Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
La galleria d’arte contemporanea più famosa d’America compie 30 anni. Sulle pagine di un numero monografico di «Vernissage» Calvin Tomkins racconta le storie dell’italiano che l’ha fondata. dal “Giornale dell’Arte” n° 41, gennaio 1987
La guerra scoppiò all’inizio di settembre.
I Castelli erano, come giusto, preoccupati. Tutta la famiglia, che ora comprendeva anche la figlia di tre anni, Nina, si rifugiò nel sud della Francia, ospite della madre di Ileana nella grande casa di Cannes, in attesa di ciò che sarebbe accaduto. Vi stettero fino alla caduta della Francia e quindi, l’anno successivo, fra mille difficoltà, si recarono a Casablanca, dove trascorsero alcuni mesi di ansia cercando di ottenere i visti per gli Stati Uniti. Nonostante tutto in Marocco cercarono di divertirsi, visitarono Marrakesh e continuarono la loro vita lussuosa grazie al denaro di Shapira, che era già riuscito a raggiungere New York. Il suo denaro permise alla fine anche a loro di procurarsi i visti e, dopo un terribile viaggio in treno fino a Tangeri, poi in nave fino ad Algeciras e di nuovo in treno attraverso la Spagna fino al nord, al porto di Vigo, s’imbarcarono su una vecchia nave, la «Marques Comillas», che li trasportò a Cuba. Di lì raggiunsero New York nel marzo 1941, con molti bauli, molto bagaglio a mano, un bassotto tedesco a pelo lungo e la bambinaia inglese di Nina. Allora Shapira a New York era ben sistemato e sistemò anche loro in un appartamento nella upper Fifth Avenue, e infine nell’autunno 1942 essi si installarono al quarto piano di una casa che egli aveva acquistato e diviso in appartamenti per sé e la sua famiglia, al 4 della Settantasettesima strada. I Castelli arredarono il loro appartamento con mobili vittoriani e comprarono una Packard per i loro viaggi negli Adirondacks e nella parte orientale di Long Island. Sentendosi in qualche modo senza arte né parte, Castelli s’iscrisse alla Columbia University per la specializzazione in storia economica; pensava di nuovo di diventare professore.
Continuò i suoi studi fin verso la fine del 1943, quando fu arruolato e inviato a Fort Bragg per l’addestramento, nell’artiglieria da campo. Dopo il periodo di addestramento il capitano della sua compagnia lo destinò ai servizi segreti e Castelli seguì per molti mesi i corsi a Camp Ritchie, nel Maryland, per operazioni dietro alle linee nemiche in Francia. Quando il suo addestramento si concluse, verso la fine dell’estate del 1944, la Francia era ormai nelle mani degli alleati e la missione alla quale era stato istruito era ormai inutile, e quindi gli domandarono se volesse andare in missione all’estero, con destinazione segreta, ed egli rispose di sì. La destinazione si rivelò essere Bucarest, dove egli si trovò a trascorrere i quindici mesi successivi come interprete presso la commissione alleata di controllo. Sebbene Castelli non avesse ricevuto il brevetto di ufficiale che gli era stato promesso durante l’addestramento per la missione in Francia (non andò mai oltre il grado di sergente), a Bucarest, per sua naturale predisposizione, cercò di trascorrere piacevolmente il suo tempo. Abitava nell’hotel più bello, a tavola si trattava benissimo, e dal momento che fu subito evidente che i russi si disponevano a fare ciò che volevano e che la commissione alleata di controllo altro non era che un luogo di osservazione, aveva a disposizione quasi tutto il suo tempo. Ricontattò quindi la sorella Silvia, che aveva sposato un banchiere ungherese e trascorso gli anni di guerra a Bucarest (Silvia ora abita, con suo marito, a Riverdale. Giorgio, il loro figlio minore, giunto negli Stati Uniti nel 1939, cambiò nome e prese quello di George E. Crane; si dedicò alla ricerca come psichiatra e fu per alcuni anni direttore medico di una clinica per malattie mentali a Jamestown nel Nord Dakota).
