Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
La galleria d’arte contemporanea più famosa d’America compie 30 anni. Sulle pagine di un numero monografico di «Vernissage» Calvin Tomkins racconta le storie dell’italiano che l’ha fondata. dal “Giornale dell’Arte” n° 41, gennaio 1987
Ci si domanda talvolta come abbiano fatto i Castelli e Karp a lavorare assieme per dieci anni, considerando che la loro personalità e la loro origine erano diametralmente opposte. Karp, nato nel Bronx e allevato a Brooklyn, era un estroverso esuberante che parlava in fretta, era stato il primo critico d’arte di Village Voice e nella metà degli anni Cinquanta aveva gestito con Richard Bellamy la Galleria Hansa, una cooperativa d’artisti sul lato sud di Central Park. «Leo fu uno dei pochi mercanti importanti che vennero all’Hansa», ricorda Karp. «Dick e io avevamo un nome in codice per ogni personaggio del mondo artistico, e chiamavano Leo “il conte”; era sempre ben vestito, aveva sempre le unghie pulite, cosa che allora si vedeva raramente nel mondo dell’arte».
Karp lasciò l’Hansa nel 1958 e lavorava per la galleria Martha Jackson quando Castelli gli offrì un impiego a cento dollari la settimana. Non era molto di più di quanto guadagnasse da Martha Jackson, ma egli decise che la galleria che aveva Johns e Rauschenberg era un posto dove valeva la pena andare. «Leo e io siamo sempre andati avanti assieme benissimo», diceva non molto tempo fa, «uno dei legami esistenti fra di noi era che a tutti e due le donne piacevano. Leo aveva molto il senso dello stile in amore. Non è affatto maschilista; egli tratta le donne con grande rispetto, le ammira davvero». Lo stile amoroso di Castelli lo aveva portato, in questo periodo, a un certo grado di estraniamento nei confronti di Ileana; tuttavia, essi continuavano a lavorare assieme nella galleria.
Nell’autunno 1959 la galleria al secondo piano venne inaugurata con una mostra collettiva. C’erano molti nomi nuovi, uno dei quali era Frank Stella. Stella, che allora aveva soltanto ventitré anni, aveva incominciato a dipingere, quand’era studente a Princeton, in uno stile rigorosamente astratto privo di ogni legame con l’espressionismo astratto. Nella mostra egli era rappresentato da una grande tela rettangolare nella quale delle strisce nere tracciate con precisione e separate da sottili strisce di tela non dipinta formavano una serie concentrica di rettangoli. In un’intervista Stella spiegò: «La mia pittura si basa sul fatto che nel dipinto c’è soltanto ciò che si può vedere»; in altre parole, nessun illusionismo, nessuna emozione, mancanza di qualità pittoriche che tenderebbero a far sembrare il dipinto qualcosa che esso non è.
Questo modo di affrontare il problema indignò quei critici facili all’indignazione, come Emily Genauer (che riferendosi a Stella lo definì «il ragazzo a righine») ma colpì Castelli come una nuova Epifania, e trovò favore anche presso Alfred Barr. Dorothy Miller incluse Stella nella sua rassegna «Sedici americani» di quell’anno e Barr acquistò per il museo uno Stella nero intitolato «Matrimonio di Ragione e Squallore» (Castelli ne ridusse il prezzo da milleduecento a settecento dollari in modo che Barr potesse acquistarlo con un fondo speciale senza dover passare attraverso l’approvazione del consiglio d’amministrazione). Era il varo di un’altra fulgente carriera.
Non appena Castelli acquistò maggior fiducia nelle proprie capacità di scelta la galleria diventò di avanguardia senza mezzi termini. Quasi ogni mostra presentava delle opere alle quali era difficile adattarsi dopo la prima occhiata, e qualche volta anche dopo la diciassettesima: le sculture di John Chamberlain fatte di pezzi di automobile ammaccati saldati assieme, i dipinti di Cy Twombly che sembravano scarabocchi di un bambino a matita o gesso su un muro, reti sovrapposte di strisce di tela (trattate con materiali epossidici) di Scarpitta, le strane costruzioni di fil di ferro piegato e di tela tesa con i loro oscuri visceri minacciosi di Lee Bontecou. Marisol, la scultrice venezuelana che Castelli aveva esposto nel 1957, tornata dopo due anni dall’Europa, decise che l’atmosfera della galleria non era più adatte per lei, prese le sue sculture satiriche di legno e le trasferì alla Janis, dove l’atmosfera sembrava meno rovente. Rauschenberg e Johns erano più che mai le star di Castelli.
