Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
La galleria d’arte contemporanea più famosa d’America compie 30 anni. Sulle pagine di un numero monografico di «Vernissage» Calvin Tomkins racconta le storie dell’italiano che l’ha fondata. dal “Giornale dell’Arte” n° 41, gennaio 1987
La felice reazione dei media alla Pop Art diede una sorta di amara soddisfazione ai suoi detrattori. I pionieri dell’espressionismo astratto avevano lavorato praticamente isolati per anni, forgiando in solitudine i propri miti personali. Per essi la nuova generazione non era evidentemente seria. Quando domandarono a Robert Motherwell che cosa pensasse di questo impetuoso nuovo movimento, egli rispose ferocemente che «era bello vedere quei giovanotti che si divertivano». Sotto la superficie covavano rabbia e timore. La domanda di opere degli espressionisti astratti più importanti si mantenne sostenuta negli anni Sessanta, ma si verificò una netta caduta dei prezzi dei professionisti della seconda generazione di quella scuola, poiché non interessavano più a nessuno. Alcuni mercanti sollecitarono i loro clienti a passare alla Pop Art, che si stava diffondendo come fungo nelle scuole d’arte. Era inevitabile, forse, che dopo un decennio di difficile arte astratta la comparsa di un nuovo stile figurativo giungesse benvenuta.
La Pop Art era divertente, iconoclastica, attuale. Guardava verso il mondo esterno anziché nell’intimo delle emozioni personali dell’artista, e il mondo che osservava era quello familiare della cultura popolare; era piacevole da guardare, una volta superato il primo momento di shock, e coincideva con un sentimento di sincerità e di eccitazione che pervadeva il contesto sociale. «Era presidente Kennedy», ha osservato Castelli, «e l’intera atmosfera del paese era piena di speranza». Spirava in giro, nel mondo dell’arte, uno spirito nuovo. L’avanguardia era l’ultima moda. Le inaugurazioni delle mostre dei principali musei e gallerie erano avvenimenti sociali importanti, dove la gente andava vestita come a un ballo di società. Far parte del consiglio di amministrazione del Museum of Modern Art era la meta più importante per chi avesse delle ambizioni mondane, e arrivare nello studio di un nuovo artista prima del mercante rappresentava per dei collezionisti come Robert Scull una cosa emozionante.
In tutto questo gli espressionisti astratti e alcuni critici videro una specie di congiura, un ampio e astuto complotto, organizzato da ristretta setta cabalistica di venditori e di esperti in relazioni pubbliche per detronizzare l’autentica qualità e conquistare il mercato. Per tutti costoro che riconoscevano una congiura non appena ne vedevano una, il cervello che aveva organizzato tutto era Castelli, e la prova di ciò era il suo colpo riuscito di influire sul risultato della Biennale di Venezia del 1964.
Alan Solomon, nominato dalla sezione Belle Arti della Information Agency americana quale rappresentante degli Stati Uniti alla Biennale, era un vecchio amico di Castelli. Nel 1958, quand’era direttore dell’Andrew Dickson White Museum (ora Herbert F. Johnson Museum of Art) di Cornell, Solomon era andato a vedere la prima mostra di Rauschenberg alla galleria Castelli e ne era restato talmente entusiasta che aveva convinto il suo museo ad acquistare un dipinto, e fu quella la prima tela di Rauschenberg che entrò in un museo. Da allora egli prese a frequentare regolarmente la galleria e quando nel 1962, dopo l’ampliamento e il rinnovamento del Jewish Museum, ne fu nominato direttore, i loro rapporti divennero più stretti.
La maggior parte della gente trova difficile instaurare rapporti di vera amicizia con Castelli poiché è arduo superare la sua patina di buona educazione e di riserbo; invece, Solomon, fra il 1962 e il 1970, anno della sua morte, fu intimo amico di Castelli. «Venire a New York fu per lui rinascere a nuova vita», diceva tempo fa Castelli. «Si liberò della moglie. Grazie a un’operazione poté fare a meno dell’apparecchio acustico. Si lasciò crescere una bella barba di gusto vagamente orientale, incominciò a vestire con grande eleganza e originalità ed ebbe molte relazioni amorose, delle relazioni incredibilmente profonde. Era così sicuro di sé che nessuno poteva resistergli». Alcuni membri del consiglio d’amministrazione del Jewish Museum restarono sgomenti di fronte alla grande retrospettiva di Rauschenberg che Solomon organizzò nel 1963. Delle opere come «Monogramma» e «Letto» non parvero loro appropriate per un museo la cui principale funzione, negli anni precedenti, era stata la conservazione e l’esposizione di oggetti liturgici.
