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Palma Bucarelli

Il racconto dei trent’anni, dal 1945 al 1975, del lavoro della Soprintendente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Dal “Giornale dell’Arte” n.48, agosto 1987

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Palma Bucarelli ritratta da Ghitta Carell a Roma circa 1935, ph. by Fototeca Gilardi/Getty Images

Signora Bucarelli*, qual era per lei il più grande problema da risolvere quando ha assunto la direzione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna?

Eravamo in tempo di guerra e il primo problema era la salvezza delle opere: le grandi sculture intrasportabili furono collocate nel piano seminterrato, coperte da sacchetti di sabbia, e tutto il resto, comprese le grandi tele, arrotolate, fu trasportato nei sotterranei del Palazzo Farnese a Caprarola, che conoscevo bene per esservi stata talvolta in villeggiatura nella mia adolescenza. Facevo il carico di giorno e viaggiavo di notte, su camion di fortuna, dai vetri rotti, nel gelo dell’inverno. Ma quando la guerra, dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia, risalì la penisola, temendo sia i soldati che i locali, riportai le opere a Roma collocandole nella rampa elicoidale di Castel Sant’Angelo, che ha mura di eccezionale spessore ed è vicino al Vaticano.

A quale delle tre funzioni istituzionali (riordino della sede e delle collezioni, acquisti, allestimenti di mostre) ha dedicato maggiore attenzione?

A tutti e tre. Lavorando tutta l’estate dopo la liberazione di Roma, in quell’autunno del 1944 riuscii ad allestire dodici sale (la Galleria Nazionale d’Arte Moderna fu la prima a riaprirsi dopo la guerra) con una scelta di opere del Novecento pubblicando un piccolo catalogo (allora non avevo soldi nemmeno per i cataloghi) con in copertina un disegno della facciata della Galleria di Orfeo Tamburi. Mi occupai anzitutto di restaurare le sale danneggiate dalle vibrazioni delle contraeree che sparavano nei dintorni, di riordinare il patrimonio e di incrementare le collezioni, pubblicando via via una guida secondo gl’incrementi, facendo oculati acquisti e sollecitando donazioni, fino all’ultimo definitivo riordinamento del 1973, rispecchiato nel volumetto pubblicato in quell’anno nella serie degl’«Itinerari dei musei e monumenti d’Italia» dal Poligrafico dello Stato. L’arricchimento delle raccolte è sempre stato il mio principale impegno.

Mi sono anche occupata subito di restaurare tutte le opere che ne avevano bisogno e specialmente l’ampia raccolta di grafica che era da molti anni nel piano seminterrato, danneggiata dall’umidità. E subito mi occupai anche del restauro di quel piano seminterrato mettendo un’intercapedine e un pavimento di mattonelle sul terriccio che vi avevo trovato, e di recuperare e restaurare le sale che quasi tutte, più della metà dell’edificio (che era stato raddoppiato nel 1933 dallo stesso architetto Bazzani che aveva costruito il palazzo nel 1911) erano state occupate dalla mostra della Rivoluzione fascista in quello stesso anno. Mi affrettai quindi a riempire tutte le sale, tirando su dai depositi anche le opere più mediocri dell’Ottocento, per impedire l’occupazione da parte di altri (specialmente insistente era l’Accademia di Belle Arti) e ideando quell’ampliamento in previsione di un momento di saturazione con gli acquisti e le donazioni (da una ventina di sale che c’erano, ero arrivata a settantacinque, coprendo tutto lo spazio del vecchio edificio): cosa che infatti è avvenuta nel 1975, anno in cui io lasciavo la Galleria per limiti di età.