«Monogramma», un combinato di Rauschenberg che comprendeva una capra angora impagliata con uno pneumatico d’auto attorno alla pancia, fu mandato in tour in varie mostre europee e ritornò a pezzi poiché un direttore di museo svizzero si era seduto sulla capra per farsi fotografare. Molte pitture-collage di Rauschenberg vennero sfigurate da spettatori indignati che vi scarabocchiarono sopra delle oscenità con la penna a sfera. L’artista ne fu sconvolto. Nel frattempo, lavorava a una serie di trentaquattro disegni sull’Inferno di Dante. Vi lavorò per due anni e mezzo, e fu questa la sua prima opera importante acquistata dal Museum of Modern Art (il museo aveva acquistato due fotografie di Rauschenberg nel 1952 e da allora null’altro).
La vendita dei disegni avvenne in maniera bizzarra. Un giorno, nel 1963, Karp venne avvicinato in galleria da un tale, che egli descrive come «un gentiluomo orientale», che disse di essere interessato all’acquisto dei disegni di Dante per regalarli al museo. Karp era scettico, non avendo mai visto prima quel signore né mai udito il suo nome, ma nel tardo pomeriggio Castelli telefonò ad Alfred Barr e seppe che il cliente era un architetto cinese che l’aveva effettivamente contattato asserendo di voler fare una donazione al museo e che Barr stesso, che era piuttosto imbarazzato non essendo capace di apprezzare i dipinti e i combinati di Rauschenberg e che trovava invece belli i disegni di Dante, aveva suggerito che donasse questi ultimi al museo. L’architetto cinese ritornò dopo pochi giorni e fece una bella chiacchierata con Castelli. A intervalli regolari tirava fuori una fiaschetta tascabile e offriva a Castelli un goccio di Jack Daniel’s. Alla fine della chiacchierata egli acconsentì a dare al museo un assegno di trentamila dollari, il prezzo della serie di Dante, spiegando che, essendo il momento della denuncia dei redditi, egli preferiva dare del denaro al museo piuttosto che al fisco. Successivamente Castelli venne a sapere che l’architetto era stato sul punto di divorziare dalla ricca moglie americana, e che la donazione avrebbe dovuto essere una specie di ultimo scherzetto nei suoi confronti; egli sapeva che essa non avrebbe annullato la donazione una volta che questa fosse stata annunciata. In ogni caso il museo possiede ancor oggi quei disegni.
Molti importanti collezionisti erano diventati clienti abituali di Castelli. Emily Tremaine che, con il marito, aveva costruito una superba collezione di maestri del ventesimo secolo e di espressionisti astratti americani, acquistati per la maggior parte da Janis, acquistò «Tango» e un dipinto di bandiera bianca di Jasper Johns che risaliva al periodo della sua prima mostra, e continuò ad acquistare opere di Johns e di altri artisti di Castelli. Philip Johnson, i Tremaine e Robert Scull andavano a tutte le mostre della galleria e comperavano sempre qualche cosa. La passione di Scull per le ultimissime avanguardie sembrava insaziabile. Era venuto dal nulla e ora possedeva una vera flottiglia di taxi; aveva acquistato un dipinto di Johns, «White numbers» alla Galerie Rive Droite di Parigi nel 1958 (la fama di Johns si era diffusa all’estero fin dagli inizi) e, appena ritornato a New York, era andato da Castelli e aveva acquistato un combinato di Rauschenberg intitolato «Disgelo».