Ma Solomon aveva l’appoggio di Albert e Vera List e di altri influenti consiglieri, e quindi continuò per la sua strada organizzando un altrettanto ambiziosa retrospettiva di Jasper Johns e altre mostre dell’audace nuova arte. Gli artisti che Solomon scelse per la Biennale, la più antica e prestigiosa fra le grandi esposizioni internazionali d’arte, rappresentavano quelle che egli considerava le due più importanti tendenze dell’arte americana recente; Rauschenberg e Johns, che avevano indicato la via d’uscita dall’espressionismo astratto, e Morris Louis e Kenneth Noland, i principali esponenti di quella che era chiamata Color-field Abstraction, cioè l’esplorazione delle pure relazioni cromatiche.
La pittura dei color fielders era stata attivamente sostenuta da Clement Greenberg, il più influente critico del momento. Oltre che scriverne, Greenberg aveva organizzato delle mostre e aveva esposto le loro opere alla galleria French & Company di New York della quale fu consulente nel 1959 e nel 1960. Quando questa galleria chiuse i battenti nel 1960, Louis e Noland passarono alla galleria André Emmerich. Castelli, sebbene ammirasse molto Greenberg, non fu mai asservito alle sue opinioni. Oltre ai quattro artisti primari, Solomon incluse quattro artisti più giovani che egli riteneva indicassero ulteriori sviluppi di quelle tendenze generali. Essi erano Frank Stella (astrazione geometrica) e John Chamberlain, assieme a Claes Oldenburg e Jim Dine, che allora erano nel mucchio che stava sotto l’ombrello della Pop Art.
Non si mancò di notare che quattro su otto degli artisti selezionati erano di Castelli. Castelli giunse a Venezia una settimana prima dell’inaugurazione ufficiale e la fabbrica dei pettegolezzi parlò molto della sua attività. Castelli, si diceva, aveva scelto gli artisti al posto di Solomon e si dava da fare notte e giorno, in varie lingue, nel gruppo dei giudici internazionali che avrebbero assegnato i premi della Biennale; Castelli aveva fatto trasportare nottetempo, approfittando del buio, altri dipinti di Rauschenberg nei padiglioni della Biennale per esercitare una maggiore pressione sui giudici; Castelli aveva persino combinato di fare arrivare Rauschenberg a Venezia il giorno precedente l’inaugurazione della Biennale per l’allestimento scenico e le luci dello spettacolo della Merce Cunningham Dance Company il cui debutto la settimana stessa, nel settecentesco teatro Fenice, era un evento al centro di accese controversie.
Quando Rauschenberg vinse il gran premio internazionale per la pittura (era la prima volta nella storia della Biennale che questo premio andava a un artista americano) il critico newyorchese Hilton Kramer vide nella scelta la prova dell’«imperialismo culturale» esercitato da Castelli mediante l’intrigo. A Venezia, ovviamente, Castelli si sentiva nel proprio elemento naturale. («Leo ha assorbito profondamente le diverse culture europee», disse una volta Ileana). Infaticabile e apparentemente onnipresente, sfrecciava dalla Biennale, situata nei Giardini Pubblici, all’edificio dell’ex consolato americano sul Canal Grande (dove Solomon aveva collocato tutti i dipinti di Rauschenberg e di Johns pensando che tale collocazione fosse idonea per il giudizio della giuria), quindi a un tavolino all’aperto del Florian in piazza San Marco o a un tavolo all’interno dell’Harris Bar e nei più bei ristoranti, dove ordinava per tutti nel suo italiano perfetto, e pagava invariabilmente per tutti, a ricevimenti privati e ufficiali e in cento altri posti fra una cosa e l’altra.
Castelli, con tutte le lingue che conosceva, il suo fascino, la sua inesauribile sete di informazioni di ogni genere, forse incominciava ad accorgersi che probabilmente stava influenzando il corso degli eventi, ma coloro che allora erano presenti riferiscono che non ebbe contatti di sorta con i giudici e che l’errata supposizione di Solomon che dei dipinti collocati nel consolato avrebbero potuto essere prescelti per il premio (aveva interpretato male il regolamento ufficiale) quasi costò la vittoria a Rauschenberg. Avendo saputo che la giuria era molto ben disposta in favore di Rauschenberg ma che il presidente esitava ad assegnare il premio a un artista non rappresentato nel recinto ufficiale della Biennale, Solomon fece trasportare un’opera di Rauschenberg e una di Johns in motoscafo (e in pieno giorno) dall’edificio del consolato al padiglione degli Stati Uniti ai Giardini, una mossa che lasciò tutti soddisfatti, eccetto i fanatici della congiura.
