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Il mondo dell’arte e il mercato dell’arte (Vol. 5/5)

Chi decide il successo di un artista nel mercato internazionale? Galleristi, mostre e vernissages, collezionisti, critici, televisione,radio e giornali, musei, aste, fiere biennali, sponsors: un colossale apparato costruisce la fama di un artista.Ma attenzione: la gerarchia è rigidissima e intoccabile. René Berger* offre un’alisi che rintraccia le regole complesse di questo sistema. Da “Il Giornale dell’Arte” n°2, giugno 1983

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Joseph Ferdinand Cheval, in una rara immagine dove è impegnato alla costruzione del suo Palais Ideal, Hautirives – Drȏme (F), 1880 ca.

Joseph Ferdinand Cheval, ritratto con il suo cane davanti al suo Palais Ideal, Hautirives – Drȏme (F), 1912 ca.

Le città: «hot places» e «cool places»

Fin qui mi sono limitato a trattare, per comodità di analisi, degli agenti del mondo dell’arte separatamente, pur accennando occasionalmente ai loro rapporti, ma si dovrebbe fermare l’attenzione sulle interazioni la cui importanza è decuplicata dai mezzi moderni e di cui non posso dare che una pallida idea. Il termine «produzione artistica», che sostituisce sempre più spesso «creazione artistica», dovrebbe metterci in allarme. Non esiste produzione senza modi e strutture di produzione, quindi senza poteri: essi vi occupano un posto così grande da riuscire a dividere a nostra insaputa il pianeta in configurazioni tanto precise quanto disuguali. Se la «creazione artistica» può esistere, e senza dubbio in linea di principio esiste in tutti i paesi, senza distinzione di razza e di classe, per la «produzione artistica» la cosa non sta così, in quanto essa ha sede e funziona solo in alcuni determinati luoghi.

Io chiamo hot places le due configurazioni più potenti: New York e Parigi; le cool places (così le chiamo io) sono, senza ordine
gerarchico, Londra, Milano, Colonia, Amsterdam e qualche altra grande città. Il resto del globo, e in particolar modo il terzo mondo, non è altro che un’immensa cold area, in cui non avviene nulla [17].

Le hot places sono i luoghi dove le interazioni degli agenti del mondo dell’arte raggiungono il più alto grado di intensità e di concentrazione; la massimalizzazione e la focalizzazione sono fortissime. Tali luoghi esercitano sugli artisti un potere «centripeto»: tutti ne sono attratti, sia che vi si installino per rimanere a lungo o provvisoriamente, sia che vi facciano scalo per una visita o per un’esposizione, sia che vi si rechino in sogno. Il loro potere «centrifugo» non è meno importante; lì hanno sede i grandi media, che decidono le emissioni portatrici di grande notorietà. In confronto con queste le cool places si collocano ad un livello inferiore; non è necessario aggiungere che le cold areas sono caratterizzate da quasi inesistenza [18]. In un’epoca dominata dai media le hot places e, in certa misura, le cool places sono i centri per eccellenza di emissione e di diffusione; esse detengono, fabbricano, sfruttano la «fonte d’informazione»[19]. La voce dell’America del Nord riduce quella dell’America del Sud ad un mormorio. In Europa, anche se le voci sono molte, quella di Parigi porta in alto e lontano.

Altra conseguenza è la divisione degli artisti in classi: artisti internazionali – nazionali – regionali – locali. Ora, è chiaro che nessun artista nasce «internazionale»; è sempre e innanzi tutto necessariamente «locale». Ma se è vero che un artista internazionale non può di fatto essere altro che locale, non c’è alcun esempio d’artista locale che acceda alla qualifica internazionale senza che la sua «legittimazione» sia stata riconosciuta o a New York o a Parigi, e se si può in ambedue le città.

Si può insorgere contro questa situazione che riduce gli artisti alla condizione di giocatori di calcio. Il fatto è che il modello competitivo si è esteso ad ogni attività, arte compresa. I tentativi ricorrenti di alcuni paesi per promuovere i loro artisti non cambiano la situazione, li confermano soltanto sul piano nazionale. Le hot places sono dunque i luoghi che nel mondo della produzione artistica si rivelano adatti a produrre ciò che è internazionale.

