Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
La gallerìa d’arte contemporanea più famosa d’America compie 30 anni. Sulle pagine di un numero monografico di «Vernissage» Calvin Tokins racconta le storie dell’italiano che l’ha fondata. dal “Giornale dell’Arte” n° 41, gennaio 1987
All’inizio della sua carriera il pittore Robert Rauschenberg disse una frase che diventò famosa: «La pittura è collegata sia con l’arte che con la vita. Né l’una né l’altra si possono fare. (Io cerco di operare nella frattura che esiste fra le due)». Come molte altre frasi che vengono spesso citate, anche questa ha quel tanto di oracolare da suggerire interpretazioni diverse: molti seminari sull’arte contemporanea si sono impantanati nella frattura di Rauschenberg. Si potrebbe tuttavia obiettare che la zona intermedia fra l’arte e la vita non è tanto terreno dell’artista quanto dei mercanti d’arte, e che ciò può servire a spiegare la bassa considerazione nella quale essi sono sempre stati tenuti. Marcel Duchamp una volta definì i mercanti «dei pidocchi attaccati all’artista» – pidocchi utili e necessari, aggiungeva, ma pur sempre pidocchi.
Gli artisti contemporanei esprimono sovente dei sentimenti analoghi, sebbene la maggior parte di essi ammetta che essi non potrebbero sopravvivere senza i servizi di un venditore, poiché quel processo mediante il quale le loro eroiche fatiche in studio vengono trasformate, almeno temporaneamente, in oggetti commerciabili, non è qualcosa con cui piaccia loro avere a che fare, soprattutto se questi oggetti non si vendono, o non si vendono a dei prezzi proporzionati alle loro aspettative. Negli ultimi anni gli oggetti d’arte hanno raggiunto (dopo aver attraversato un periodo incerto a metà degli anni Settanta) dei prezzi stratosferici, e i mercanti d’arte vengono regolarmente accusati di aver incoraggiato questa tendenza, corrompendo in tal modo il tessuto culturale della nostra società. Stranamente uno dei pochi mercanti ai quali simili colpe vengano raramente attribuite è Leo Castelli, che guarda caso è il più prestigioso fornitore mondiale odierno di arte contemporanea.
La galleria Castelli, che ha ora alle spalle trent’anni di attività, rappresenta una lista di astri nell’arte di livello internazionale che comprende Rauschenberg, Jasper Johns, Frank Stella, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, James Rosenquist, Robert Morris, Ellsworth Kelly, Kenneth Noland, Cy Twombly, Donald Judd, Dan Flavin, Richard Serra e Andy Warhol, artisti che dominano non solo sul mercato dell’arte contemporanea, ma che esercitano anche un forte influsso sull’arte prodotta in molti paesi. Il successo commerciale, tuttavia, non sembra mai esser stato la principale preoccupazione di Leo Castelli. «Essenzialmente Leo ha sempre pensato che un oggetto d’arte sia un oggetto di affezione, legato a chi l’ha creato e a chi lo possiede», mi ha detto una volta un direttore di museo. «L’artista viene sempre prima del denaro».
La fama di Grand Seigneur di cui gode Castelli, in una professione spesso considerata con diffidenza, è di origine abbastanza recente. In passato egli era talvolta descritto come uno scaltro manipolatore di prezzi e di reputazioni, un garbato supervenditore che poteva vendere qualsiasi cosa e che, in effetti, mediante una combinazione di discutibili strategie commerciali e di abili relazioni pubbliche, era riuscito a far fuori l’espressionismo astratto e ad assicurare il successo prima a Rauschenberg, Johns e Stella e quindi all’arte pop, minimale, concettuale e visuale, in questo obbrobrioso ordine. Castelli si è sempre sentito ferito da un simile ritratto, anche se fu egli stesso in parte responsabile dell’equivoco. Gli piace parlare, in una qualunque delle cinque lingue che padroneggia e, se un giornalista gli chiedesse, per esempio, delle spiegazioni sull’accusa di aver fatto fuori la seconda generazione di espressionisti astratti, potrebbe rispondere (come fece alcuni anni fa a un collaboratore del «Times», «Ma erano già morti. Io ho soltanto dato una ma-no a portar via i cadaveri!»).