La vittoria alla Biennale impresse naturalmente una spinta in alto ai prezzi di Rauschenberg e consolidò la sua fama internazionale. Le pitture attraverso uno schermo di seta, che nel 1963 egli vendeva a cifre oscillanti fra i duemila e i quattromila dollari, balzarono immediatamente a quotazioni fra i diecimila e i quindicimila dollari. Rauschenberg, come sempre imprevedibile, reagì smettendo quasi completamente di dipingere per dedicarsi alla Experiments in Art and Technology, un’istituzione formata con altri due soci nel 1965 al fine di promuovere la collaborazione fra artisti e tecnici su progetti implicanti l’applicazione delle tecnologie più avanzate in quello che essi chiamarono «projects outside art».
Già lenta, la produzione di Johns divenne in quel momento ancor più lenta poiché egli andò sempre più interessandosi all’esecuzione di stampe. Lichtenstein e Stella divennero i principali sostegni della galleria assieme a Warhol che vi era entrato nel 1964 e a Rosenquist che era venuto nello stesso anno. Per un po’ di tempo Belamy aveva continuato a dire a Rosenquist che intendeva chiudere la Green Gallery, e Castelli gli disse che, quando avesse deciso di lasciare la Green, avrebbe potuto prendere in considerazione l’idea di passare a Castelli.
L’anno successivo la Green Gallery chiuse in effetti i battenti. Bellamy aveva scoperto e lanciato nuovi artisti ancor più importanti di quelli di Castelli, e fra questi Oldenburg, Rosenquist, Robert Morris, George Segai, Larry Poons e Donald Judd. Il suo occhio era evidentemente infallibile, ma, nonostante il sostegno finanziario di Scull, egli non riusciva a far quadrare i conti. Egli offrì a Castelli la prima scelta fra gli artisti della Green Gallery, e Castelli scelse Poons, Morris e Judd. Poons rappresentava una scelta ovvia, era un bell’astrattista che riempiva vaste tele con piccoli nitidi ovali di colore che vibravano otticamente contro il colore di fondo. Castelli aveva qualche esitazione nei confronti di Morris e Judd.
Morris, che egli aveva respinto qualche anno prima poiché la sua opera gli pareva troppo strettamente correlata a quella di Johns (un problema comune a molti artisti dopo la prima mostra di Johns), si era messo a costruire delle strutture primarie, delle sculture esemplificate, disimpegnate, che sembravano eseguite a macchina e che sarebbero state presto conosciute come arte minimale. Anche Judd era un minimalista. Egli si fece fare da un laboratorio meccanico delle scatole metalliche su suo disegno e le fissò a una parete disposte in file orizzontali e verticali a mo’ di scaffalatura. L’arte minimale trasferì nel campo della scultura le rigorose negazioni dei dipinti di Stella; caratterizzata da una straordinaria povertà e impersonalità, era un’arte ridotta all’ossatura essenziale della forma, della linea e del colore da artisti che credevano fermamente nella necessità di nascondere ogni traccia di sé (basta con l’espressionismo). Non stupisce che l’arte minimale fosse difficile da vendere.
Per di più le opere venivano a costare moltissimo quando il costo della fabbricazione e della spedizione dei pezzi più grandi era sostenuto dal venditore (come era consuetudine da Castelli), e Morris, in particolare, tendeva a lavorare in grandi dimensioni. In questi due casi sulla decisione di Castelli pesò certamente l’influsso di Frank Stella e di Barbara Rose, la critica d’arte che allora era moglie di Stella. Barbara Rose, che era anche molto amica di Judd, scrisse per le riviste d’arte internazionali una serie di penetranti saggi sull’arte minimale. Lei e Stella trascorrevano molto tempo nella galleria, che serviva ancora come una specie di club e di centro di dibattito per gli artisti, e la loro autorità intellettuale era di grande effetto.
Ivan Karp disse una volta che l’unica volta che vide Castelli perdere le staffe fu quando, tornando dopo l’ora della colazione, vide Stella seduto per terra nel suo abbigliamento abituale, tutto impillaccherato di colori, che fumava il suo solito sigaro. «Non puoi startene seduto nella mia galleria in questo stato», esplose l’impeccabile Castelli: «Alzati subito!». Castelli nega con veemenza questa storia. Ma si trattava dei primi tempi; nel 1965 Stella poteva ormai fare ciò che voleva e Castelli non protestava. Stella, in effetti, non era neanche più rappresentato in esclusiva da Castelli. Quando il suo amico Larry Rubin, fratello di William Rubin, che aveva venduto le sue opere a Parigi, era tornato negli Stati Uniti nel 1967 e aveva aperto una galleria a New York, Stella aveva deciso di distribuire la sua produzione annuale più o meno in parti eguali fra le due gallerie.
