Capsule Digitale

Il mondo dell’arte e il mercato dell’arte (Vol. 3/5)

Chi decide il successo di un artista nel mercato internazionale? Galleristi, mostre e vernissages, collezionisti, critici, televisione,radio e giornali, musei, aste, fiere biennali, sponsors: un colossale apparato costruisce la fama di un artista.Ma attenzione: la gerarchia è rigidissima e intoccabile. René Berger* offre un’alisi che rintraccia le regole complesse di questo sistema. Da “Il Giornale dell’Arte” n°2, giugno 1983

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Pierre Restany, il critico indissolubilmente legato al movimento del Nouveau Réalisme. ph. di Piero Guidolotti

I critici: militanti e teorici

Ma vi sono ancora altre costrizioni, per quanto inavvertite. Ci si è chiesto chi fa l’attualità? Innanzi tutto, gli organizzatori di esposizioni: mercanti, direttori di musei, di biennali o di altre manifestazioni. I critici sono chiamati ad esercitare la loro attività sempre più frequentemente allo scopo di prestare il loro avallo, voglio dire in seguito ad avvenimenti che essi non hanno contribuito a determinare e di cui devono rendere conto, obbligati a ciò dagli organi di stampa, quotidiani, settimanali illustrati, riviste. Si può parlare di un artista, se non in un libro, in una rivista, se non è stato portato all’attenzione del pubblico da una manifestazione di una certa importanza?

La logica dei media si rifiuta. Ne segue la conseguenza paradossale che, nelle presenti condizioni, l’iniziativa appartiene alla critica che chiamerò a monte, cioè agli organizzatori di esposizioni, che non si esprimono con la parola, il cui potere tuttavia decide dell’informazione, spesso connessa ad una attualità di circostanza [8].
Costrizioni non solo temporali, ma topografiche. I campi di attività del critico si dividono in zone intorno ai principali centri di produzione. Il legame con l’attualità dimostra che il potere dei media è parte integrante dell’attività critica.
D’altra parte, i critici sono spesso chiamati, o di loro iniziativa (di rado), o per iniziativa delle gallerie, a redigere le prefazioni dei cataloghi di esposizione. Con questo contribuiscono alla notorietà dell’artista e, sia pur in misura modesta, alle sue quotazioni, con vantaggio reciproco. La reciprocità può sorprendere. Si spiega col fatto che il mercato dell’arte introduce un fatto particolare. Se un artista debuttante è tutto contento, e con lui la galleria che lo espone per la prima volta, di trovare un critico favorevole alle sue opere e disposto a scrivere su di esse, si può constatare che man mano che l’artista fa carriera, e dunque che la sua notorietà si rafforza, il mercante tende a servirsi dei critici più noti, dei nomi la cui reputazione ha portata internazionale, anche se il loro interesse per l’artista in questione si è risvegliato piuttosto tardi.

C’è corrispondenza tra il «valore» di un artista e il «valore» di un critico e l’interesse economico non è certo estraneo. Non oserei paragonare il mondo dei critici alla «feudalità» dei direttori di museo. Eppure, l’analogia ci mette in tentazione, salvo il fatto che i direttori dei musei si avvantaggiano dal peso istituzionale dei loro appannaggi, di cui i critici sono privi. Ma questi dispongono di un potere «relazionale», che agisce attraverso la rete dei rapporti personali con «l’aristocrazia» del mondo dell’arte.

Nel moto accelerato dell’arte contemporanea alcuni critici rappresentano la parte di capifila (non mancano esempi, così in Europa come negli Stati Uniti). È quella che io chiamo la «critica militante». Il nome di Pierre Restany è indissolubilmente legato al movimento del Nouveau Réalisme, quello di Germano Célant all’Arte Povera. Senza voler abusare del vocabolario militare, si è costretti a constatare il potere «offensivo» di tali formazioni: da una parte, il capitano, critico e promotore, dall’altra, gli artisti arruolati sotto la sua bandiera. Con l’aiuto dei moderni mezzi di trasporto, e in particolare dell’aereo, i trasferimenti diventano frequenti. Così si può vedere un movimento artistico occupare in pochi mesi i principali centri del pianeta.