Piccolo di statura, vestito in maniera impeccabile, una fusione di raffinatezza veneziana con quel genere di entusiasmo che tende all’eccesso verbale, Castelli riuscì spesso ad apparire come una rara avis, in maniera forse eccessiva per il suo stesso bene. «Leo è un uomo di successo, è elegante, è europeo», osservò una volta Rauschenberg, «e ciò fa storcere la bocca a qualcuno. Negli Stati Uniti chiunque possieda contemporaneamente tutte queste qualità dev’essere per forza un imbroglione». Ivan Karp, direttore della galleria dal 1959 al 1969, ha sempre riso con disprezzo dell’idea di Castelli supervenditore. «Chi conosce Leo sa benissimo quanto si stia bene con lui, con quella sua combinazione di fascino europeo e naturalezza tutta americana; tuttavia, egli non possiede alcuna tecnica di vendita, non usa trucchi ed è privo di acume commerciale. Fra lui e me non riusciamo neanche a mettere in colonna una serie di numeri per fare un’addizione. Una volta fummo costretti a farlo per un cliente che voleva pagare subito – una situazione rarissima – e la conclusione fu che ci rimettemmo molte migliaia di dollari. Per la maggior parte dei dieci anni in cui vi lavorai, la galleria fu in difficoltà finanziarie. La mia era una lotta continua per cercare di tagliare le spese, di ridurre il salasso rappresentato dalla sconsiderata generosità di Leo e dai suoi atteggiamenti da patrizio europeo; per spostare una panca nella galleria egli avrebbe chiamato l’architetto. Ve la dico io, l’esatta definizione di Leo: è uno che ha bisogno che tutti gli vogliano bene. Egli vuole da ognuno affetto, dedizione e amore, e talvolta arriva a rinunciare ai suoi propositi e ai suoi principi pur di ottenerli». E anche quando gli introiti della galleria sono altri, Castelli immediatamente reinveste la maggior parte del denaro nelle varie attività della galleria o ad essa connesse, i cui principali beneficiari sono gli artisti.
Molti artisti legati alla galleria percepiscono uno stipendio mensile quale contropartita delle vendite delle loro opere. Sovente le vendite danno un surplus che viene periodicamente pagato all’artista; qualche volta il conto di un artista è in deficit, e almeno in un caso il deficit è talvolta salito a più di duecentomila dollari. «Ancora qualche anno fa era veramente un’operazione terribilmente risicata», secondo Nancy Friedberg, che è stata amministratrice della Castelli negli ultimi sedici anni. «Sovente a sera, tornando a casa mia, mi domandavo come avremmo fatto a pagare i conti del mese dopo. Ma per fortuna sembra che salti sempre fuori qualcosa». Castelli stesso ha un tenore di vita tutt’altro che misero. Resta tuttavia il fatto che questo tenore è molto meno sontuoso di quello di molti dei suoi artisti più importanti, ed egli non si sgancia mai dalla galleria e dalle sue esigenze. «Non conosco nessuno meno orientato di lui negli aspetti puramente finanziari del mercato artistico», ha detto di lui William Rubin, direttore della pittura e della scultura del Museum of Modern Art. Leo è sempre pronto a mettere in secondo piano i propri interessi rispetto a quelli dei suoi artisti. In generale c’è stata la tendenza, da parte di alcuni, a sminuire la figura del mercante, ma la storia dell’arte moderna sarebbe stata molto diversa non fosse stato per l’opera svolta da alcuni mercanti illuminati. Sono convinto che Leo abbia svolto questo ruolo. Io ritengo che egli si collochi sulla stessa tradizione di uomini come Ambroise Vollard, che si sono completamente dedicati agli artisti da essi trattati, per contribuire alla giusta collocazione della loro arte. Secondo me, è un mercante d’arte esemplare».