Karp insisteva perché Castelli non accettasse, ma Castelli fece colazione con Rubin e, come al suo solito, giunse a un accordo. Da allora in poi Stella espose una volta alla galleria Castelli e una volta alla galleria Lawrence Rubin, una combinazione che aumentò notevolmente i suoi introiti e che gli consentì di comprarsi una serie di cavalli da corsa. Ad ogni modo Stella e la moglie erano molto favorevoli all’acquisizione di Morris e di Judd da parte della Castelli, e venne così sigillato l’impegno della galleria con il movimento minimale. Castelli e Karp avevano abolito le inaugurazioni del giovedì sera. Si accorsero che erano divenute degli eventi mondani nei quali nessuno guardava le opere esposte, e così nel 1962 incominciarono a tenere le inaugurazioni di sabato, tutto il giorno di sabato, senza invitati speciali e senza liquori, e prima o poi la maggior parte delle altre gallerie seguirono il loro esempio.
I collezionisti attivi capitavano da Castelli con una certa frequenza. «Vi furono dei momenti, verso la metà degli anni Sessanta, in cui se uno non poteva andare da Leo un giorno sì e un giorno no si perdeva qualcosa», dice Victor Ganz. Egli aveva incominciato negli anni Cinquanta collezionando Picasso, ma aveva avuto la sua illuminazione nella retrospettiva di Rauschenberg del 1963 al Jewish Museum; pochi giorni dopo andò da Castelli e acquistò una combine-painting intitolato «Winter Pool» e da allora continuò a comperare, soprattutto Rauschenberg, Johns e Stella. Castelli non ha mai fatto la minima pressione per vendergli dei dipinti, dice Ganz. In effetti Ganz, il quale oltre che collezionista è un conoscitore, non riesce a ricordare neanche una volta in cui Castelli abbia discusso un’opera d’arte in termini di estetica sebbene una volta, non molto tempo dopo che egli ebbe fatto osservare a Castelli che un dipinto di Johns attaccato al muro gli ricordava uno degli ultimi quartetti di Beethoven, lo avesse sentito dire a un altro visitatore che i dipinti di Johns erano come gli ultimi quartetti di Beethoven.
Alcuni artisti della galleria chiamavano Castelli il Mighty Mouse, il Gran Topo, senza farsi però sentire da lui. Tuttavia, essi sapevano che Castelli era dalla loro parte. Secondo Barbara Rose ciò che Castelli in realtà vendeva era la sensazione che lì e in quel momento si stesse facendo la storia dell’arte. Johns, Rauschenberg, Lichtenstein, Stella e gli altri erano per lui dello stesso livello e appartenevano alla stessa tradizione di Cézanne, Matisse e Picasso. «Egli lo credeva fermamente», ha detto la Rose, «e fece sì che lo credessero anche i collezionisti, e forse può darsi che in questo senso egli fosse, dopo tutto, un gran commerciante».
Talvolta i clienti, in questa atmosfera esaltante, perdevano la bussola.
Un collezionista, che è poi diventato mercante egli stesso, quando seppe che un piccolo dipinto di Lichtenstein che egli desiderava ardentemente acquistare era stato venduto a qualcun altro, lo strappò dalla parete della galleria e corse via; Karp dovette corrergli dietro per la strada per ricuperarlo. «Naturalmente l’avrebbe pagato», spiega Karp: «Semplicemente egli non poteva fare a meno di quel dipinto». Jill Kornblee, una giovane gallerista che dice di aver imparato tutto quello che sa della gestione di una galleria semplicemente osservando come Castelli gestiva la sua, afferma di aver visto una volta una cliente letteralmente in lacrime ai suoi piedi. «Si trattava di una coppia di provinciali, lei in visone, e dicevano che dovevano avere un Rauschenberg, e per favore non poteva Leo far qualcosa per loro, e Leo, che non aveva nessuna fretta di concludere l’affare, diceva che avrebbe fatto tutto ciò che avrebbe potuto, ma che dovevano aver pazienza finché non avesse trovato il Rauschenberg giusto.
Egli aveva sempre avuto questo senso innato di collocare i dipinti dove avrebbero maggiormente giovato alla fama dell’artista».