Anche se i «condottieri» non hanno sempre il favore della fortuna e le loro armi spesso si ottundono, non si può negare che la volontà di conquista lasci il segno sul mondo dell’arte. Ne sono prova i bollettini di vittoria che essi comunicano periodicamente in occasione delle grandi manifestazioni internazionali, biennali, festival, Documenta ecc. Si vedono pertanto i critici militanti, lo desiderino o no, raggiungere il divismo, di cui partecipano gli artisti da loro protetti. È un divismo precario: i movimenti più audaci sono presto ridotti a battaglie di retroguardia. Allora il «condottiero» assume la figura di «personaggio storico», installandosi nelle pagine assennate degli storici dell’arte. Ma non significa ancora potere, sia pure legittimo, occupare un posto, modesto o distinto, nel sapere ufficiale?

Un altro genere di critica è nato qualche decennio fa: la critica dei «teorici».

Li vediamo svolgere le loro idee soprattutto in libri e riviste, che si rifanno alla linguistica, alla semiotica, allo strutturalismo, alla psicanalisi. Rifiutano la critica giornalistica, che giudicano frivola ed effimera, scartano la critica «poetica», diffidano soprattutto dell’intuizione: vogliono fare opera di pensatori e, in ogni caso, fanno carriera come saggisti. È curioso vedere come siano seguiti da un numero sempre crescente di scienziati medici, matematici, antropologi, biologi, che sentono il bisogno incoercibile di abbandonare le loro attività, per entrare nel mondo dell’arte, che se ne rallegra, non senza apprensione! Le idee svolte da questi autori sono motivate più da interessi teorici che da esperienze compiute; non fa quindi meraviglia che l’ingegnosità e la fecondità di cui danno prova si applichi spesso ad ambiti artistici limitati o anche ad artisti che sono tali soltanto nel loro concetto. Questi microambienti, spesso in guerra tra loro, non escono dai limiti dell’arena dell’intellighenzia. Il potere intellettuale, sovrano in un ambiente chiuso, si rivela inefficiente all’aperto, nel mondo del mercato, dove anche il «terrorismo» intellettuale risulta incompatibile con la legge della domanda e dell’offerta e perde quindi la sua forza.

Radio e TV: la suggestione di massa

Quanto ai media, si deve riconoscere che essi hanno senza dubbio mutato radicalmente la condizione dell’arte e dell’artista. Prima la fotografia, che ha dato origine alla proliferazione delle riproduzioni in bianco e nero o a colori, poi la diapositiva [9], che è diventata lo strumento di documentazione per eccellenza, il cinematografo, l’audiovisivo, il magnetoscopio, presto il video-disco, le risoluzioni tecniche si susseguono. Mi limiterò a rattare brevemente i due media di massa, la radio e la TV. Prima dell’immagine, la radio dà incremento a ciò che può segnalare o evocare per mezzo della voce. Così informa il pubblico concisamente sulle principali esposizioni. Ma è la radio che ha dato sviluppo ad un genere fiorentissimo oggi, l’intervista all’artista, al critico, al collezionista, al direttore di museo, di rado al mercante (ciò che dimostra quanto la visione tradizionale della cultura sia ancora refrattaria per le arti alla realtà economica). Ma i generi obbediscono a regole che possono non avere alcun rapporto con l’oggetto trattato.

Se la trasmissione esce dai limiti di una breve intervista, si è soliti, radio oblige, punteggiarla di intermezzi musicali, se non di «pagine» o di «pause» pubblicitarie. Tali commistioni, che non stupiscono più nessuno, dimostrano il potere pregnante del medium. Inoltre, l’intervista tende a favorire la testimonianza dell’intervistato e l’ascoltatore non può verificare, poiché manca l’immagine. Il fiduciario radiofonico, dunque, è di regola. Ma i responsabili della radio, siccome non lo tengono né per assolutamente fedele, né per sicuramente valido, si orientano su due tipi di trasmissione, la cui diffusione ritengono intuitivamente (o tecnica mente?) possa essere accolta come legittima: per la morte di un grande artista si manda in onda una commemorazione (e la radio avrà la soddisfazione di realizzare la sua vocazione sociale prendendo parte al rito); oppure, in occasione di una manifestazione che fa scandalo, si organizza un dibattito, perché la radio soddisfi la sua vocazione democratica e catartica, in realtà con lo scopo di stimolare l’interesse degli ascoltatori col solito pepe dei media, la polemica.