Si è detto qualche volta che Rauschenberg e Johns, che furono fra i primi artisti ad entrare a far parte della galleria Castelli, e che sono considerati due dei più autorevoli artisti viventi, abbiano avuto una parte non secondaria nella pianificazione degli indirizzi della galleria. «Bob e Jasper in realtà non mi hanno mai dato consigli», disse una volta Castelli con aria pensosa. «In effetti il modo in cui si giunge a certe decisioni è una cosa realmente complessa. È vero che Bob e Jasper, e altre persone di grande sensibilità artistica come David Whitney e Richard Bellamy, che sembrano quasi avere la funzione di barometri, influenzano i miei giudizi. Occorre avere l’occhio buono ma anche un buon orecchio. A volte sono cose a malapena dette, ma non vi è altro modo per fare una buona scelta. Si sentono delle cose, si percepiscono vibrazioni, si valutano reazioni. All’inizio non si è sicuri di ciò che si sta facendo, si scelgono giusto degli artisti. Poi arriva il momento in cui si scelgono delle tendenze. All’inizio si trattò di Bob e Jasper. Pareva che essi avessero tratto elementi riconoscibili dal passato, da Dada e dall’espressionismo astratto. Poi venne Frank Stella: sentii oscuramente che la sua astrazione geometrica si ricollegava a Jasper. Poi vennero gli artisti pop, un nuovo ritorno a Dada. Un intero gruppo che improvvisamente emerge, tutti sotto l’influsso della prima mostra di Jasper, lo ammettono essi stessi; lo spirito della sua opera e di quella di Rauschenberg permise loro di fare ciò che fecero. Poi il ritorno alla semplicità di colori e di forme del movimento minimale. Si adocchiano movimenti che stanno emergendo e si cerca di cogliere i professionisti migliori. E poi i tuoi giudizi si basano anche in qualche modo sulle tue sensazioni circa la personalità dell’artista. Se non vi è sostanza nella personalità, probabilmente ci sarà poca sostanza nell’opera».
Ascoltare con attenzione gli artisti rappresentati non è cosa inconsueta nel mondo delle gallerie d’arte. Peggy Guggenheim, la cui Art of This Century Gallery funse negli anni Quaranta da trampolino di lancio per gli espressionisti astratti, si fidava pienamente dei giudizi di Marcel Duchamp, di Max Ernst (di cui fu per breve tempo moglie) e di Frederick Kiesler, mentre Betty Parsons, che assunse la maggior parte dei più importanti espressionisti astratti quando la Guggenheim chiuse bottega e andò a vivere a Firenze, era guidata dall’amico Barnett Newman. Ascoltare ciò che gli artisti dicono è forse il modo migliore per trovare dei nuovi artisti, sebbene il metodo comporti dei rischi. Castelli tuttavia ha fatto molto di più che limitarsi ad ascoltare. Egli ha sostenuto i suoi artisti fino a punti che la maggior parte dei mercanti avrebbero considerato autodistruttivi; ne ha sostenuti alcuni per anni, anche quando non solo non si vendevano le loro opere, ma essi non ne producevano neppure. La fiducia negli artisti è stata l’insegna della galleria, ed è stata ripagata in vari modi. Gli artisti hanno la tendenza a cambiare incessantemente gallerista così come fanno gli scrittori per l’editore, ma, tranne un paio d’eccezioni, nessun artista importante che sia stato con Castelli l’ha lasciato, e numerosi artisti sono stati con lui fin dall’inizio della sua attività.
«Non che egli abbia scremato il meglio», ha detto una volta Jasper di Castelli, «credo che una delle cose interessanti circa l’attività di Leo sia che egli ha agito in modo da far credere di essere capace di mettere in evidenza da solo alcune idee. Egli non si limita a mettere in relazione le cose come si presentano. In ogni modo mi ritengo fortunato per non aver avuto da lavorare per nessun altro mercante». Salvatore Scarpina, un artista nato negli Stati Uniti, è stato con Castelli quasi altrettanto a lungo che Johns. Scarpitta faceva delle tele sagomate quando ancora nessuno ne faceva. Negli anni fra il 1965 e il 1970 eseguì anche dei prototipi di classiche macchine americane da corsa fuori strada (dovevano venir assemblate in galleria poiché altrimenti non sarebbero passate attraverso le porte). Quasi nessuno ne acquistò o prestò ad esse molta attenzione; tuttavia, Castelli continuò a passare a Scarpitta uno stipendio mensile. Durante una mostra di automobili e di tele di Scarpitta che si tenne a Torino nel 1974, l’artista trovò il modo di esprimere la propria gratitudine a Castelli. Un giovanotto italiano voleva una delle opere esposte e offriva in cambio la propria automobile: si trattava di una Maserati-Mexico da 4,9 litri, l’automobile più potente costruita dalla Maserati. Scarpitta, al quale le automobili piacciono, dice che sentì immediatamente che «questa era di Leo per diritto». Accettò quindi l’offerta e partì in Maserati, assieme a un amico, per la Costa Azzurra dove Leo e sua moglie passavano l’estate. Attraversò le Alpi due volte per il gusto di fare due volte le stesse curve. «Alla frontiera i funzionari di dogana m’interrogarono con minuziosa severità», raccontava tempo fa Scarpitta. «Mi ero mentalmente estraniato da quell’auto e così sembrava che mi fosse estranea, e dovettero pensare che non fosse mia. Quando la consegnai a Leo ebbi la soddisfazione di apprendere che era la prima volta che uno dei suoi artisti gli restituiva qualcosa degno di lui. In quell’automobile Leo appariva come fosse seduto nella sua galleria! Ritornai a Torino con un volo di classe turistica, ma non mi capitò mai più di sentirmi altrettanto ricco in vita mia».