Scull si lamentava sempre che Castelli lasciava ad altri collezionisti i dipinti importanti, e qualche volta accadeva che un cliente che credeva di aver prenotato un pezzo si esasperasse quando scopriva che era stato venduto a qualcun altro. «Si verificavano, in effetti, delle cadute di memoria», ammette Karp, «erano entusiasmi cancellati da entusiasmi successivi. Leo è molto sentimentale, si lascia trasportare dal sentimento. Non lo faceva apposta se trattava male qualcuno». I collezionisti importanti che erano clienti regolari e facevano acquisti quasi in ogni mostra avrebbero spesso ottenuto uno sconto automatico sui loro acquisti e alcuni, come il conte Panza di Biumo e Peter Ludwig, il capitano d’industria tedesco, godevano di sconti fino al venti per cento. Castelli è stato criticato per questi sconti, sebbene si tratti di una prassi comune fra i galleristi. Scull acquistò da Castelli nel 1965 il grande dipinto di Rosenquist intitolato «F – 111» e la stampa riferì che il prezzo era stato di sessantamila dollari; quando successivamente saltò fuori che Scull aveva in realtà speso molto meno, Castelli venne accusato di gonfiare artificiosamente i prezzi di Rosenquist. Ma non era stato Castelli a rivelare la cifra di sessantamila dollari e non avrebbe mai millantato degli alti prezzi.
Castelli è stato anche accusato di comprare alle aste per conto proprio opere dei suoi stessi artisti a prezzi superiori a quelli normali di mercato al fine di far lievitare i prezzi. Gli sarebbe piaciuto poter acquistare opere dei suoi artisti quando comparivano alle aste, egli dice, non per far alzare i prezzi, ma semplicemente per impedir loro di scendere al di sotto delle quotazioni normali di galleria, ma, per ragioni finanziarie, non poteva fare neanche questo. «Non ne ho i mezzi», ha detto, «posso soltanto sperare per il meglio». Quanto ai prezzi speciali riservati ai clienti, Castelli afferma di avere il diritto di vendere ai prezzi che vuole, e che in ogni caso lo fa nell’interesse dell’artista piuttosto che per interesse proprio. «Basta continuare a fare le cose anche quando, finanziariamente, non hanno senso». Castelli ha detto, alcuni anni fa: «Se Rosenquist non vuole vendere un dipinto per meno di diecimila dollari, per esempio, e Panza me ne offre ottomila, può darsi che io decida di dare a Jim tutta la sua percentuale sui diecimila dollari e tenere di meno per me. Ciò che importa è che il dipinto vada a finire dove la gente lo possa vedere».
Tutti i mercanti d’arte fanno degli sconti ai musei, fa notare Castelli; quindi, perché non farne ai collezionisti le cui acquisizioni andranno poi certamente a finire in un museo? Le collezioni di Panza e di Ludwig sono di per sé dei musei, delle raccolte di opere già troppo grandi per essere collocate in qualsiasi museo esistente. Panza, che iniziò negli anni Cinquanta con artisti italiani contemporanei e proseguì con artisti europei come il francese Fautrier e lo spagnolo Tàpies e irruppe infine nel mercato americano acquistando numerosi Rothko e Kline, insisteva sempre per avere molti esemplari delle opere degli artisti che gli piacevano (egli trascurò de Kooning e Johns per questa ragione; nel periodo in cui essi gli interessavano non vi erano abbastanza loro opere a disposizione). Panza ha riempito le stanze del suo appartamento milanese e il palazzo di famiglia di Varese di decine di Rauschenberg, Morris, Judd e Oldenburg e ha trasformato stalle, serre e appartamenti della servitù in depositi di opere di Earth Art di Michael Heizer e Walter De Maria, di opere minimaliste di Dan Flavin, Carl Andre e Robert Irwin, dei concettualisti Bruce Nauman, Joseph Kosuth, Douglas Huebler, Lawrence Weiner, Hanne Darboven e Jan Dibbets (la maggior parte dei quali hanno esposto da Castelli).
Egli avrebbe voluto distribuire questo enorme cumulo di opere, per la maggior parte delle avanguardie americane, fra alcuni musei europei. Peter Ludwig, la cui fortuna deriva da numerose fabbriche di cioccolato sparse per tutta la Germania, ha collocato la maggior parte della sua collezione nel Wallraf-Richartz Museum di Colonia, e un’altra parte in un museo di Aachen, la città nella quale hanno sede i suoi uffici. Ha donato parte della sua collezione alla città di Colonia, che ha da poco inaugurato un nuovo grande museo per ospitarla. Panza e Ludwig meritavano davvero il venti per cento di sconto riservato ai musei, secondo Castelli. Altri galleristi, e fra questi Janis, insistono nell’affermare che fare sconti agli acquirenti privati è un cattivo affare. In ogni caso si tratta di una decisione riguardante gli affari e non, come qualcuno suggerisce, una questione morale.
I collezionisti privati di arte contemporanea di avanguardia, cioè gli acquirenti seri e abituali, sono stati fino a qualche anno fa una specie rara e sfuggente. Fin dall’inizio della sua carriera Castelli decise che il modo per far fronte a questa situazione era collaborare con gli altri galleristi anziché mettersi sul piano della competizione. Nel corso degli anni egli ha costruito negli Stati Uniti e fuori una rete di quelle che egli definisce friendly galleries, dove le opere degli artisti di Castelli vengono regolarmente esposte e sovente in esclusiva. La friendly gallery ottiene l’opera con uno sconto, generalmente fino al trenta per cento, lasciando un profitto del venti per cento a Castelli se l’opera viene venduta (Castelli in genere trattiene una commissione fra il quaranta e il cinquanta per cento per le vendite nella sua galleria).
