Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Chi decide il successo di un artista nel mercato internazionale? Galleristi, mostre e vernissages, collezionisti, critici, televisione,radio e giornali, musei, aste, fiere biennali, sponsors: un colossale apparato costruisce la fama di un artista.Ma attenzione: la gerarchia è rigidissima e intoccabile. René Berger* offre un’alisi che rintraccia le regole complesse di questo sistema. Da “Il Giornale dell’Arte” n°2, giugno 1983
Il mercato dell’arte, come tutti gli altri mercati, ha deciso da qualche decennio di rinsaldare i suoi legami organizzando periodicamente sotto il nome di Fiera d’arte, un incontro dei principali interessati. Una delle più conosciute, e anche delle più ricche, è quella di Basilea; il suo esempio è stato seguito in molti paesi. Il principio è semplice, e quasi lo stesso dappertutto. Per un periodo di solito breve, una settimana o due, le gallerie d’arte sono invitate a montare i loro stands nei capannoni che gli organizzatori affittano a metri quadrati. Nello spirito della società proprietaria o gerente, nulla distingue (a dispetto delle dichiarazioni retoriche) una fiera d’arte da ogni altra fiera di macchine utensili, di elettrodomestici, di abbigliamento ecc.; si tratta, ed è nel suo diritto, di «vendere» lo spazio alle migliori condizioni, assicurando la migliore infrastruttura amministrativa e tecnica, servizi di stampa e di relazioni pubbliche compresi.
Non vi è dunque niente di offensivo nell’osservazione che le opere d’arte vi sono presentate nella loro qualità di merci. Eppure, è ciò che turba il visitatore non avvertito. Gli stands si susseguono a perdita d’occhio; anche se alcune gallerie tentano di arredare il loro spazio, la maggior parte ammucchiano le loro opere su di una superficie la cui ampiezza è inversamente proporzionale al prezzo di locazione. Non si vede nulla di simile ad una esposizione d’arte, quale si può vedere in un museo! Il proposito ha, anche per via dell’accumulazione disordinata, il merito di essere perfettamente chiaro. Si tratta di un’operazione commerciale bell’e buona. Lo riconoscono gli organizzatori i quali, dopo la chiusura della fiera, rendono conto della manifestazione con comunicati che prescindono da ogni considerazione critica ed estetica e ricordano soltanto il volume delle vendite e il numero degli affari conclusi.
Queste fiere, che nei paesi capitalisti si sono moltiplicate (la più recente è stata aperta a Madrid), funzionano come la borsa, dove si decide e fluttua la quotazione degli artisti in funzione degli scambi compiuti dai mercanti; esse costituiscono anche il luogo in cui si «mettono alla prova» nuovi «valori» (che perdono le virgolette se la domanda supera l’offerta). Il gran pubblico le frequenta poco, essendo abituato più ad ammirare che a vendere o a comprare, ma vi s’incontrano con i mercanti che si trovano lì per mestiere, collezionisti, critici, direttori di musei, conservatori, questi tanto più circondati quanto più l’istituzione che dirigono è importante e quindi capace di acquistare. Così le fiere d’arte, in meno di due decenni, sono diventate uno strumento di regolazione che, migliorando l’organizzazione del mercato dell’arte, gli conferisce un’importanza maggiore.
Si può dire altrettanto di quell’agente che sono le vendite all’asta. Certo, esistono da lungo tempo, ma case come Sotheby’s e Christie’s, nomi celebri, hanno loro conferito un prestigio che corona il successo finanziario, a cui i giornali fanno larga eco. Velázquez, Cézanne, Monet, Rembrandt «fanno» milioni di dollari. Morto qualche anno fa, Picasso raggiunge importi record, e con lui compete Dalì, ancora vivente. Recentemente il suo «Enigme du désir» ha raggiunto il milione di dollari. In queste giostre del desiderio, dove si tratta solo di record battuti o da battere, il pubblico non smette di considerare un enigma il fatto che vi siano persone così fortunate da destinare all’acquisto di quadri o di sculture somme tanto cospicue, l’equivalente d’un ospedale o di una scuola. Questa osservazione non è una semplice parentesi; essa mette in luce accanto alla dimensione economica la dimensione sociale dell’arte. Solo le classi ricche possono contendersi le opere dei maestri; le altre classi sono escluse; comprese le istituzioni pubbliche, che fanno per lo più la figura del rivale sfortunato (a meno che non vi sia un diritto di prelazione).