È sorprendente che uno che fa tanto bene il suo mestiere come Castelli abbia incominciato così tardi. Aveva quasi cinquant’anni quando aprì la galleria nel 1957, e la sua vita fino a quel momento era stata piacevole, indolente e senza uno scopo evidente. La sua attuale moglie, Toiny, ha espresso il rimpianto di non averlo conosciuto in tempi precedenti, quando tutte le sue energie non erano concentrate nella direzione della galleria. «Ho sposato Leo troppo tardi», una volta disse. «Ho perso tutto il divertimento». Era cresciuto a Trieste, una città cosmopolita che fino alla sua cessione all’Italia nel 1919 fu il porto principale dell’allora fatiscente impero austroungarico. Ai figli delle classi colte s’insegnava a parlare tedesco a scuola, per ragioni commerciali e culturali, ma a casa parlavano tutti italiano. I Castelli, il ramo materno della famiglia di Leo, vivevano a Trieste da generazioni; suo padre, che si chiamava Ernest Krauss, era venuto a Trieste dalla natia Ungheria da giovane e dopo l’annessione all’Italia cambiò il cognome in Krauss-Castelli (col tempo la famiglia lasciò cadere completamente il Krauss dal cognome). Egli fece carriera in una filiale della più importante banca austriaca, che successivamente divenne una banca italiana indipendente. Ne divenne direttore generale. Leo aveva una sorella, Silvia, più vecchia di lui di un anno e mezzo, e un fratello, Giorgio, più giovane di lui di quattro anni.
La famiglia viveva in una comoda villa con giardino in via Michelangelo. Durante la Prima guerra mondiale la famiglia si trasferì a Vienna, dove il padre di Leo trovò lavoro all’ufficio interni della sua banca e i bambini frequentarono le scuole austriache. Quando, dopo la guerra, la famiglia fece ritorno a Trieste, il padre si trasferì alla Banca Commerciale Triestina, la principale banca locale, e fece una bella carriera. Traslocò con la famiglia in una villa più grande, con un giardino più grande, e la vita, ricorda Castelli, «divenne molto piacevole, con tante belle ragazze, il tennis, il nuoto e cose del genere». Allora gli interessi di Castelli erano soprattutto per la letteratura e lo sport. Egli trascurava lo studio per leggere i romanzi di moda francesi, inglesi e tedeschi, e trascorreva il maggior tempo possibile ad arrampicarsi sulle Dolomiti (roccia, con corde e chiodi) e a sciare sulle Alpi. Quattro anni di università a Milano gli fecero conseguire una laurea in giurisprudenza, ma egli non aveva nessuna fretta di far pratica. Suo padre gli trovò lavoro presso una grossa compagnia di assicurazioni, ma neppure le assicurazioni suscitarono in lui alcun entusiasmo.
Dopo un anno di lavoro nella compagnia egli disse a suo padre che gli sarebbe piaciuto lasciare il lavoro per studiare letteratura comparata e poi insegnarla. «Mio padre era un uomo buono, e mi disse che mi avrebbe permesso di farlo, ma che prima gli sarebbe piaciuto mandarmi all’estero», ricorda Castelli. «La compagnia di assicurazione aveva una filiale a Bucarest, così io vi fui trapiantato nella primavera del 1932. Non ne potevo più di assicurazioni, ma la vita mondana di Bucarest era molto vivace». Fra le gemme dell’alta società di Bucarest c’era una signorina che si chiamava Eve Schapira, il cui padre era uno dei più grandi magnati dell’industria rumena. Castelli ebbe un amoretto con Eve, ma pochi mesi dopo s’innamorò molto più profondamente della sorella più giovane, Ileana, che tornava da un soggiorno a Parigi con la madre. Ileana era molto bella, intelligente e viziata. Quando s’incontrarono per la prima volta aveva diciassette anni, ma aveva ancora una governante francese, e faceva continuamente dei piani per eluderne la sorveglianza. Castelli la sposò nell’autunno successivo. Mihail Shapira, il padre di Ileana, sistemò gli sposi in un comodo appartamento, e Castelli dedicò meno tempo di prima al suo lavoro. Egli e Ileana fecero molti viaggi – a Parigi per le spese, a Saint Moritz per lo sci – e giravano le campagne circostanti alla ricerca di oggetti antichi, specialmente brocche e tazze Meissen primo periodo di cui facevano collezione. I compagni d’ufficio di Castelli restavano allocchiti quando Ileana veniva a prendere Leo in ufficio, per far colazione assieme, nella loro Chrysler con autista, così essa prese l’abitudine di far parcheggiare l’auto dietro l’angolo dell’edificio.