Durante gli anni Settanta la rete delle gallerie è diventata sempre più importante per le operazioni di Castelli. Scull e la maggior parte degli altri grandi collezionisti di New York sono più o meno usciti dal mercato in parte per i prezzi saliti alle stelle delle opere più importanti, in parte, si può immaginare, poiché tanta parte della nuova arte non si presta a una sistemazione fra le mura domestiche. Fino alla metà degli anni Settanta circa due terzi delle vendite di Castelli furono fatte ad altre gallerie, quasi la metà delle quali europee. Gli americani, sembrava, emulavano i francesi consentendo che l’arte del loro tempo lasciasse il paese.
Ludwig iniziò ad acquistare opere dell’avanguardia artistica americana nel 1964, nella convinzione che il modo di vita americano stesse diventando universale e che gli artisti americani derivassero la loro forza dal fatto di essere i più vicini alla fonte. «Forse agli americani occorre più tempo per comprendere l’importanza dell’arte americana recente», disse allora. «E un po’ come il padre il cui figlio è diventato un grande scienziato, per un po’ stenta a crederci. I vostri critici più influenti si scandalizzarono quando apparve Lichtenstein, ma i musei di Amsterdam, di Stoccolma, di Londra acquistarono queste opere al loro primo apparire. E voi farete lo stesso. La maggior parte dei musei americani non possiedono opere importanti di Johns e di Rauschenberg, ricordatelo, ma le compreranno, e i prezzi continueranno a salire. Ritengo che siamo ancora ben lontani dall’aver raggiunto i prezzi massimi per Johns e Rauschenberg». Quando un dipinto di Johns intitolato «According to What» nel 1978 fu venduto a un collezionista americano per seicentomila dollari, Ludwig, che afferma di essere povero secondo lo standard americano, non fu affatto sorpreso.
Castelli e Ileana Sonnabend non aprirono il mercato europeo all’arte americana da soli, come qualche volta si è suggerito. La mostra della nuova pittura americana organizzata da Dorothy Miller per il Museum of Modern Art e che girò in otto paesi europei nel 1958 e nel 1959 ebbe un impatto enorme. Per molti giovani artisti europei la mostra dimostrò che New York si era sostituita a Parigi come centro catalizzatore di nuove energie, e i nuovi dipinti e le nuove sculture americane erano destinati a trovare compratori in Europa. L’arte americana godette anche del sostegno entusiastico dei critici e dei galleristi europei. Tuttavia, Castelli a New York e Ileana Sonnabend a Parigi fecero certamente di più che ogni altro gallerista per favorire questo orientamento.
Nel 1962, l’anno in cui Ileana, ora signora Sonnabend, aprì la sua galleria a Parigi, Castelli aveva aiutato Rauschenberg a esporre a Parigi nella galleria Daniel Cordier. Castelli pagò tutte le spese di spedizione e di assicurazione e rinunciò alla sua percentuale sulle vendite (non ve ne furono). Le prime mostre di Johns, Rauschenberg, Stella, Lichtenstein e di altri artisti di Castelli nella galleria Sonnabend a Parigi furono degli avvenimenti straordinari. «I visitatori erano sconvolti ma entusiasti», ricorda Ileana Sonnabend, «la galleria era sempre piena di gente». Ileana organizzò il proseguimento di queste mostre in altri paesi europei, nelle friendly galleries di Milano, Torino, Roma, Zurigo, Monaco, Amburgo, Colonia. Una conseguenza fu che Rauschenberg divenne l’idolo dei giovani artisti di quei paesi. La sua fama europea era già immensa all’epoca della Biennale del 1964, e non fu una sorpresa, per gli artisti europei, il suo premio per la pittura.
Ciò che Sidney Janis non aveva fatto per gli espressionisti astratti (furono i primi artisti americani di risonanza mondiale, eppure le loro opere non vennero mai esposte nelle gallerie europee fino agli inizi degli anni Cinquanta), Castelli e la Sonnabend lo fecero per Rauschenberg, per Johns, per la Pop Art e successivamente per gli artisti minimali. Castelli rese disponibili le loro opere alla Sonnabend alle condizioni più favorevoli, a «condizioni rovinose», come le definì Ivan Karp. Castelli era disposto a rimetterci purché i suoi artisti fossero visti in Europa. La sua fede era lungimiranza commerciale: il più grosso cliente di Castelli è stato Ludwig. Negli Stati Uniti la rete di gallerie amiche partì dalla galleria Virginia Dwan a Los Angeles quando, all’inizio degli anni Sessanta, Castelli e altri ritenevano che Los Angeles sarebbe diventata un importante centro dell’arte moderna.