Da Silvia Castelli, Leo apprese che i loro genitori erano morti a Budapest durante la guerra, la madre di sclerosi multipla e il padre per un’infezione al piede non curata in tempo. Castelli, che non aveva loro notizie dal 1941, fu profondamente ferito dalla notizia. «Leo amava profondamente suo padre – disse una volta Ileana – occupava un’alta posizione e voleva essere buono con tutti, gentile con tutti, beneamato da tutti, e in qualche modo conseguì questo scopo, questa specie di comportamento ideale. Leo aveva due modelli, suo padre e il «Cortegiano» di Castiglione. Anche lui vuole essere sempre buono, gentile, giusto, premuroso e amato, cosa che è impossibile. Vuole essere buono con tutti e quindi finisce con l’essere ingiusto con qualcuno. Leo si fa dei nemici per la stessa ragione per la quale si fa degli amici».
In permesso a Parigi nel 1945, Castelli cercò René Drouin. Con sua gran sorpresa lo trovò che mandava ancora avanti la galleria di piace Vendôme, dove aveva raccolto un gruppo impressionante di artisti moderni. La galleria ora trattava soltanto dipinti e sculture, non più mobili, e aveva in scuderia nomi come Kandinskij, Dubuffet, Wols, de Staël, Mondrian e Antoine Pevsner. Non c’era nessuno che comprasse, allora, e il futuro sembrava molto incerto. Castelli tornò a Bucarest dove gli venne offerto il grado di ufficiale e una carriera nei servizi segreti dell’esercito. Considerò l’offerta e poi la respinse. Aveva deciso di continuare a lavorare con Drouin, ma non a Parigi e non su basi formali. Essendo divenuto cittadino americano in seguito al servizio militare, decise di mettersi in affari come rappresentante di Drouin a New York.
Per alcuni mesi dopo che ebbe lasciato l’esercito Castelli cercò tiepidamente di finire gli studi alla Columbia. Ma la sua vera istruzione era appena agli inizi, e la sua università fu il Museum of Modern Art di New York dove le mostre e i cataloghi di Barr lo introdussero in un mondo al quale prima egli aveva appena dato uno sguardo di sfuggita. «Qui scoprii veramente l’arte moderna – ha detto recentemente – l’arte moderna europea. In nessun altro luogo al mondo esisteva una rassegna così ben strutturata dell’arte del nostro secolo. I francesi mettono al centro dell’attenzione la loro arte, specialmente il cubismo, ma si sono scarsamente occupati del surrealismo e dell’espressionismo tedesco o di qualsiasi altra cosa». Dorothy Miller, allora conservatrice dei dipinti e delle sculture del Modern, vide Castelli per la prima volta nel 1946, quando questi andò al museo portando un regalo, un’edizione numerata, appena pubblicata, di un libro francese su Dubuffet e due disegni di Salvador Dali. «Volevo soltanto esprimere la mia gratitudine a quell’istituzione che mi pareva un miracolo», spiega Castelli. Dalí, Yves Tanguy, André Masson, André Breton, Max Ernst, Matta e molti altri artisti del gruppo surrealista avevano trascorso in America gli anni di guerra e molti di essi c’erano ancora quando Castelli vi fece ritorno.
Il loro luogo di riunione era l’Art of this Century Gallery di Peggy Guggenheim nella Cinquantesima strada ovest, e Castelli incominciò a trascorrervi gran parte del suo tempo. Il personaggio chiave della sua educazione artistica fu in quel momento il pittore cileno Matta (Roberto Matta Echaurren), un artista volubile, brillante, di intensa attività, che era più giovane dei surrealisti francesi e servì loro da legame con quegli americani poi noti come espressionisti astratti. «Matta per me era il prototipo dell’artista intelligente e dinamico», ricorda Castelli; «egli ebbe la funzione di grande catalizzatore di idee e sviluppi di ogni genere». La vita emotiva di Matta era indubbiamente espressionista. Quando sua moglie diede alla luce due gemelli, egli la lasciò immediatamente, la responsabilità lo atterriva, e andò a vivere con una ragazza che si chiamava Patricia O’ Connell che più tardi sposò. Matta ebbe anche una relazione con la moglie di Arshile Gorky, Agnes. Per Gorky, il cui periodo più produttivo era stato brutalmente troncato dal cancro e da un grave incidente d’auto che l’aveva lasciato zoppo, ciò fu la goccia che fece traboccare il vaso; quando Agnes lo lasciò, nell’estate del 1948, egli s’impiccò. Matta partì per l’Europa subito dopo.