Altra conseguenza più insidiosa: molti capolavori che si crede, o ci si vuol far credere, appartengano al patrimonio pubblico, sono in mani private e tra privati vengono scambiate. Certo, avviene spesso che appaiano in esposizioni pubbliche, ma solo per la longanimità del proprietario, che però lascia a carico del museo tutte le spese d’assicurazione. Chiusa la mostra, le opere prestate tornano ai proprietari che, grazie all’esposizione e alla pubblicità, vedono di solito il loro prezzo salire e in ogni caso la loro fama accresciuta. È vero che molti collezionisti fanno donazioni importanti e legati prestigiosi alla loro morte, che, d’altronde, portano il loro nome; ne beneficiano soprattutto i musei americani e in minor misura quelli europei. Ciò non toglie nulla al fatto che la nozione di patrimonio, così spesso ricordata quando si tratta di arte, è sottoposta al giudizio del potere economico e sociale detenuto dalle classi privilegiate.
Per concludere la rassegna, tratterò brevemente il caso delle Biennali, intendo quel genere d’esposizioni nazionali o internazionali, organizzate periodicamente in uno o più paesi [12]. Secondo il loro statuto che muta di caso in caso, esse si dedicano ora all’insieme delle arti figurative, ora ad una loro particolare espressione: pittura, grafica, scultura ecc. L’organizzazione è di solito affidata ad un comitato o ad un direttore che fa gl’inviti, o direttamente (è questo il caso del commissario generale) o tramite i commissari nazionali designati dai rispettivi governi, o anche coll’aiuto di una giuria incaricata della selezione.
Nonostante la diversità dei regolamenti, lo scopo comune di questi confronti è fornire al pubblico, per un dato periodo (molto più lungo di quello delle fiere) un’informazione di natura e portata internazionale. Quale che sia lo scopo confessato e divulgato dell’impresa, non risulta alcun caso in cui certi poteri non siano intervenuti. E prima di tutto allo scopo di renderla realizzabile.
Questione di fondi; affare di prestigio, anche. La città che prende l’iniziativa della manifestazione (è il caso più frequente) spera che le frutti, per l’esito favorevole, notorietà e visitatori. Nelle finanze pubbliche l’apporto del turismo è diventato importante.
Quando non si ha la fortuna d’essere Venezia, a dire il vero minacciata dalla duplice inondazione del mare e dei turisti, quando non si ha la fortuna d’essere una capitale o una città d’importanza storica, di cui le guide enumerano le ricchezze, commisurando le informazioni al numero di stelle da esse stesse attribuito (una stella, due stelle, tre stelle…), le attrattive sono contate.
Le bellezze naturali (montagna, mare, sole) consentono splendidi dépliants pubblicitari, ma il ricorso ad un certo turismo definito culturale è sempre più ambito.
Una città come Kassel, di cui non si può proprio dire che sia di per sé seducente, s’è fatta una reputazione mondiale grazie a Documenta, dove accorre ad ogni esposizione il gran mondo dell’arte. Presto non vi sarà più città o borgata che non voglia guadagnarsi i suoi titoli di nobiltà istituendo un festival; tutte le forme d’espressione sono valide sempreché sia avanzato del posto: pittura, musica, scultura, piccola scultura, danza, balletto, opera, canto e canzone, varietà, fumetti, disegno umoristico, cinema [13], video ecc.; e quando non rimane più posto, gli stessi festival fioriscono egualmente in paesi diversi [14].
Quanto alla manifestazione in sé, biennale, festival, salon, è chiaro che accanto agli interessi turistici si manifestano i poteri dell’autorità che dirama gli inviti o di quella incaricata della selezione: nel caso del commissario generale, nonostante le professioni d’obiettività pubblicate (quando lo sono), contano e le relazioni e le affinità personali.
Nella formula che prevede commissari nazionali, nei paesi dell’Est le scelte appartengono allo Stato, in quelli dell’Ovest se non suggerite, sono almeno orientate dalla stessa scelta del commissario; appena nasce una manifestazione internazionale, subito interviene, più o meno allo scoperto, il potere politico. La giuria, come istituzione, ha dato talvolta motivo di critica, ma non è stata mai messa in discussione, fatta eccezione per alcuni sporadici episodi, conseguenza del maggio ’68. È un caso sorprendente, visto che la nostra è un’epoca in cui nessuna autorità politica, morale, religiosa, sociale, sfugge alla critica [15]. Tutto procede come se il mondo dell’arte avesse bisogno di esperti abilitati a designare quelli che devono essere distinti dagli altri. Questo distinguere ha serie conseguenze e per gli artisti e per il pubblico. Quando una giuria sceglie una sessantina di artisti tra centinaia di candidati, è evidente che favorisce i prescelti, i quali soli saranno conosciuti dal pubblico [16].