Conclusione/i: l'arte è soltanto un «prodotto»?

Come abbiamo visto all’inizio della trattazione, l’arte è di solito giudicata, e in particolare l’arte del passato, un’attività distinta dalle altre e che, oltre al sentimento estetico che suscita sbocca in un significato sensibile, attraverso il quale noi impariamo a decifrare i connotati della civiltà. Prospettiva «idealista» confermata e dalla storia dell’arte e dalla parte che i musei rappresentano.

Alla fine del nostro percorso, scopriamo non senza sorpresa, forse mista ad amarezza, che l’attività artistica si modella ai nostri giorni in gran parte sulla produzione che pone al primo posto considerazioni economiche, politiche, tecniche, sociali. È forte la tentazione di dedurre da ciò, come fa la maggior parte dei sociologi, che l’arte è solo un affare mercantile. Anche se tutto ci induce a crederlo, non ci si può difendere, e io non mi posso difendere, da un certo turbamento. Questo turbamento voglio ancora chiarire e per cura d’esattezza e per coinvolgere me stesso nell’analisi che ho fatto.

La nostra società industriale (o post-industriale) si distingue per la sua straordinaria capacità di produrre, capacità che le imprese multinazionali hanno esteso a tutto il pianeta. Detto in breve, lo scopo di ogni impresa è fabbricare prodotti nel maggior numero possibile, al minor costo possibile, per conquistare il mercato più ampio possibile. La concorrenza è senza pietà; tutte le forme di potere vengono impegnate sotto la guida di una tecnologia sempre più potente.

È banale ripetere che il nostro ambiente è sempre più costituito da prodotti industriali, che è esso stesso un artefatto di cui la megalopoli offre le immagini affascinanti, ma anche terribili. Nulla, a Tokio, come a New York, a San Paolo come a Città del Messico, dagli alimenti ai cosmetici, dalle automobili all’arredamento, nulla che non sia risultato della produzione industriale, compresi i rifiuti. Siano prodotti di largo consumo e a buon mercato, siano prodotti rari, quindi costosi, il carattere essenziale del prodotto, bene o servizio, è duplice: da un canto risponde ad un bisogno, che si può anche creare, come dimostra lo sviluppo del mercato del magnetoscopio o quello del turismo; d’altro canto è accessibile a tutti, contro pagamento di una somma, il che riduce il «tutti» alle sole persone che la possono pagare.

L’attività artistica si presenta altrimenti. Prima di tutto non è prodotto industriale, nonostante qualche tentativo di creare un mercato di «multipli» (cui ho già alluso); essa conserva un carattere artigianale: quadri e sculture escono dalle mani e dall’atelier di un uomo o di una donna. Tuttavia, diversamente dall’oggetto artigianale che, bene o servizio, soddisfa anch’esso un bisogno e il suo prezzo è fissato, come quello dei prodotti, dalla legge di mercato, l’opera d’arte presenta la duplice singolare caratteristica di non soddisfare in origine alcun bisogno (nel senso sopra definito) e di non avere in origine un prezzo determinato dalla domanda, salvo che si trasformi in merce pura e semplice.

Nessuno ha bisogno di Rembrandt, di Leonardo da Vinci o di Picasso (l’ho constatato in gran parte del mondo dove questi nomi non suscitano nessun interesse, mentre Coca-Cola, Pepsi-Cola, Toyota, Mitsubishi, Philip Morris… Senza contare i transistor, l’automobile, il frigorifero…). Si può pensare ad un artista che rifiuti di vendere, che voglia tenere tutto per sé (congettura non gratuita, è il caso di molti sostenitori dell’art brut, le facteur Cheval per esempio), un altro che decida che le sue opere hanno lo stesso valore di quelle di Picasso e ne fissi il prezzo di conseguenza, a costo di non trovare amatori (ne conosco almeno uno).