Fin dal 1945, ho provveduto a fornire la Galleria di tutte le attrezzature necessarie: una biblioteca; un Archivio storico bio-iconografico degli artisti con la raccolta dei ritagli dell’Eco della stampa, di tutti gli avvenimenti artistici nazionali e internazionali; un gabinetto di restauro; un gabinetto fotografico; laboratori per gli operai, falegnami, fabbri, pittori, per gli allestimenti delle mostre; gabinetti di disegno, programmazione e scrittura dei cartelli indicativi e illustrativi; una sala di proiezione permanente con impianto audiovisivo; una sala per conferenze e proiezioni dei documentari e di film di artisti. Inoltre, fin dal 1945, avendo trovato un pubblico del tutto ignaro degli sviluppi dell’arte moderna, ho ideato e portato avanti un programma annuale di attività che chiamai didattiche (allora l’iniziativa fece scandalo), accompagnato da un foglietto che si mandava in migliaia di copie specialmente alle scuole, con mia lettera personale ai presidi raccomandando di diffonderlo, e ai musei e istituzioni culturali di tutto il mondo perché sapessero tempestivamente del calendario annuale, dal giugno all’ottobre, articolato in: conferenze con proiezioni a colori la domenica mattina, alternate con documentari d’arte e film di artisti; mostre di grandi riproduzioni a colori dei maggiori artisti e movimenti commentati da scritti biografici, storici e critici; quella che avevo chiamato l’ «Opera del giorno» un’opera importante posta in particolare evidenza nella sua sala e anch’essa corredata da scritti biografici, storici e critici; lezioni serali (l’avevo fatto come esperimento pensando che nessun romano sarebbe venuto e invece ebbi il piacere di vedere la sala sempre gremita, tanto che dovetti installare altoparlanti nelle sale adiacenti). E naturalmente mi sono dedicata a presentare grandi mostre di originali, dei più importanti artisti e movimenti, Picasso, Kandinskij, Klee, Mondrian, Schlemmer, Pollock (la prima mostra del grande artista americano scomparso), il Cubismo, Dada, De Stijl, il Bauhaus e dei maggiori artisti italiani: Scipione, Gino Rossi, Modigliani, Prampolini, Morandi, Colla, Capogrossi, Mastroianni, Piero Manzoni, Pascali, ecc.

Tutta questa attività costava pochissimo: le diapositive venivano prodotte dal gabinetto fotografico della Galleria; le grandi riproduzioni, anche le migliori, tedesche e svizzere, per le mostre didattiche costavano ben poco; gli scritti erano redatti dal personale tecnico-scientifico della Galleria; le grandi mostre di originali costavano anch’esse poco perché erano mostre già circolanti in Europa; i documentari venivano chiesti in prestito alle ambasciate e i film di artisti agli artisti stessi, gli ordinamenti delle sale e gli allestimenti delle mostre venivano fatti da me personalmente con gli operai della Galleria, senza interventi di architetti o ditte. Alle sale avevo dato anche un po’ di arredamento per suggerire un’atmosfera, un ambiente dei vari periodi: sedie ottocentesche, imbottite di raso giallo, all’inizio del percorso, sedie impero nelle sale del Neoclassicismo (mobili tutti trovati nei sotterranei della Galleria), esedre leggermente colorate a sfondo di alcune sculture; ricollocati in ciascuna sala gli antichi divani a spalliera, di velluto un po’ stinto dal tempo; divani tipicamente ottocenteschi, verde oliva con frange di passamaneria (che mi ero fatta regalare dagli eredi dello scultore Ximenes) nelle sale della raccolta Palizzi; un intreccio di bambù dietro la grande scultura di Ximenes per suggerire un ambiente floreale; uno sfondo a sfumature celesti (fatto dal pittore della Galleria) per la bella scultura tombale di Bistolfi; e naturalmente invece sedie e poltrone moderne in grigio scuro e metallo nelle sale del Novecento (nel salone della grafica avevo messo le stesse sedie ma in vivaci colori, blu e giallo per animare la severità del bianco e nero del materiale esposto).

Avevo fatto anche, in quell’ampia veranda posteriore, due gabinetti di grafica, uno per l’Ottocento l’altro per il Novecento (la Galleria possiede una cospicua raccolta, circa ottomila fogli tra disegni e stampe) e studiato e realizzato, su mio disegno, con i bravi operai della Galleria e perciò senza spesa, un sistema di presentazione delle opere, come un leggìo fissato al muro lungo tutta la parete e listelli mobili di ferro smaltato bianco per l’esposizione a rotazione della grafica (la carta non può essere esposta a lungo alla luce, anche se blanda e regolata dalle tende alla veneziana com’era). La Galleria possiede circa cinquemila opere di pittura e scultura, esclusa la grafica e perciò solo una parte scelta può essere esposta nelle sale, né d’altra parte si può confondere il pubblico con troppo materiale mediocre mescolato col buono: il museo deve anche dare al pubblico un’indicazione dei valori e della qualità.