Fu l’inizio di un rapporto che Karp ha descritto «pieno di ansie, di calore, di spirito e di sofferenza». Una volta Karp raccontò: «Leo era sempre affabile con Scull, ma non credo che con lui si sentisse mai completamente a suo agio. Il coinvolgimento di Scull a livello visivo era palese, non glielo si può negare; tuttavia, egli si comportava nei confronti dell’arte nello stesso modo in cui si comportava con la sua impresa di taxi. C’erano sempre delle discussioni sui prezzi, e ci metteva moltissimo tempo a pagare. Sorgevano sempre degli equivoci, c’era agitazione e ansia, ma Leo era tollerante poiché, diceva, «gli piacciono i nostri artisti». Scull voleva acquistare «Monogramma» per donarlo al Museum of Modern Art poiché, diceva, non poteva tenerlo in casa poiché i suoi due figli si sarebbero arrampicati sulla capra. Castelli telefonò a Barr, ma questi fece un sacco di domande di non facile risposta: non c’era pericolo che il pezzo andasse ben presto a pezzi? E se c’erano dei parassiti? Alla fine, rifiutò il dono. «Monogramma» venne acquistato nel 1965 dal Moderna Museet di Stoccolma.
Scull voleva conoscere personalmente gli artisti. Con sua moglie, Ethel, li avrebbero invitati a grandi ricevimenti in casa sua a Great Neck assieme a gente del museo e a mercanti loro amici come Castelli. Una volta Castelli portò a colazione dagli Scull il collezionista italiano Giuseppe Panza, conte di Biumo, ma fu uno sbaglio. Panza collezionava arte contemporanea su scala molto più grande che gli Scull. Aveva acquistato molti Rauschenberg e stava trasformando il suo palazzo del Settecento a Varese in un museo dell’arte più avanzata. Scull e Panza non si trovarono d’accordo su nulla.
Neppure con i Tremarne gli Scull si comportarono cordialmente. Emily e Burton Tremaine andarono nello studio di Johns prima della sua seconda personale da Castelli, nel 1959, e scelsero un dipinto intitolato «Device Circle». Anche Scull andò nel suo studio e scelse due dipinti, «False Start» e «Out of the Window». Ma il giorno dopo Scull si pentì della scelta e decise che il dipinto che in realtà voleva era «Device Circle». Fu terribilmente seccato quando seppe che il dipinto in questione era stato prenotato dai Tremarne. La rivalità così iniziata esplose qualche anno dopo a proposito delle «Map» di Johns. Johns eseguì un grande dipinto che era una carta geografica degli Stati Uniti (non si dovrebbe chiamarla il dipinto di una carta geografica poiché era una carta geografica, con tutti gli stati al loro posto, ma dipinta con bravura tale che il soggetto non importava; molte delle sue prime opere, le bandiere e i bersagli, ponevano problemi del genere) e, naturalmente, sia i Tremarne sia gli Scull la volevano. Johns insisteva affinché il dipinto andasse a un museo. Scull disse che voleva acquistarlo per farne successivamente dono al Museum of Modern Art, ma Johns disse che così non ci stava, e Scull acconsentì a donare il dipinto subito, riservandosi il diritto di tenerlo part-time a casa sua, se Johns lo permetteva. Avendo donato la sua prima «Map« di Johns al Moma, Scull ne voleva un’altra. Alcuni mesi dopo Scull sentì dire che un collezionista di Los Angeles, Frederick Weisman, avendo saputo che Johns stava per incominciare a dipingere un’altra carta geografica, l’aveva acquistata prima che l’artista incominciasse il lavoro; Johns aveva bisogno del denaro per darlo alla compagnia di danza di Merce Cunningham per la quale stava raccogliendo dei fondi. Quando l’estate successiva Scull seppe che Ben Heller aveva acquistato una terza «Map» di Johns, esplose. I rapporti fra Johns e gli Scull (che si erano venuti comunque deteriorando) si ruppero e Castelli dovette far uso di tutta la sua diplomazia per appianare le cose in tempo per la grande retrospettiva di Johns del 1964 al Jewish Museum; fino all’ultimo momento gli Scull si rifiutarono di imprestare qualsiasi pezzo della loro collezione, ma poi cambiarono idea dopo una visita di Johns alla signora Scull. Johns aveva eseguito un nuovo dipinto (che fu incluso nella mostra), intitolato «Arrive/ Depart», nel quale compariva l’immagine abbastanza sinistra di un teschio. Se la rottura era stata sanata, i loro rapporti non furono più quelli di prima.