La caratteristica dell’arte, almeno delle arti figurative, è di costituire inizialmente un valore immaginario, che non corrisponda ad alcun bisogno che non sia immaginario20, così che la questione prezzo non si pone neppure. Ma immaginario non è sinonimo di arbitrario o di irreale; esso costituisce invece una dimensione fonda mentale dell’essere umano e sociale.
Ma l’opera d’arte è anche un oggetto materiale che il mercante trasforma in prodotto negoziabile. Il suo sforzo mira a far sì che il giudizio di valore si trasformi in valutazione di pezzo.

L’immaginario di cui l’opera d’arte è portatrice non esiste se non nella misura in cui essa è riconosciuta e tenuta per opera d’arte21, senza verifiche scientifiche, utilitarie o anche soltanto sociali. Ma l’arte appartiene all’ambito in cui agisce il giudizio di valore, che è per essenza sua soggettivo e/o intersoggettivo. E siccome il giudizio di valore si sottrae sempre in qualche modo al controllo, il mercante si sforza direttamente o indirettamente di mettere in opera tutti i poteri da noi sopra considerati (dalla parola al manifesto, dal catalogo alla TV) per ottenere che i protagonisti del mercato dell’arte (collezionisti, critici, direttori di musei, organizzatori di esposizioni ecc.) si trasformino in agenti di mercato. Impresa faticosa, mai terminata come il mercante ben sa.

Il mondo dell'arte e il mercato dell'arte

Il mondo dell’arte si distingue dunque dal mercato dell’arte. Anche se il secondo guadagna sempre terreno, il primo non è stato ridotto, almeno finora. I poteri si moltiplichino pure, si accordino, si concentrino: non riescono a pianificare, sebbene la pianificazione sia la meta di ogni potere poiché permette di prevedere. La minima indeterminazione è un pericolo. E se critici, collezionisti, conservatori di musei, media uniscono la loro voce a quella del mercato, è necessario che abbiano il senso, l’impressione, talvolta l’illusione, di agire liberamente. A questo punto devo dissipare l’equivoco in cui si trovano i termini agente e partner, che ho usato indifferentemente nelle pagine precedenti. Agente è colui che, nell’ambito di un sistema, esercita funzioni i cui obbiettivi coincidono con quelli del sistema stesso.

Così si può dire di tutti gli agenti, qualunque nome portino, di tutte le imprese, quale che sia la loro produzione. Partner invece implica un rapporto di tipo associativo che, pur rimanendo nel quadro dell’impresa, è caratterizzato da una partecipazione suscettibile di essere valutata dal partner stesso. L’agente esiste nell’ambito delle sue funzioni; il partner esiste per quanto la sua qualità di soggetto è accettata. Tornando all’arte, la conclusione è questa: se il mercato tende a trasformare i partners del mondo dell’arte in agenti del sistema, gli agenti si sforzano senza posa di recuperare o conservare qualche cosa della loro origine di partners.

Per parlare concreto, non c’è alcun mercante degno di questo nome, non c’è alcun critico, alcun direttore di museo, alcun esperto, alcun perito estimatore che, quale che sia la sua posizione nel mercato dell’arte, non si entusiasmi talvolta per un artista sconosciuto o misconosciuto, e non si adoperi a difenderlo dall’indifferenza, anche a danno del suo proprio interesse. È l’onore del mondo dell’arte l’essere ambiguo, quando ambiguità significa che la parte alienabile a cui l’agente si assoggetta non riesce a dominare in modo assoluto la parte inalienabile, che gli è propria in quanto egli è persona associata ad altre persone, nel rispetto delle loro soggettività rispettive.

Nel nostro tempo i poteri scientifico, tecnico, economico ci «oggettivizzano» sempre più; oggetti o agenti, è sempre la funzione che conta. Il potere politico è forse meno costrittivo? In linea di principio esso, almeno nei paesi detti democratici, deriva dalla libera scelta dei cittadini. Di fatto, accerchiato dagli altri poteri, prende sempre più la figura dello Stato che riduce il singolo all’impotenza. Non solo nella sua esistenza materiale ma, ciò che è più grave, costringendo la sua immaginazione all’ideologia. E ogni ideologia non è altro, alla peggio, che una camicia di forza, nel caso migliore, una protesi.