Avevo anche arredato l’atrio d’ingresso tappezzando tutte le pareti con i manifesti delle mostre che si venivano facendo, così che il visitatore aveva, già entrando, il senso di una lunga storia della galleria, conservando il bel tourniquet del 1915, di noce massiccia, che regolava l’afflusso dei visitatori e facilitava la vendita dei biglietti: oggi c’è, nel bel mezzo dell’Atrio, un’assurda balaustrina di ferro smaltato bianco che contrasta brutalmente con la solenne architettura di pilastri e colonne e davanti ai grandi e bei portoni scolpiti del 1911 sono stati messi tre enormi cassoni di vetro con intelaiatura di ferro nero, che, anch’essi, non hanno nulla a che fare con l’architettura e ingombrano le originarie porte a vetri girevoli. Ho detto che l’ordinamento l’ho fatto io stessa con l’aiuto degli operai della Galleria, disegnando vetrine e pannelli, e così tutti gli allestimenti delle mostre, ideando semplici pannelli di legno tamburato dipinti di grigio e poggianti su piedi di cemento e di varia misura così che, articolandoli variamente, potessero servire per qualunque tipo di mostra: oggi, e da anni, si fanno allestimenti, e per mostre di nessuna importanza culturale, con rasi e velluti e moquettes, di pessimo gusto e di spesa enorme. La Soprintendenza ha anche organizzato e curato l’allestimento di una serie di mostre importanti per l’Accademia di Francia a Villa Medici: Rodin, Ingres, Courbet, Bonnard, Giacometti, ognuna corredata da un ampio catalogo illustrato, curato anch’esso dalla Soprintendenza con un mio scritto introduttivo e ampiamente illustrato come tutti quelli delle mostre presentate nella Galleria.

Com’erano i rapporti con il Ministero?

All’inizio era contrario per principio a dare fondi: la Galleria d’Arte Moderna era l’ultima ruota del carro dell’Amministrazione in confronto ai grandi musei d’arte antica e perciò l’assegnazione di fondi era irrisoria. Era contrario anche perché, abituato all’arte figurativa del periodo fascista, vedeva di malocchio l’«avanguardismo» dell’arte astratta. La lotta col ministero è sempre stata principalmente quella dei fondi e del personale. Denari ne sono stati dati pochissimi, come dicevo, durante la mia direzione, e sono arrivati finalmente, per le mie continue pressioni, quando io non ero più ormai alla Galleria e tutte le attività erano cessate. Anche il personale tecnico-scientifico da me richiesto è arrivato dopo di me; le pratiche sono andate avanti: io avevo uno o due assistenti, oggi sono quattordici o quindici ma non sono utilizzati perché il vasto programma da me progettato anche su piano nazionale con tutta la serie delle manifestazioni didattiche non è mai stato e continua a non esser attuato.

Il ministero era stato molto irritato anche dalle polemiche che la Galleria aveva suscitato dapprima con l’esposizione del «Grande sacco» di Burri, nel 1959, poi, nel 1971, con la mostra di Piero Manzoni che suscitarono fiumi di articoli nella stampa e attacchi in Parlamento da parte di tutti i partiti. Del resto quelle polemiche sono state di grande vantaggio per la Galleria perché Burri ha regalato un’intera bellissima sala, che componemmo insieme, e la madre di Manzoni un bel gruppo di opere dell’artista. E altri doni sono venuti alla Galleria, sporadici ma di grande importanza come il «Ritratto della signora Morris» di Dante Gabriele Rossetti e «La marchesa Casati con le penne di pavone» di Boldini.

Quale manifestazione ha avuto maggior successo di pubblico?

Tutte: dalle attività didattiche, ideate per un pubblico avido di conoscere gli sviluppi dell’arte moderna, che non s’insegna nelle scuole e la cui fonte è stata soltanto la Galleria, alle grandi mostre: hanno avuto successo specialmente quelle di Picasso, di Kandinskij, di Klee, di Mondrian, di Morandi, di Modigliani. Tra le manifestazioni didattiche è molto piaciuta la proiezione di tutti i primi film astratti di Richter, dei film surrealisti di Miró, la proiezione in anteprima del film di Picasso di Cluzot e di quello di Emmer. Inoltre, le audizioni musicali del gruppo di Nuova Consonanza e gli spettacoli del grande regista polacco Kantor che la Galleria ha presentato per la prima volta in Italia.

Il suo maggior rimpianto?

Molti. Naturalmente non potevo fare tutte le mostre né esaurire tutti i temi dell’arte moderna con le manifestazioni didattiche, ma mi sarebbe piaciuto fare molti più acquisti per arricchire le raccolte, sebbene, come dicevo, tra acquisti e doni da una ventina di sale si era arrivati a settantacinque. Ma il ministero ha dato sempre troppo pochi fondi, per quanto le mie proposte fossero sempre moderate avendo io prima contrattato lungamente con i proprietari delle opere, oppure il Consiglio superiore, che era l’organismo ministeriale demandato all’approvazione degli acquisti, non le ha approvate per principio, a seconda del grado di cultura e d’intelligenza dei commissari: così abbiamo perduto molte opere di primaria importanza quali, per esempio, la grande «Città che sale» di Boccioni, la «Lupa» e «La Pisana» di Arturo Martini, due bellissimi e importanti quadri metafisici di de Chirico, una «Piazza d’Italia» e «Il pomeriggio di Arianna».