In quel periodo quasi tutti gli artisti europei erano ritornati in Europa. La loro presenza a New York aveva tuttavia contribuito a incoraggiare e a focalizzare le energie degli artisti americani d’avanguardia e, a partire dal 1949, New York divenne il vero centro internazionale dell’arte moderna. La situazione galleristica nella metà degli anni Cinquanta non era favorevole all’arte americana. Edith Halpert esponeva le opere di alcune delle figure più importanti del periodo prebellico (Ben Shahn, Reginald Marsh, Yasuo Kuniyoshi) nella sua Downtown Gallery nella Cinquantunesima strada est, ma le gallerie più importanti, come Curt Valentin, Karl Nierendorf e Valentine Dudensing trattavano soprattutto artisti europei, e il mercato era orientato sull’Europa.
Questa situazione incominciò a mutare quando, nel 1946 e nel 1947, Betty Parsons, Sam Kootz e Charles Egan aprirono le loro gallerie e incominciarono a esporre le opere della scuola newyorchese dell’espressionismo astratto, molte delle quali erano state messe in giro con la chiusura della Art of this Century Gallery.
Le reazioni violentemente ostili della maggior parte dei critici e dei frequentatori di gallerie di fronte alle opere di Jackson Pollock, di Franz Kline, di Mark Rothko e degli altri non incoraggiavano gli acquisti, e se qualche dipinto fosse stato venduto, lo sarebbe stato a prezzi che ora appaiono ridicoli, (sui mille dollari per un grande Pollock). Gli artisti avevano sviluppato una fede truculenta fortemente antiborghese nel proprio lavoro ed erano pochi i non addetti ai lavori, come i Castelli, che credessero in essi e diventassero loro amici. Castelli fu uno dei primi membri del Club, una libera associazione che si riuniva in un loft dell’Ottava strada est, con artisti, poeti, critici congeniali come Clement Greenberg e Harold Rosenberg, e oratori ospiti per conferenze e discussioni a ruota libera che in genere si concludevano nella Cedar Tavern, dietro l’angolo nella University Piace.
Il clima mentale ed emotivo di queste riunioni era spesso sciovinista, secondo Ileana. «La gente stava molto sulle difensive», essa ricorda, «a noi non interessava molto la nuova pittura europea, ma trovammo affascinante quella americana. Io stessa allora ero molto delusa dall’Europa; non avrei mai voluto rivederla. John B. Myers, che allora gestiva la galleria Tibor de Nagy, una volta chiamò Leo «Coq au Vin», cosa che ci ferì, tutti e due eravamo fortemente attaccati a questo paese, ed eravamo profondamente coinvolti dalla scena artistica»
Gli artisti non capivano bene che cosa interessasse veramente ai coniugi Castelli. Castelli sembrava soprattutto un collezionista, ma i suoi mezzi erano ovviamente limitati; era Ileana che, di tanto in tanto, comperava un dipinto. Castelli allora guadagnava di che vivere con una fabbrica di maglierie. Mihail Schapira, in un ennesimo tentativo di aiutare il genero a farsi strada nel mondo, gli aveva acquistato una partecipazione in una ditta di maglieria che era un’emanazione di una più grande azienda tessile di proprietà di Shapira stesso e di un suo collega rumeno.