La televisione, che combina suono e immagine, è forse in situazione migliore? E certo che le trasmissioni dedicate all’arte, senza essere numerose, sono diffuse con regolarità con un indice di ascolto che, anche quando non è alto, supera di molto il numero dei visitatori di una mostra. Le possibilità educative di questo formidabile medium non sono sfuggite ai fondatori della televisione in America; anche l’Associazione nazionale delle emittenti {National Association of Broadcasters), nella dichiarazione del 1969 così si esprimeva con elevatezza di pensiero degna di lode: «La televisione commerciale è un notevole mezzo di accrescimento dell’influenza educativa e culturale delle scuole, degli istituti di insegnamento superiore, della casa, della chiesa, dei musei, delle fondazioni e di altre istituzioni consacrate all’educazione e alla cultura.. .»[10].

Si conosce abbastanza l’evoluzione della televisione americana per sapere che sorte hanno avuto queste pie dichiarazioni. Il monopolio esercitato di fatto dalle tre grandi catene commerciali A.B.C., C.B.S., N.B.C. decide la scelta e il contenuto delle trasmissioni in relazione con gli inserzionisti. Il sistema europeo, fondato sul monopolio di Stato (fatta eccezione per l’Italia) determina condizioni diverse nei vari paesi, ma il tratto comune sta nell’assi-curare alla televisione una vocazione di servizio pubblico, vocazione di cui il potere politico tende a riservarsi la definizione (è necessario ricordare le controversie francesi sulla legge riguardante gli audiovisivi?). L’accesso all’emittente è, in una società come la nostra, una necessità per tutto ciò che vive di notorietà (prodotti di marca, uomini politici, artisti di varietà e artisti tout court).

È naturale che un potere di tal fatta, che si potrebbe chiamare «massmediatico» [11] diventi oggetto di bramosie, passioni, intrighi, cabale; si tratta di farsi strada nella folla che si accalca. Il Giudizio finale divide tutti in eletti e dannati; la televisione non conosce altri che alcuni eletti, tali solo provvisoriamente. Come sono trattati? Un articolo di stampa è firmato: a maggior ragione un libro. La televisione invece, impresa molteplice, fa intervenire, sotto l’autorità di un realizzatore, una pleiade di specialisti (i cui nomi appaiono genericamente ricordati, fra l’indifferenza generale). Anche le decisioni che presiedono alla preparazione di una trasmissione sono collettive e su di esse pesa soprattutto il fattore costi (la minima rappresentazione costa milioni, una trasmissione culturale centinaia di migliaia di franchi). Il costo non è accettabile, di conseguenza, se la trasmissione non raggiunge in misura sufficiente i telespettatori. La tentazione dunque è grande, se non «naturale», di orientare la produzione in funzione della sua «redditività», di cui, anche se non è espressamente prescritta, si deve tenere conto. La corrente, questa è una, agisce contemporaneamente sulla scelta e sul trattamento.

Una trasmissione dedicata a Christo e ai suoi imballaggi ha tutte le possibilità di riuscire più vantaggiosa di una trasmissione dedicata alla grafica di Rembrandt (senza pregiudizio per i rispettivi valori). La logica della televisione è evidente non solo alla sorgente, ma anche all’arrivo. Lasciando da parte gli effetti propri della riproduzione fotografica-riduzione, inquadramento, angolo visuale, particolari ecc. si deve notare che la cinepresa si sforza, in presenza di un’opera plastica, generalmente statica, di moltiplicare gli zooms e i travellings per ottenere a tutti i costi il movimento indispensabile al medium. Ma l’importante è altrove: senza che ci si faccia caso, la percezione del telespettatore non è più libera; essa è sempre controllata dalla cinepresa e dal montaggio.