Mi sarebbe piaciuto poter comprare molti più futuristi, ma nell’immediato dopoguerra gli americani si gettarono sui due movimenti più conosciuti dell’arte italiana, il Futurismo e la Metafisica, e io, che ero appena arrivata alla direzione della Galleria, non potevo certo competere col dollaro. Sono riuscita tuttavia a fare una bella sala di futuristi: quando sono entrata nella Galleria non c’era un quadro futurista, che pure avrebbe potuto essere comprato dal 1910 e con poco denaro, mentre al mio tempo già i quadri futuristi erano introvabili e costavano prezzi altissimi.

Qual è il suo giudizio sull’assetto attuale.

Del tutto negativo. Il bell’ordinamento da me compiuto nel 1973 è stato tutto scompaginato e le opere disperse nelle sale per incompetenza, per negligenza o forse per un male inteso ordine cronologico: l’ordine cronologico va bene, è necessario, anch’io l’avevo dato, ma quando s’incontra un artista così compatto e lineare come, per esempio, Arturo Martini (alla cui bella raccolta avevo aggiunto alcune opere importanti da me comprate) è necessario rappresentarlo in un’unica sala, né si deve guastare l’unità di una sala come quella che avevo fatta del Risorgimento, con la grande «Battaglia di Custoza» di Fattori, che avevo riconquistato dopo dura lotta da Firenze dove era stata mandata dal ministero nel 1906, e la grandissima «Battaglia di S. Martino» del Cammarano. Quando invece s’incontra un artista come, per esempio, Prampolini, che ha diversi periodi ben distinti (futurista, cosmico, astratto), esso può essere documentato in varie sale secondo, appunto, l’ordine cronologico.

Oltre questo, si sono commessi molti errori: è stata data a tutte le sale una tinteggiatura di un bianco offensivo che amplifica ancor più i già troppo ampi spazi e abbaglia il visitatore, che non può più vedere i dipinti, che appaiono neri; sono stati tolti i tramezzi con porte posti nel 1915 nei saloni e nelle sale più grandi e che permettevano di dividere meglio le collezioni e di dare uno spazio adeguato alle opere piccole come le tavolette dei Macchiaioli e i Palizzi, per esempio, che ora si perdono tra i grandi quadri; sono stati tolti i velari che ridimensionavano le sale e filtravano la bella luce diffusa piovente dai lucernari di giorno e di sera dall’illuminazione di tubi al neon che avevo collocato sotto i lucernari, fatta con tubi di vario colore per riprodurre la luce naturale e disposti in quadrati e rettangoli secondo la forma della sala.

Ripristinare gli spazi del 1911, ha detto uno dei miei successori. Ma, a parte il fatto che poi ha messo il moderno linoleum sopra il pavimento a mattonelle che io avevo fatto fare avendo trovato il pavimento sterrato, come ho detto, dalla costruzione del 1911, bisogna considerare che l’edificio non è nato come museo ma in occasione dell’Esposizione Universale per celebrare il Cinquantennio dell’unità d’Italia, nel 1911 appunto, per contenere cioè grattacieli, piroscafi, macchinari ad illustrare gli sviluppi della civiltà industriale che allora cominciava. Solo nel 1915 l’edificio fu adattato a museo per raccogliere le opere che lo Stato era venuto raccogliendo dal 1881, data di istituzione della Galleria, e che teneva negli scantinati del ministero o dava in prestito temporaneo a Comuni e Prefetture d’Italia (e mi costò poi tanta fatica recuperarle). La Galleria infatti era stata fondata, con decreto dell’allora ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli (il cui busto ho posto all’inizio della visita della Galleria), sotto la spinta dell’opinione pubblica e della stampa, per «raccogliere le opere eccellenti di pittura, scultura e grafica» come dice testualmente il decreto di fondazione.

Se tornasse a dirigere la Galleria, che cosa farebbe?

