare «i grandi musei» (la potenza di «emissione» del Beaubourg non si può mettere in dubbio, se fa tanta invidia).

L’indice di gradimento si misura alla radio e alla televisione con sondaggi, determinanti negli Stati Uniti, indicativi in Europa, stando a ciò che affermano i presidenti dei networks. Senza forzare l’analogia, si constata che le esposizioni hanno anch’esse il loro strumento di misura in quello che si potrebbe chiamare «indice di frequenza». Senza pretendere che gli organizzatori di esposizioni siano condizionati dal numero dei visitatori, di cui tuttavia amano fare il conto esatto, è evidente che essi costituiscono un fattore di apprezzamento importante, anche senza considerarne l’incidenza sul risultato finanziario.

In ogni caso, e alla radio e alla televisione i sondaggi sono determinanti per gli inserzionisti i cui investimenti pubblicitari abbastanza onerosi devono corrispondere ad un indice di ascolto adeguato. I musei non hanno ancora introdotto spots nelle loro esposizioni. Però! Il potere economico dispone di mezzi ben più sottili.
Negli Stati Uniti non c’è esposizione di una certa importanza, al Metropolitan, al Museum of Modem Art, al Whitney Museum o al Guggenheim, per fermarci a New York, che non sia annunciata all’ingresso dalla formula, Sesamo apriti!: «This exhibition has been made possible by a grant of X» [6], dove X è, si sa, non un mecenate anonimo, ma una multinazionale innamorata della cultura (è una interpretazione mia): Shell, Esso, Mobil Oil, Standard Oil, I.B.M. ecc.

Mi guardo bene dal denunciare una pratica che ci ha dato esposizioni notevoli tanto in America quanto, per contagio, in Europa. Ma sarebbe tanto errato quanto ingenuo non voler vedere ciò che questa pratica nasconde, insomma, gli interessi delle parti: qui lo sponsor, che dà tutto o in parte il denaro di cui il museo ha bisogno; là l’esposizione organizzata dal museo diviene, se non il supporto pubblicitario, almeno l’agente di prestigio per lo sponsor il cui marchio di fabbrica assume ai nostri giorni valore di bandiera (alzare la bandiera in nome dell’arte è ormai compito delle public relations).

Sono lontani i tempi in cui un Baudelaire poteva, spesso molti mesi dopo l’esposizione al Salon, mettere per iscritto le sue impressioni e riflessioni con tutta calma. Oggi si vuole che il critico si pronunci immediatamente su quella che si chiama l’attualità ordinaria dei media (svolgerò più avanti questo punto). Il settimanale, e tanto più il quotidiano, pongono al critico condizioni del tutto nuove. Spazio e tempo sono misurati. Lo voglia o no, il suo pensiero deve adattarsi a queste costrizioni; omesse le sfumature, il suo giudizio diventa tagliente.
Si tratta di «coprire» in un’area determinata dalla diffusione della pubblicazione il numero maggiore possibile di «avvenimenti» o almeno i più importanti o i più significativi [7]. Non voglio dire che il «sensazionale» sia diventato la sostanza della critica d’arte giornalistica; dico soltanto che è un ingrediente a cui pochi scrittori oppongono un rifiuto quando si presenta. Ne è prova l’attesa avida dei critici in occasione delle mostre di Salvador Dalì, uno dei primi che abbiano inteso il vantaggio, non dico soltanto il profitto, che un artista può trarre dall’attualità.

note:

[5] Questa nozione di proprietà vorrebbe essere più ampiamente svolta. Infatti, le arti figurative, come la pittura, la scultura, la grafica, esistono solo su supporti materiali. Diversamente dalle altre arti, teatro, balletto, concerto, poesia che si svolgono nel tempo, esse sono assimilabili per natura a beni mobili e commerciabili. È anche necessario che non siano troppo grandi, né troppo pesanti, e che siano facilmente trasportabili. Ne è dimostrazione il mercato parallelo delle opere rubate. Per quanto ne so io, non sono mai stati rubati, nel senso letterale del termine, né balletti né opere in musica. E, per quanto riguarda le arti figurative, si può escludere il furto di una cattedrale o di una chiesa; prospera invece il commercio dei quadri e delle statue. L’attività del furto di opere d’arte si svolge esattamente nel campo del mercato dell’arte, là dove si esercita il diritto di proprietà.

[6] «Questa esposizione è stata sovvenzionata da X».

[7]Questi due aggettivi non si riferiscono soltanto a criteri artistici; costituiscono un amalgama in cui si trovano elementi di mondanità, di sorpresa. Vengono in mente gli articoli provocati dalle pitture di Yves Klein, quando impresse sulle sue tele le impronte di donne nude dipinte precedentemente di blu.