Molte biennali distribuiscono premi ad artisti designati dalla giuria; i laureati beneficiano di un superpremio che comporta insieme eccellenza e notorietà. È un fatto curioso che la maggioranza degli artisti finga di avere in disdegno i premi come ricompensa ormai anacronistica, ma chi li ottiene si prende cura di farne menzione nei cataloghi delle sue opere, palmarès oblige. Fatto non meno curioso, la giuria chiamata ad assegnare i premi dichiara sempre che terrà conto solo della qualità, il che costituirebbe una petizione di principio, se la nostra epoca non avesse praticamente rifiutato ogni criterio di comportamento. L’assegnazione dei premi dipende essenzialmente dalla giuria; in assenza di principi comuni il potere culturale esercitato dai giurati è importante. Come si manifesta?
Nella pratica delle giurie internazionali (fenomeno che risale a qualche decennio fa) si constata che, non considerando le pressioni personali, piuttosto rare, le decisioni hanno due tipi di moventi: in primo luogo la giuria tende a rivolgersi agli artisti già «consacrati» o in corso di consacrazione, a quelli già riconosciuti dal mondo dell’arte; in secondo luogo tende a segnalare ciò che non è ancora stato visto e passa a diritto o a torto per originale (su questo le discussioni sono animatissime).
Il nuovo assume dunque nell’arte valore preferenziale, come avviene per ogni altro prodotto, fatte le debite proporzioni, in una società soggetta a mutamenti accelerati come è la nostra. Certi artisti particolarmente ingegnosi hanno appreso a riservare i loro sforzi per il giorno dell’inaugurazione dell’esposizione, quando la stampa, la radio, la televisione sono pronte a cogliere l’«avvenimento» a caldo, quello che farà colpo (la macchina costruita da Tinguely e da lui incendiata davanti al duomo di Milano), … gli esempi non si contano più.
Le esposizioni internazionali sono dunque diventate un medium, costretto, come gli altri media, ad una periodicità che esige il rinnovamento continuo. La cura dell’informazione, obbiettivo primo dei media, cede al bisogno di cambiare contenuto e ambiente. Per mantenere vivo l’interesse non è utile tanto l’approfondire quanto stupire e produrre l’impatto. Questo termine tratto dalla balistica esprime bene il capovolgimento di intenti. Spingendo al limite la metafora si può dire che le manifestazioni internazionali sono, come le basi di tiro, luoghi dove si esperimentano i migliori «proiettili» (artisti, premiati, performances) scelti dai mass-media per colpire il loro pubblico-bersaglio. Un esempio limitato, ma significativo: gli eroi della body art, per i quali, a loro dire, conta solo il linguaggio del corpo, e che prendono l’aereo senza sosta viaggiando da un capo all’altro del pianeta per compiere il loro cerimoniale davanti alle macchine da presa…
[12] Per semplicità di espressione uso il termine biennale per tutte le manifestazioni di questo genere, siano biennali propriamente dette, siano triennali, quadriennali, Documenta, Salons dei giovani ecc., poiché il loro carattere comune è la periodicità in un luogo stabilito.
[13] La città di Cognac, che conta circa 10.000 abitanti, ha istituito un festival dedicato ai film polizieschi, da cui spera, oltre all’interesse per la manifestazione in sé, di trarre un altro vantaggio, quello di indurre gli scrittori a modificare l’atteggiamento dei loro personaggi, almeno in un caso: studi fatti da sociologi seri hanno dimostrato che delinquenti e detectives bevono soprattutto whisky. Il festival di Cognac non potrebbe avere l’effetto di far sostituire, almeno in parte, l’onnipresente whisky con lo champagne? Scopo espresso senza ambagi da uno degli organizzatori del festival al microfono di France-Inter nel marzo 1982.
[14] Si dirà che queste manifestazioni sono quasi sempre deficitarie; e questo è il caso; ma una valutazione più fine della situazione permette di vedere che gli articoli di stampa, le trasmissioni radio-televisive apportano alla città l’equivalente e anche di più in pubblicità, che dovrebbe pagare per vendere ai turisti la sua «immagine». In proposito, è sufficiente considerare l’accanimento con cui le città si contendono, in un altro ordine di manifestazioni, il privilegio di organizzare i giochi olimpici.
[15] Fatto non meno stupefacente: per quanto ne so, mancano su di esso studi approfonditi (quando una tesi di laurea?). Da notar il fatto che i membri della giuria sono designati dalla società organizzatrice, oppure, nel caso di pubblico incarico, che dovrebbe essere approfondito, dall’autorità politica. Le persone a cui ci si rivolge appaiono in qualità di «esperti»; poiché non esiste il titolo (fatta eccezione per le dogane e i tribunali di alcuni paesi), essi sono scelti in considerazione della loro notorietà e dell’importanza delle loro funzioni. E se la giuria è un’istituzione abbastanza stabile, mutano i suoi membri; il loro potere dipende in parte dal potere che li designa; ed è vero che un giurato che esce da una giuria ne trova un’altra. Nel mondo dell’arte c’è dunque un club di supergiurati!
[16] È il caso della Biennale internazionale dell’arazzo a Losanna, che funziona secondo il principio del concorso aperto.