Fin dall’inizio all’interno della galleria le responsabilità erano state naturalmente divise. Castelli trattava con Rauschenberg, Johns, Stella e gli altri artisti della cerchia più intima della galleria, con la maggior parte dei ricchi collezionisti e con i galleristi europei e i funzionari di museo che invariabilmente facevano visita ogni volta che si trovavano a New York. Ivan Karp teneva i rapporti con gli artisti più rozzi e capelluti, John Chamberlain per esempio, e con l’infinita serie di sconosciuti che entravano a far vedere diapositive delle loro opere. Nei primi anni in cui lavorarono assieme, circa una volta la settimana Karp e Castelli andavano negli studi degli artisti le cui opere a Karp sembravano interessanti.
A New York la maggior parte degli artisti contemporanei più interessanti volevano essere con Castelli. Verso la metà degli anni Sessanta la galleria dava uno stipendio mensile alla maggior parte dei suoi artisti, una pratica comune in Europa ma non negli Stati Uniti, dove il sistema abituale, allora (e anche ora) era che la galleria prendesse in deposito l’opera e pagasse all’artista la sua percentuale (generalmente il sessanta per cento) dopo la vendita. Johns e Rauschenberg erano stati fra i primi a godere di uno stipendio regolare (all’inizio erano cinquecento dollari al mese), trattenuti sulle vendite; a metà degli anni Sessanta la maggior parte degli artisti erano stipendiati, e molti accumulavano ingenti debiti con la galleria. Ciò non sembrò mai preoccupare Castelli, ma era un cruccio per Nancy Friedberg, che dal 1964 teneva la contabilità. Castelli insistette sempre perché per prima cosa fossero pagati gli artisti. Se non fosse restato abbastanza denaro per pagare gli altri conti, probabilmente sarebbe saltato fuori. Saltò sempre fuori, qualche volta come un dono dal cielo: un cliente pagava un conto da tempo in sospeso, e si evitava così la bancarotta, anche se ogni estate Castelli doveva chiedere un prestito in banca per mandare avanti la galleria nella stagione morta.
Una volta, in un periodo in cui Chamberlain non riusciva a lavorare e il suo debito con la galleria era salito a più di quarantamila dollari, Karp suggerì di dimezzargli lo stipendio. «Come potrei», rispose Castelli scandalizzato. «Non potrebbe tirare avanti». Lo stipendio continuò a venirgli regolarmente pagato. Il ruolo di Karp nella galleria è stato molto discusso. Egli portò via Chamberlain a Martha Jackson, e il suo entusiasmo per altri artisti, come Andy Warhol e Roy Lichtenstein, influì indubbiamente moltissimo sulle opinioni di Castelli. Nei primi anni Castelli si era basato molto sui responsi di Ileana. «Ileana era più sensuale e aveva più immaginazione, mentre Leo era più analitico e storicamente più preparato, e la galleria si fondava proprio sulla tensione che si creava fra i loro due diversi modi di affrontare i problemi», disse una volta Rauschenberg. I Castelli divorziarono nel 1960.