Castelli andava in ufficio senza alcuna regolarità, ma il suo stipendio gli bastava per vitto e pigione. Egli trattava anche privatamente dipinti europei. Qualche volta René Drouin gli spediva una tela di Kandinskij – senza cornice e arrotolata, affidata a un pilota di linea di sua conoscenza, per risparmiare le spese di spedizione – e Castelli la vendeva alla baronessa Hilla Rebay per il suo grande amico Simon Guggenheim (lo zio di Peggy), che conservava la sua collezione in un enorme appartamento al Plaza; più tardi la collezione andò al Guggenheim Museum. Castelli aveva anche stabilito delle relazioni d’affari con la galleria Nierendorf, che trattava Klee, Kandinskij e altri maestri europei.
Nel 1947 la vedova di Kandinskij a Parigi, affidò un gran numero di dipinti di Kandinskij prima maniera a Nierendorf, ma questi morì subito dopo averli ricevuti. Il direttore della galleria, temendo che i dipinti restassero legati per un tempo indefinito al patrimonio di Nierendorf, domandò telegraficamente consiglio alla signora Kandinskij. «Lidia Castelli», telegrafò quest’ultima, cosa che il direttore fece, e così, per un certo periodo, Castelli ebbe due diverse fonti di rifornimento di Kandinskij, da Nierendorf quelli giovanili e da Drouin i tardi. La sua unica cliente era la baronessa Rebay e i prezzi non erano spettacolari; il più caro, che oggi varrebbe mezzo milione di dollari, fu venduto a mille dollari. Drouin, che era costantemente sull’orlo del fallimento, incominciò a telegrafare a Castelli di mandargli del denaro per poter continuare a tenere aperta la galleria, così in gene re i magri profitti di Castelli si volatilizzavano prima di poter essere reinvestiti. Egli andò in Francia nel 1949 per vendere la proprietà del suocero a Cannes, e nel contempo liquidò i suoi rapporti d’affari con Drouin. Dal momento che la galleria era stata finanziata soprattutto da Schapira, Drouin diede a Castelli alcune importanti opere come sua quota societaria, una natura morta di Léger, tre ottimi Dubuffet, un piccolo Kandinskij e una scultura in metallo di Pevsner. Queste opere, assieme a due importanti Klee e a un Mondrian che egli aveva acquistato da Nierendorf, costituirono la base di gran parte della futura attività di mercante in proprio di Castelli. Leo era sempre più coinvolto, personalmente e professionalmente, con i pittori espressionisti astratti. Egli e Ileana davano dei bei ricevimenti nel loro appartamento e nella casa che avevano acquistato a East Hampton, dove molti artisti newyorkesi trascorrevano l’estate (gli artisti abitavano nei boschi a lato della baia, i Castelli abitavano a Jericho Lane, vicino alla spiaggia). Per due estati Willem ed Elaine de Kooning stettero con loro nella casa di East Hampton. Gli espressionisti astratti incominciavano ad essere noti all’infuori della ristretta cerchia artistica.
Nell’agosto 1949 la rivista Life fece uscire un articolo di tre pagine su Pollock con il seguente titolo: «Jackson Pollock. Il più grande artista vivente degli Stati Uniti?». Eppure, ancora nessuno si stava arricchendo. Molti artisti di New York sollecitavano Castelli ad aprire una galleria. Sam Kootz nel 1948, quando decise di ritirarsi, offrì a Castelli il suo spazio nella Cinquantasettesima strada, ma Castelli lo rifiutò. Egli provava una persistente avversione di stampo aristocratico-europeo per l’idea stessa di mettersi «nel commercio» e, soprattutto, Mihail Schapira aveva espresso delle riserve su quell’idea: egli aveva perso gran parte della sua fortuna trasferendosi in America, e gli affari in campo artistico gli parevano un’impresa rischiosa e poco sostanziosa. Comunque, i vecchi locali di Kootz vennero rilevati da Sidney Janis. Anche Janis proveniva dall’industria dell’abbigliamento e precisamente dalla camiceria. Egli e la moglie avevano incominciato a far collezione d’arte moderna nel 1926, e nel 1938 egli si ritirò dalla camiceria e trascorse i dieci anni successivi a scrivere dei libri d’arte.