Nel 1934 Leo lasciò l’impiego alle assicurazioni e andò a lavorare in una banca il cui direttore era intimo amico di Shapira e di suo padre. Quel lavoro durò piùo meno un anno finché, grazie a notevoli manovre dietro le quinte, ebbe un buon impiego nella filiale parigina della Banca d’Italia. I Castelli trascorsero a Parigi un periodo felice. Fecero un gran numero di amicizie, fra cui quella con un giovane architetto e arredatore francese che si chiamava René Drouin, sposato con una vecchia compagna di scuola a Bucarest di Ileana. Drouin risistemò l’appartamento dei Castelli a Neuilly, e in seguito continuarono a frequentarsi. Un giorno, nel 1939, Drouin propose a Castelli di aprire assieme una galleria nei locali occupati precedentemente dalla galleria Knoedler in place Vendôme, fra il Ritz e la Schiapparelli. Era uno spazio elegante, con colonne di marmo, una grande scalinata e le pareti ricoperte di velluto sbiadito. Il suocero di Castelli, che desiderava che egli trovasse un’occupazione confacente ai suoi interessi, considerò con favore questa idea, tanto da investirvi il denaro occorrente per l’affitto e la ridecorazione, e così Castelli e Drouin si dedicarono a tempo pieno alla nuova iniziativa. Allora essi pensavano di esporre mobili moderni progettati da Drouin, mobili antichi adattati al gusto moderno (tavoli rinascimento sbiancati, seggiole Luigi XVI ricoperte di tessuti contemporanei), mobili disegnati da artisti contemporanei e oggetti d’arte. Nessuno dei due sapeva granché di arte contemporanea. Castelli aveva seguito un corso triennale di storia dell’arte alle scuole superiori e aveva letto un solo libro sull’arte contemporanea, Sirice Cézanne di Clive Bell, che trattava di post-impressionismo, e nel 1939 di pittura e scultura ne sapeva molto meno di Ileana, che nella sua infanzia aveva trascorso ore e ore nei musei mentre sua madre e le sue sorelle facevano spese nei negozi di una città o di un’altra.
A Parigi, tuttavia, Castelli aveva ritrovato Leonor Fini, che aveva conosciuto da bambino a Trieste. La Fini faceva parte del gruppo dei surrealisti parigini, e quando Castelli e Drouin fecero sapere che stavano per aprire una galleria d’arte, divennero subito interessanti agli occhi di Max Ernst, di Pavel Tchelitchew, di Salvador Dalí, di Meret Oppenheim e di altri loro amici. La prima mostra, precedente l’inaugurazione ufficiale, presso quella che Castelli e Drouinavevano chiamato Galerie Rene Drouin, fu dedicata a un unico nuovo dipinto di Tchelitchew intitolato «Phenomena»; era appeso nella sala a pianterreno, illuminata da candele. I surrealisti fecero più o meno la parte del leone nella mostra inaugurale della Galerie René Drouin alla fine della primavera 1939. I mobili déco di Drouin erano sopraffatti da oggetti fantastici come un armadio di Leonor Fini con gli sportelli a forma di donna-cigno, un armadio di Eugène Berman rappresentante pittoresche rovine e uno specchio di Meret Oppenheim circondato da una fluente capigliatura dorata in legno scolpito. Dalí aveva progettato di contribuire alla mostra con una sedia che respirava, ma non riuscì a realizzarla. Vi erano pure dipinti e sculture di altri iniziati del declinante movimento surrealista. Le tout Paris fu presente all’inaugurazione, e Castelli e Drouin si trovarono all’apice dello chic. Chiusero la galleria per le vacanze estive, andarono in vacanza e tutto finì lì; la guerra scoppiò all’inizio di settembre.