Ma l’arte, a dispetto delle costrizioni e delle pressioni a cui è sottomessa, in primo luogo economiche, nei paesi dell’Ovest, politiche nei paesi dell’Est, ha la caratteristica, pur in un’epoca di massificazione come la nostra, di rivolgersi innanzi tutto all’individuo in quanto tale. La dimensione estetica, diversamente dalle altre dimensioni dominate dal potere, dove tutto si negozia in funzione dei rapporti di forza, si apre sull’immaginario che il gioco dei valori modula senza porre limiti.

La dimensione estetica è la sola (l’ultima) ad offrire questa possibilità? Al livello più elementare («mi piace, non mi piace» ne è la testimonianza nello stesso tempo derisoria e commovente) dimostra che la parte più intima di noi stessi, la sensibilità, trova una via di espressione. Il condizionamento del potere ci rende muti, nonostante il nostro urlo; l’arte non dà diritto alla parola, dà la parola.
Il valore estetico, che è nel cuore dell’attività artistica, mi appare sempre come un «valore di punta». Nel duplice significato del termine. Al modo di una tecnica di punta, cerca di vedere l’avvenire, ma diversamente dalle tecniche di punta, il cui obbiettivo è sempre legato al potere, esso spezza il potere, per farsi fonte di gioia e di senso. Esso ci assicura infine che, sotto i mascheramenti sempre più orgogliosamente demiurgici, noi siamo e restiamo (è l’umiltà, ma anche la grandezza dell’uomo) non solo agenti di produzione, ma esseri di poesia, dunque di creazione.

Note:

[17]  Si deve precisare che un «luogo dove non accade nulla» non è vuoto o inerte;
ma, non «attivato» dalle nostre condizioni occidentali, sfugge al nostro modello!
Ancora due osservazioni: 1, parlo dei paesi ad economia di mercato, non conside rando i paesi a regime socialista o comunista; 2, l’uso di termini inglesi mi pare significare chiaramente l’influenza americana; avrei potuto benissimo parlare di «luoghi caldi», di «luoghi tiepidi», di «luoghi freddi»; il lettore sceglierà la terminologia che preferisce.

[18]  La mia distinzione vuole ancora due osservazioni: 1, le cool places sono soggette a grandi mutamenti; l’elenco delle città da me indicato non è certo esaustivo; 2, la mia distinzione può essere applicata in modo elastico: in parecchi paesi, perlopiù ricchi, vi sono hot places che sono le capitali in antitesi con la «provincia» e tra loro centri attivi (coolplaces) che si identificano con alcune grandi città.

[19]  La metafora inganna: «fonte» evoca un fenomeno naturale, mentre l’informazione è un artificio, un prodotto.

[20]  Mi pare essenziale, per chiarire questo punto, illustrare brevemente la natura dell’«atto di appropriazione». Il bisogno di possedere un’automobile (prodotto industriale) o un tavolo fatto dal falegname (prodotto artigiano) viene soddisfatto con un atto di acquisto che mi rende proprietario dell’oggetto. Invece, quando contemplo la Gioconda posso anche «appropriarmi» del suo valore immaginario e farla mia, ma non c’è in questo caso trasferimento di proprietà. L’appropriazione simbolica è importante quanto quella materiale; ma nel mondo di oggi tutto è predisposto affinché la seconda prevalga, a tal punto che l’industria «simbolica» è un fatto normale: vendere una vettura è anche vendere il prestigio di un modello, di una marca. Ma non tutti i bisogni immaginari sono stati industrializzati. L’appropriazione non è stata (ancora) ridotta al puro acquisto di un prodotto. Si dovrebbe anche riflettere sul fatto che l’industria permette di appropriarsi di valori immaginari tramite la fotografia, che sostituisce l’originale con l’immagine, che, a sua volta, diventa prodotto.

[21]  Ciò esige un apprendistato praticato da tutte le società per istituire l’immaginario di cui hanno bisogno per vivere e che si chiama cultura, fondata sul valore.