Egli portò nel campo galleristico una competenza di studi che abbracciava l’intero svolgimento della pittura e della scultura moderne, e le sue mostre di Mondrian, Léger, Picasso e altri grandi artisti europei resero rapidamente la sua galleria una potente nuova forza. Castelli e Janis si conoscevano dagli anni Quaranta, e nel 1948, quando Janis aprì la sua galleria, incominciarono a fare qualche affare assieme. Castelli collaborò a una collettiva di giovani pittori francesi e americani che si svolse da Janis nell’autunno 1950. Sistemando i dipinti, Janis e Castelli appaiarono gli artisti francesi e americani secondo le affinità di stile o di immagini: Dubuffet con de Kooning, Soulages con Kline, de Staël con Rothko, Matta con Gorky (che probabilmente si rivoltò nella tomba) e altri.
Pochi anni dopo Ileana Castelli acquistò da Janis alcuni dipinti, soprattutto di Pollock, che aveva lasciato Betty Parsons nel 1951 ed era passato a Janis, e qualche volta Castelli avrebbe chiesto a Janis di vendere qualche suo dipinto europeo. Talvolta Janis e Castelli acquistavano in società qualche dipinto e dividevano i proventi della vendita. Avevano allora l’abitudine di pranzare spesso assieme, e poiché Janis assumeva un sempre maggior numero di espressionisti astratti, Kline e Rothko nel 1953, Motherwell nel 1954, gli iniziati trassero la conclusione che Castelli era divenuto il cervello della Janis Gallery. Castelli lo nega decisamente affermando: «Janis conosceva Pollock e de Kooning prima di me. Forse aveva su di loro un po’ più di riserve di quante non ne avessi io, ma non è che li prese semplicemente perché glieli consigliai io. Janis era un autentico prodotto del Museum of Modera Art. Per accuratezza, precisione e selezione le sue mostre erano della stessa classe di quelle del Moma. Io ho avuto la fortuna di avere come maestro Alfred Barr grazie a Janis.
Qualche volta oggi la gente lo critica e dice che è privo di idee originali, ma non è vero. Ciò che egli ha fatto è stato di enorme importanza. Egli mi ha veramente insengnato che una galleria andrebbe gestita come un museo, egli possedeva questo genere di rigore. Ho imparato infinitamente più cose da lui che lui da me». Un evento importante per la nascita dell’espressionismo astratto fu la mostra della Nona strada, verso la fine della primavera 1951. Molti artisti vivevano allora al Greenwich Village ed esponevano nelle piccole gallerie in cooperativa della Decima strada e dintorni. Quando Conrad Marca-Relli, un pittore espressionista astratto, scoprì che un edificio vicino alla University Piace stava per essere demolito, egli e alcuni altri artisti concepirono l’idea di organizzarvi una grande collettiva. Il progetto ebbe subito molte adesioni, fra cui quella di Castelli. «Ero quello che sembrava il più ricco, così misi il denaro per l’acquisto di un po’ di vernice bianca e per far stampare gli inviti», ricorda Castelli. «Spesi in tutto qualcosa come due o trecento dollari». La mostra si rivelò soprattutto una mostra di opere espressioniste astratte, la più grande e la più onnicomprensiva vista fino a quel momento. Vi erano rappresentati sessantun artisti, e costituì un vero colpo per molti osservatori vedere come lo stile sferzante e libero di de Kooning e Pollock, che in seguito Harold Rosenberg chiamerà Action Painting, fosse stato adottato pienamente dalla generazione più giovane. L’inaugurazione fu una specie di fiesta, con un grande striscione teso attraverso la Nona strada e con grande afflusso di visitatori plaudenti o disapprovanti. Successivamente, quando Castelli portò Alfred Barr vicino alla Cedar Tavern per discutere la mostra e poi al Club dell’Ottava strada dove si erano riuniti molti artisti per festeggiare l’avvenimento egli e Barr vennero accolti con un’esplosione spontanea di battimani.