Los Angeles non mantenne pienamente le proprie promesse per una serie di ragioni: scarsità di grandi collezionisti, insufficiente supporto da parte del museo locale e l’ingresso nel Pasadena Art Museum di Norton Simon. In ogni caso Castelli è normalmente in contatto con la Margo Leavin Gallery, con le James Corcoran Galleries e con la Ace Gallery di Los Angeles; con John Berggruen a San Francisco; con Ronald Green-berg a St. Louis; con Janie C. Lee a Houston; con Young-Hoffman a Chicago e con la Sable-Castelli Gallery di Toronto. Molte di queste gallerie hanno generato e continuano ad allevare degli importanti collezionisti di arte avanzata, ricchi compratori che non pensano più che per avere il meglio occorra andare a New York. Castelli, infatti, ha fatto moltissimo per decentrare il mercato dell’arte, e, come al solito, le cose si sono risolte in suo vantaggio.
Dopo aver cambiato rotta per aiutare i mercanti di quelle che egli definisce «le province», ora egli partecipa dei benefici del loro successo. «Egli ha l’incredibile capacità di mettere d’accordo persone e situazioni», ha detto Irving Blum, direttore della Blum-Helman Gallery di New York, «Sembra sempre che egli dia moltissimo, ma poi ci accorgiamo che è stato furbissimo e che è ampiamente ricompensato quando le cose diventano difficili. Tutte quelle gallerie satelliti sono disposte a fare dei sacrifici per lui poiché egli ha fatto tanto per loro». Un altro mercante newyorchese, Robert Elkon, ha osservato: «Leo è il Metternich del mondo dell’arte. Egli pensa quattro o cinque mosse, come un buon giocatore di scacchi, e le loro conseguenze diventano chiare soltanto in un secondo tempo».
Negli ultimi anni Castelli ha allargato le sue operazioni a un ritmo da capogiro. Nel 1971 aprì una grande galleria nuova al 420 di West Broadway, a Soho, che da allora è diventata il nuovo ghetto artistico della città, e nel febbraio del 1979 ha inaugurato uno spettacoloso annesso al 142 di Greene Street, due isolati a est. L’edificio in Green Street era destinato soprattutto a magazzino, ma Castelli s’innamorò delle proporzioni del grande locale a pianterreno (291 metri di lunghezza per 110 di larghezza) e finì con il mettere una bella fetta dei profitti accumulati dalla galleria nel 1979 per rifare il pavimento e per trasformare lo spazio in una semplice sala di esposizione per dipinti e sculture troppo grandi per essere esposti al 420 di West Broadway. Nel frattempo, il numero 4 della settantasettesima strada è diventato la sede di Castelli Graphics, una galleria di stampe e fotografie gestita dalla moglie di Castelli.
Durante questo periodo la galleria Castelli si è assicurata un certo numero di nuovi artisti, alcuni dei quali già affermati, come Claes Oldenburg e Ellsworth Kelly (entrambi provenienti da Janis) e altri relativamente sconosciuti. La sensazione generale che serpeggia nel mondo dell’arte è che gli anni Settanta non hanno prodotto nessun nuovo artista di grande statura, e la scuderia di Castelli ne è il riflesso: non ha esposto in quegli anni opere di nessuno che non avesse già attratto la sua attenzione prima del 1971. Dei trentadue artisti allora rappresentati dalla galleria di Soho, quindici erano minimalisti o concettuali. Castelli ha guardato e ha restituito i foto-(o super-) realisti, che dipingevano quadri che somigliano esattamente agli ingrandimenti delle fotografie volutamente banali sulle quali sono basati. Ivan Karp, che lasciò Castelli nel 1969 e che nell’autunno dello stesso anno aprì una sua galleria (la O.K. Harris) a Soho, promosse il movimento che egli decise di chiamare iperrealismo, fra le altre cose, e ha fatto benissimo, ma, secondo Castelli «il super-realismo sembrava soltanto una derivazione della pop art e non un suo superamento». Di nuovo, come all’inizio della sua attività di gallerista, egli espone numerosi artisti europei, fra i quali la tedesca Hanne Darboven e l’olandese Jan Dibbets.