Anzitutto rimetterei i tramezzi per recuperare l’antico spazio alle opere (oggi, per mancanza dei tramezzi circa un centinaio di opere importanti non possono essere esposte); rimetterei i velari e l’illuminazione che c’era; ritinteggerei le sale con l’antico bel grigio chiaro che stava bene con tutte le opere, dell’Ottocento e del Novecento; rifarei l’ordinamento come era poiché era ottimo e conduceva il visitatore per le settantacinque sale in modo chiaro e persuasivo; rimetterei l’ingresso come era, con i manifesti che tappezzavano le pareti, le bacheche con i libri scelti, i tavoli per la vendita dei cataloghi, manifesti, diapositive, cartoline; ricollocherei il tourniquet togliendo la ridicola balaustrina di ferro in mezzo all’atrio; ripristinerei l’arredamento delle sale, la sala del Risorgimento e la veranda della grafica; rimetterei in ordine i giardini interni, il giardino laterale su via Aldrovandi e soprattutto i grandi giardini antistanti la facciata della Galleria, le aiuole con i fiori, i rampicanti sul muro di fondo, gli alberi, la siepe di mortella, i boschetti di alloro che erano composti geometricamente secondo lo stile del giardino all’italiana e che, essendosi ammalati per l’incuria di tanti anni, hanno dovuto essere tagliati bassi; rimetterei l’orlo di grosse pietre dei marciapiedi e restaurerei i bei portoni intagliati del 1911 che ora sono insudiciati e alterati dalle intemperie quando sarebbe bastata quella mano di olio trasparente (come sempre fatto al mio tempo annualmente) per mantenerli elastici e nello stato originario; restaurerei le sculture all’aperto che si sono tutte arrugginite e da cui è scomparso il cartello di cemento con i titoli, i nomi e le date che vi erano stati messi accanto; pulirei, se ancora possibile, la scalinata macchiata della ruggine colata dalle impalcature di ferro che hanno ingabbiato per più di dieci anni (per un lavoro che non richiedeva più di qualche giorno) i gruppi scultorei della Fama sul fastigio dell’edificio e che hanno imbevuto il travertino poroso.

Nel settore didattico, oltre a riprendere tutte le manifestazioni di cui ho parlato, riallestirei la bella grande mostra didattica con la storia dell’architettura moderna fatta di grandi fotografie e di scritti illustrativi oltre che di plastici degli edifici più famosi e di esempi di disegno industriale come i tavoli e le sedie di Le Corbusier, di Mies van der Rohe, di Alvar Aalto; riprenderei ad arricchire il patrimonio, che è sempre stato il mio principale compito e che dal 1975 non è stato più incrementato, almeno con opere di qualche importanza (io avevo un incremento di dieci, quindici o anche venti opere l’anno tra dipinti, sculture e grafica, a seconda dei fondi disponibili); riprenderei ad arricchire la biblioteca che avevo fondata fin dagli inizi e che era arrivata, quando lasciai la Galleria, a 55.000 voci e l’archivio storico bio iconografico che era arrivato a cinque milioni di voci tra fotografie, ritagli di stampa e opuscoli, e l’archivio del Gabinetto fotografico che era arrivato a 45.000 pezzi tra diapositive e fotocolor.

Inoltre, cercherei di mandare avanti più rapidamente l’ampliamento dell’edificio, da me ideato molti anni fa e progettato da Luigi Cosenza, il geniale architetto razionalista. Il progetto prevede due lunghe gallerie sovrapposte, correnti lungo la facciata posteriore della Galleria e destinate a contenere l’incremento delle collezioni e mostre temporanee, un’altra galleria al di là dei giardini per collocarvi un ristorante, un bar, sale di lettura e di riposo e un corpo quadrato contenente un vasto auditorium con cabine per la traduzione simultanea pensato, al di là delle necessità di un museo, per congressi e convegni nazionali e internazionali. E cercherei di mandare avanti il Catalogo completo di tutto il patrimonio che avevo progettato, già molti anni fa, in otto volumi, quattro per l’Ottocento e quattro per il Novecento, con la riproduzione di tutte le opere, anche quelle di deposito, e che si è fermato al momento in cui ho lasciato la Galleria. Avevo progettato anche il Catalogo della grafica, in più volumi poiché la grafica consta di circa ottomila fogli. In questi ultimi 12 anni, per le ragioni che dicevo, il personale scientifico è di molto aumentato e non dovrebbe essere difficile completare una pubblicazione così essenziale per ogni museo.

intervista di Daniela Fonti.

Palma Bucarelli nel 1949 Con Carlo Fontana, davanti alla scultura Farinata degli Uberti, ph. A3/Contrasto

Palma Bucarelli sullo scalone della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ph.Istituto Luce/Contrasto