La percezione per procura diventa una percezione assistita, a cui si aggiungono le decisioni della programmazione che dispongono di noi a giorni e ore determinati. Questa rassegna, sia pur affrettata, dei media, mette in luce gli imperativi politici, tecnici, economici che pesano sulla scelta e la natura delle trasmissioni. Certo, non vi è alcuna tecnica, comprese quelle del discorso e del libro, che sia puramente e semplicemente trasparente. Ogni enunciato è una costruzione; la comunicazione è affare di simboli, dunque di artifici. Ma i media che si servono dell’immagine, in particolare la televisione, che unisce e combina il suono, l’immagine e il movimento, danno più degli altri il senso del reale; la loro credibilità è maggiore.

Due volte maggiore: prima di tutto perché sono direttamente interessati i sensi che nella vita reale ci aiutano a percepire, in ogni caso i più importanti: la vista, l’udito, il senso cinetico; poi perché i messaggi non si rivolgono più ad ambienti selettivi, ma prendono di mira la massa che essi raggiungono. Inoltre, e questo non è il minore dei suoi poteri, funziona quasi di continuo, a differenza del libro che si può aprire, chiudere, riprendere, deporlo per fantasticare. Mi si dirà che è altrettanto facile accendere l’apparecchio che spegnerlo; le inchieste dimostrano che, per effetto dell’abitudine, questa libertà è un mito. Si deve riconoscere che i mass-media hanno un doppio potere di ontologizzazione. Da una parte, essi tendono a promuovere i messaggi che diffondono come se fossero realtà; dall’altra parte, essi ci inducono a comportamenti che divengono una nostra seconda natura. L’Antenna regna in cielo e in terra; ogni telegiornale riprende lo scenario della Genesi: «Che l’attualità sia, e l’attualità fu». Non voglio dire male dei mass-media; voglio soltanto considerarli al loro posto.

Note:

[8] Il costume o il rito di celebrare il centenario, il bicentenario, o semplicemente il cinquantenario della nascita o della morte di un artista, o, per citare un altro esempio, il trasporto di «Guernica» da New York a Madrid, illustrano bene il fenomeno: da un giorno all’altro i fuochi dell’attualità permettono ai critici di parlarne senza altra giustificazione che il calendario o l’avvenimento.

[9] Consapevole dell’importanza dei nuovi media, l’Unesco, in collaborazione con il Consiglio Internazionale dei Musei (ICOM), ha manifestato l’intenzione di produrre una «collezione di diapositive di arte contemporanea (1960-80) che dovrebbe comprendere pitture, sculture, oggetti ecc., di diversi paesi del mondo, poiché l’arte di questo periodo non è abbastanza nota ed è poco riprodotta». Materialmente, la collezione dovrebbe comprendere quattro album cofanetto, contenenti circa trenta diapositive ciascuno. Dopo una prima riunione di esperti fu elaborato un elenco di artisti, su cui fui invitato ad esprimere il mio «parere». Non senza stupore constatai che di circa cento artisti elencati cinquanta erano americani, sedici francesi, quattordici italiani, otto tedeschi, il resto diviso fra le altre nazionalità del mondo. Scrissi una lettera all’Unesco per segnalare questo spiacevole partito preso e lo squilibrio che ne derivava. Non ebbi risposta. Se faccio menzione di questa corrispondenza interrotta, non è per parlare di una mia personale disavventura, ma per mettere in evidenza un aspetto fondamentale del potere in relazione con l’arte. I quattro album cofanetto con centoventi diapositive verranno annunciati col titolo, forse non definitivo, di arte contemporanea (1960-80). Per i fruitori – università, scuole, musei, istituzioni culturali di ogni genere – la collezione definitiva assumerà, sotto l’egida dell’Unesco, carattere di documentazione modello, se non obbiettiva. Si possono immaginare le pressioni che ideologìe e interessi sono tentati di esercitare sull’Unesco in questo caso. Dalle ultime notizie (verbali) mi risulta che l’Unesco ha deciso di rivedere il progetto. Ne prendo atto.

[10] ROBERT BURBAGE, JEAN CAZEMAJOU, ANDRE KASPI, Presse, radio et télévision auxEtatsUnis, Parigi, Armand Colin, 1972, coll. U2, n. 181, p. 356.

[11] Warhol diceva scherzando di permettere a tutti di essere worldfamous per cinque minuti.