Alcuni americani che lavorano per la galleria ritengono che ciò dipenda dalle pressioni di Konrad Fischer e di Gian Enzo Sperone, con galleria rispettivamente a Dùsseldorf e Torino (quindi a Roma), che hanno rappresentato numerosi artisti di Castelli e probabilmente pensato che il sistema dovesse funzionare nelle due direzioni. Sebbene negli anni Settanta, diversamente che nei Sessanta, non si siano rivelate grandi stelle nel firmamento artistico, l’attività artistica è stata intensa, e New York è restato il centro di energia dell’attività artistica. Tuttavia, grazie in buona parte alle fatiche di Castelli e di pochi altri nell’opera di proselitismo, l’arte contemporanea è diventata veramente internazionale e pluralistica, con un libero scambio fra numerosi mercati. Castelli, nel frattempo, è diventato anche lui un personaggio pubblico come i suoi artisti più famosi. E apparso più volte alla televisione americana, è stato presentato in un documentario televisivo italiano sul mondo dell’arte prodotto da Gianfranco Gorgoni.
Ha ricevuto, nel 1976 con altri artisti, scrittori, attori e illustri cittadini di New York, il primo Award of Honor for Arts and Culture e nella primavera del 1980 il primo Manhattan Cultural Award prize assegnatogli per «il suo notevole contributo al Municipio di Manhattan» come «forza importante fin dal 1957 nello sviluppo della pittura americana contemporanea» e per aver «scoperto e incoraggiato un’intera generazione di artisti». Incoraggiato da simili lodi, forse, e anche dal boom di vendite, Castelli commise a uno dei suoi artisti, Richard Serra, un’opera di scultura pubblica. In questi ultimi anni sono state commissionate in numero crescente, da organi federali, statali, agenzie civiche e società private di tutto il paese, grandi opere di scultura per gli spazi pubblici. Serra, che era stato invitato a partecipare al progetto di uno spazio pubblico a Washington D.C. dalla Pennsylvania Avenue Development Corporation, abbandonò il gruppo di progettazione composto di tre uomini per divergenze di idee circa la realizzazione del progetto. Successivamente egli espresse il desiderio di fare qualcosa di grande a New York e Castelli, il cui più gran piacere è di far fare ai suoi artisti quello che essi desiderano, un po’ avventata mente acconsentì a finanziare egli stesso l’opera.
L’arco di acciaio CorTen è stato elevato nell’aprile del 1980 presso l’ingresso dell’Holland Tunnel in Lower Manhattan. Gli amici di Castelli si domandano sovente perché egli continui ad espandersi. Egli potrebbe guadagnare molto di più occupandosi esclusivamente dell’opera degli artisti che l’hanno reso famoso. «Leo ha rinunciato all’opportunità di ricomprare opere di Lichtenstein, di Kelly, di altri suoi artisti e sulle quali avrebbe potuto realizzare dei grandi profitti», ha affermato Irving Blum, che si era specializzato in questo genere di mercato «secondario» comprando e rivendendo arte contemporanea. «Non ha mai il denaro per farlo. Non ha neppure una grande collezione personale. La mia collezione di opere di artisti di Leo è almeno equivalente alla sua».
Tony Castelli ha detto che non avrebbero nessuna collezione, a parte opere come «Bed» e «Target with Plaster Casts», se non avesse insistito a comprare lei qualche opera, molte delle quali ora appartengono al loro figlio ventenne, Jean-Christophe. Man mano che Castelli invecchia (ora ha settantasette anni), la sua dedizione alla galleria non cessa. Fissa più appuntamenti di quanti non ne possa rispettare, è sempre con mezz’ora di ritardo. Il suo entusiasmo sovente supera le sue sia pur eccezionali energie.
Qualche anno fa, durante una cena, Castelli si sentì improvvisamente male e dovette esser portato di corsa all’ospedale. Non si trattava di un attacco cardiaco, come molti dottori presenti avevano dapprima temuto; per anni egli aveva avuto un polso eccezionalmente lento, e quella notte il suo cuore aveva appunto perso un paio di colpi. Dopo l’installazione di un pacemaker, e una breve pausa di convalescenza, Castelli ricominciò come prima. Era persino riuscito a ottenere un telefono sul comodino quand’era nell’unità di cura intensiva dopo l’operazione, per poter parlare con Susan Brundage, la sua prima assistente in galleria, e pochi giorni dopo aver lasciato l’ospedale disse a Blum che aveva più energie di prima. «Oh, Dio mio!», esclamò Blum inorridito.
È evidente che neppure Castelli ha intenzione di rallentare il suo ritmo. «Il grande merito di Leo è quello di non fermarsi mai», ha detto non molto tempo fa Ileana Sonnabend, «Egli ha conservato la freschezza e l’entusiasmo dell’inizio. Una volta ho detto a Leo, “Sai, tu e io siamo sempre dei ragazzi!”. Leo rise di cuore. “È vero”, disse, “ma lo sappiamo soltanto tu e io”».