Tre anni dopo Castelli sposò un’affascinante parigina, Antoinette Fraisseix du Bost. Nel frattempo, Ileana aveva sposato Michael Sonnabend e si era trasferita in Europa, aprendo una galleria a Parigi. Dopo il divorzio ogni volta che Karp e Castelli decidevano di assumere un nuovo artista lo facevano di comune accordo. Ciò si verificò indubbiamente nel caso di Roy Lichtenstein, il primo artista pop della galleria. Nel 1961 Lichtenstein insegnava arte al Douglass College, la sezione femminile del Rutgers. Allan Kaprow, che insegnava storia dell’arte a Rutgers e che era uno scopritore di talenti artistici, disse a Karp che avrebbe dovuto vedere i lavori di Lichtenstein; un giorno, mentre Karp faceva vedere a un gruppo di studenti d’arte una mostra della galleria, arrivò Lichtenstein con numerosi dipinti. Si trattava di opere basate su immagini di fumetti. Gli studenti d’arte incominciarono a ridacchiare. Karp li spedì avanti nella sala successiva e guardò attentamente i dipinti. «Erano veramente strani, assurdi, immorali», egli rammenta. «Mi davano i brividi. Decisi che bisognava farli vedere a Leo, ma in maniera tale che non li rifiutasse al primo sguardo, così dissi a Roy di lasciarceli e li nascosi nella sala sul retro. Quando Leo tornò da colazione gli dissi: “Leo, ho dei dipinti veramente strani” ed egli rispose “Sì? Dove?”. Cercai di prepararlo, ma era molto impaziente e così gliene portai uno. Leo non si angosciò. Non conosceva neppure i fumetti dai quali erano ricavati, gli mancava addirittura il retroterra, eppure sembrava affascinato. Per me quello fu uno dei momenti eroici. Leo non aveva mai reazioni automatiche. Ha sempre avuto occhi buoni, e si fida dei suoi occhi.»
La pop art stava per esplodere sulle scene ma nessuno sapeva che esistesse, neppure gli artisti che la stavano facendo. Lichtenstein aveva dipinto opere di derivazione cubista ed espressionista astratte fino a più o meno un anno prima. Ne aveva mostrate alcune a Castelli, ma questi non ne era rimasto impressionato. Aveva utilizzato personaggi di fumetti, Bugs Bunny, Topolino, Paperino mascherandoli in stile espressionista astratto. Nel 1961 egli decise di eseguire un dipinto di Topolino e Paperino alla maniera dell’originale ma molto ingranditi e liberi dell’influsso espressionista astratto. Lichtenstein dipinse Paperino e Topolino interi, con macchioline ingrandite, quelle che allora servivano come sfondo alle riproduzioni sui giornali, poi provò a lavorare su immagini ingrandite di fumetti erotici e di guerra e di pubblicità commerciali. Dipinse anche oggetti quotidiani, un gomitolo di spago, un pneumatico d’automobile, un piede che preme il pedale di una pattumiera, tutti nello stile piatto, meccanico, senza prospettiva, con colori semplificati, assolutamente banale, eppure molto più memorabili che nell’originale.
Nel frattempo in uno studio di Coenties Slip, vicino al Battery, James Rosenquist, che si guadagnava da vivere dipingendo tabelloni pubblicitari in Times Square, utilizzava particolari fortemente ingranditi derivati dall’arte pubblicitaria, spaghetti al pomodoro, sorrisi da dentifricio, parafanghi d’automobile, come elementi delle sue pitture; in un studio di Lexington Avenue, nei quartieri eleganti, un illustratore commerciale che si chiamava Andy Warhol, eseguiva una serie di dipinti basati su Dick Tracy e un’altra serie basata sulle lattine di minestra Campbell’s. E nessuno di essi sapeva che cosa facessero gli altri. Nell’estate del 1961 Ileana Sonnabend sentì parlare del lavoro di Rosenquist e andò nel suo studio. Ne parlò con Bellamy e con Karp, che a sua volta fece il pellegrinaggio a Coenties Slip. Poi Karp vi portò Castelli. Non molto tempo dopo che Castelli aveva preso Lichtenstein, Warhol venne in galleria a comperare un disegno di Jasper Johns e vide nella stanza del retro alcuni dipinti di fumetti di Lichtenstein. «Io faccio dipinti del genere», disse a mezza voce con tono offeso. Castelli e Karp presero in considerazione l’opportunità di prendere sia Rosenquist sia Warhol, ma a Castelli pareva che Rosenquist fosse un po’ troppo surrealista e a entrambi pareva che Warhol fosse un po’ troppo