Capsule Digitale

Laura Sbordoni Mora, “La donna del restauro”

In occasione dei suoi ottant’anni, racconta a Giuseppe Basile le esperienze formative nell’lCR* dei primi anni sotto la direzione di un Cesare Brandi appena quarantenne. Dal “Giornale dell’Arte” n. 219, marzo 2003

Social Share

Partecipanti e docenti del corso di pittura murale dell’ICCROM durante una visita a Paestum, Italia, 1970. Foto di Uno Kullander

Cara Laura, mi ha sempre incuriosito sapere perché si sceglie di fare il restauratore. Nel tuo caso mi incuriosisce ancora di più perché nel 1946, in pratica, restauravano soltanto gli uomini.

In effetti Brandi, pur mostrandosi piacevolmente sorpreso della mia intenzione e lodandola senza riserve, mi fece fare un anno da «uditore» come per saggiare la mia «vocazione»: e ciò sebbene dei primi 5 allievi dell’Istituto ben 2 erano donne (oltre a me Nerina Neri, accanto a Paolo Mora, Giovanni Urbani, Franco Cutillo). Quanto alle motivazioni della mia scelta, confesso che la massima attrattiva era di fare qualcosa di nuovo e di diverso rispetto alla solita pratica educativa delle signorine perbene. Io, infatti, fino ad allora (ero sui 23 anni), avevo studiato pittura all’Accademia di Belle Arti di via di Ripetta, a Roma.

Qual era il clima, l’atmosfera di quei primissimi anni di vita dell’Istituto Centrale del restauro e della scuola?

Molto stimolante e, sotto un certo punto di vista (soprattutto visto a distanza di tanti anni), anche divertente. Divertente perché si era creata tra noi allievi e il giovanissimo direttore dell’Istituto (Brandi allora aveva 40 anni) un’intesa, anzi quasi una connivenza nei confronti dei nostri insegnanti restauratori che ogni tanto le sparavano grosse…

Mi risulta che non raramente le facevano o tentavano di farle grosse…

Perché erano convinti che bisognava mostrare ad ogni costo di essere più abili degli altri e di sapere fare cose ai limiti delle possibilità umane: come quando Pelliccioli mostrò a noi allibiti allievi come si faceva ad asportare la vernice alterata da un dipinto buttandogli sopra alcool e dandogli fuoco, con l’aria di dire: se non imparate a fare questo è meglio che cambiate mestiere… Ricordo bene, perché Brandi ce lo raccontava quando, lasciata la direzione dell’Istituto, era passato all’Università di Palermo ad insegnare Storia dell’arte ma anche Estetica che era proprio questo uno dei suoi più grandi crucci. D’altra parte, non aveva alternative Bada bene che aveva coinvolto i più grandi restauratori del tempo: Arrigoni, Cecconi Principe, Pelliccioli. Ma era l’approccio alla problematica del restauro che risultava agli occhi di Brandi del tutto inadeguato, perché si trattava di un approccio ancora artigianale e non culturale al più alto livello come tutti noi eravamo convinti, alla lezione di Brandi, che invece dovesse essere, se si intende fare vero restauro. Voi avete rappresentato in realtà il punto di snodo tra vecchio e nuovo tipo di restauratore E Brandi lo sapeva benissimo, tanto che si servì di noi come insegnanti in tempi rapidissimi, estromettendo di conseguenza i «vecchi maestri».

In tempi troppo rapidi?

No, perché la dilatazione dei tempi di apprendimento in bottega spesso è causata da un’esigenza che non ha nulla a che fare con i tempi tecnici: per evitare o limitare la concorrenza si insegna all’apprendista una sola operazione per volta cosicché il malcapitato prima di essere in grado di fare un intero restauro può anche metterci decenni. Con in più l’incapacità a cogliere la complessità dei problemi che ogni opera presenta. Ma ora voglio farti una domanda cattiva.

Nell’ormai mitico sodalizio con tuo marito Paolo, ben più lungo dei 56 anni reali, una certa divisione di ruoli, mi pare di ricordare, c’è stata: lui si occupava del supporto e tu della pellicola pittorica

Più che di divisione si trattava, e tu lo sai bene, di complementarità. E poi, dovevamo pur salvaguardare il nostro matrimonio…

La scuola dell’Istituto, di cui tu e Paolo siete stati l’anima per tutta una vita, è stata la prima scuola per restauratori al mondo e, a giudicare dal successo che a tutt’oggi riscuote come modello e non solo nel nostro Paese, la migliore. Alla luce della tua esperienza anche internazionale quale pensi che ne sia il «segreto»?
E una domanda troppo complessa per rispondere con una battuta: ma non esiterei a indicare in una reale interdisciplinarità in tutto quello che l’Istituto fa, e non solo nell’insegnamento, una delle cause primarie del suo successo. E questo da sempre: non posso dimenticare che nella prima missione all’estero per conto dell’Unesco fatta da Brandi egli ci volle, me e Paolo, assieme a lui. Non capisco pertanto certe posizioni che ora pare vadano di moda. Chi è più importante nel restauro, se lo scienziato o il restauratore o lo storico: ma nessuno, direi. Ognuno è indispensabile per il proprio apporto professionale: si discute, si risolve e poi ognuno fa la sua parte.

Laura Mora tiene una lezione ai partecipanti al corso di pittura murale dell’ICCROM a Fossanova, Italia, 1968. Foto di Giorgio Torraca

Il dottor Harold Plenderleith, Giorgio Torraca, Paolo e Laura Mora a Saqqara, Egitto, 1970. Foto di Giorgio Torraca

Laura Mora restaura il dipinto “Venezia: Veduta del Molo” di Canaletto, Italia, 1966. Foto di Anon.