simile a Lichtenstein e non altrettanto efficace. Warhol alla fine andò alla Stable Gallery e Rosenquist entrò alla Green Gallery di Richard Bellamy, che era finanziata da Robert Scull. Vi tenne la sua prima mostra un mese dopo la prima di Lichtenstein da Castelli, nella primavera 1962. Due mesi prima Claes Oldenburg aveva aperto il suo famoso Store, una vetrina sulla Seconda strada est che aveva riempito di repliche di gesso e di cartapesta delle merci che si trovavano nei negozi del Lower East Side. Per i critici tradizionali era chiaro che stava accadendo qualcosa di terribile, che non si trattava del ritorno alla figura che essi avevano continuato a chiedere come antidoto all’espressionismo astratto, e per di più per un certo periodo la nuova cosa non ebbe neppure un nome. Karp lo chiamò per un po’ Commonism, ma il nome non attecchì. Alla fine, fu adottato un termine coniato a metà degli anni Cinquanta dal critico inglese Lawrence Alloway, Pop Art. Ormai Warhol aveva esposto i suoi dipinti di lattine di minestra alla Ferus Gallery di Los Angeles, e immagini commerciali saltavano fuori nei dipinti di Jim Dine, di Tom Wesselman, di Robert Indiana e di una schiera di altri pittori. Sidney Janis diede l’imprimatur al movimento nella primavera 1962 con una mostra di quelli che egli definì i nuovi realisti; fra di essi vi erano artisti europei e americani. Subito dopo gli artisti espressionisti astratti di Janis se ne andarono dalla galleria, tutti tranne de Kooning che se ne andrà dieci anni dopo.
Essi si sentirono traditi da Janis, che successivamente prese Oldenburg, Dine, Wesselman e altri artisti pop, ma si sentirono ancor maggiormente traditi dal vecchio amico Castelli. «Date a Leo Castellio due lattine di birra, e lui ve le venderà», disse una sera de Kooning nella Cedar Tavern. Jasper Johns, quando glielo raccontarono, eseguì una scultura realistica in bronzo rappresentante due lattine di birra Ballantine, e Castelli la vendette per novecentosessanta dollari a Robert Scull (che nel 1973 la rivendette all’asta per novantamila dollari). Johns afferma di non aver voluto dimostrare nulla. Stava facendo delle piccole sculture di lampadine e di pile tascabili e di altri oggetti d’uso comune, e la battuta di de Kooning gli suggerì null’altro che «un soggetto in linea con quello che stavo cercando di fare».
Per un certo periodo parve che Lichtenstein fosse il più irritante artista pop. Oldenburg, Rosenquist e persino Warhol rivelavano qua e là tracce di qualità pittoriche, ma i dipinti di Lichtenstein sembravano, a un primo sguardo, praticamente indistinguibili dai loro modelli commerciali. Johns e Rauschenberg, secondo Castelli, inizialmente non vi vedevano nulla; a Rauschenberg occorse una settimana per cambiare idea, a Johns un po’ di più. I critici Sputavano veleno. Brian O’Doherty, scrivendo sul New York Times, descriveva Lichtenstein come «uno dei peggiori artisti d’America» e la sua opera come «un innesto indegno nel corpo dell’arte». Max Kozloff affermava su The Nation: «Un dipinto di Lichtenstein è nello stesso tempo ingenuo e smaliziato, repellente e alla moda: l’ultimo fatto sensazionale». I settimanali e le riviste di moda, sempre attenti a ciò che fa sensazione, fecero allegramente pubblicità al nuovo movimento, che si prestava facilmente a un trattamento di quel genere; la pittura astratta era sempre stata un argomento difficile, ma l’arte pop era pane per i denti dei giornalisti.
Era subito apparso evidente, naturalmente, che ciò che i critici newyorchesi dicevano della nuova forma d’arte non importava a nessuno. Molti collezionisti, i Tremaine, Richard Brown Baker e Giuseppe Panza acquistarono subito delle opere di Lichtenstein. Anche Leon Kraushar, un loquace agente di assicurazione che andava tutti i sabati in galleria con le tasche piene di soldi e pagava a pronta cassa! Kraushar comperò più di sessanta dipinti da Castelli, raramente spendendo più di mille dollari per ciascuno. Morì di attacco cardiaco nel 1967, e sei mesi dopo la vedova vendette la sua collezione per seicentomila dollari a un collezionista tedesco, Karl Stròher. La collezione si trova ora al museo di Darmstadt.