Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
I passaggi di un incontro segnato dal destino, sin dall’infanzia. La folgorazione per la scoperta della scrittura di Artur Rimbaud. Una sfida inaffrontabile: “Ho letto e ammirato molti altri scrittori, ma nessuno è stato Rimbaud, che è rimasto un ammonimento perpetuo, un doloroso ricordo costante del mio fallimento, il suo diciannovesimo secolo di vita, calendario del secolo che si prende gioco degli anni della mia vita”
Ho letto il libro lentamente, in parte perché era denso e in parte perché volevo farmi vedere mentre lo leggevo. Ho indossato il libro tanto quanto l’ho letto, tenendolo “distrattamente” in una mano per strada anche quando portavo una borsa di libri nell’altra, parcheggiandolo “casualmente” sopra il mio taccuino accanto alla mia tazza di caffè ovunque mi sedessi. La mostravo con orgoglio in metropolitana, da Nedick’s e Chock full o’Nuts e all’Automat, nelle caffetterie del quartiere degli abiti, al chiosco dei succhi di frutta nel passaggio dall’IRT alla navetta alla Grand Central Station, nel vagone bar dell’espresso delle 5:30 per tornare a casa (senza bere ma cercando di superare tutti), forse una o due volte in una discarica di St. Mark’s Place che pubblicizzava il gelato Acapulco Gold.
Allora non c’erano magliette, ma io identificavo il mio marchio in modo analogo. Rimbaud, morto da ottant’anni, stava vivendo una delle sue tante rinascite. La biografia di Starkie, pubblicata per la prima volta nel 1938, era appena uscita in brossura (insieme alla sua compagna di libreria, la traduzione di Louise Varèse delle sue opere). Il suo nome veniva tirato in ballo in tutti i modi, ad esempio nelle interviste con le pop star: mi sentivo un po’ padrona di me stessa, come se lo possedessi e mi stessero invadendo. E poi c’era quel volto, naturalmente, il dettaglio della tela “Coin de Table” di Fantin-Latour in copertina e la (seconda) fotografia di Carjat all’interno, che corrispondeva all’opera e alla vita e sembrava assolutamente contemporanea. Nella prima è forse un po’ un cherubino convenzionale, ma nella seconda è elettrico, con le fiamme negli occhi chiari. Era il più alla moda di chiunque altro.
Ma se nella pienezza della mia fantasia adolescenziale sentivo di dover essere nominato un successore di Rimbaud – sulla base di alcuni dettagli biografici semplicemente condivisi da diverse migliaia di persone -, nella maggior parte dei casi Rimbaud si presentava come un rimprovero alla mia codardia e alla mia mediocrità. Sì, mi sono riconosciuto in vari aspetti della sua vita. In parte questo è stato il risultato di un’immersione infantile nel cattolicesimo, subito abbandonato nella pubertà e seguito da una ricerca di ciò che immaginavo fosse il suo contrario. Mi piaceva pensare di essere pericoloso e terribile, anche se il taccheggio, il fumo dell’erba, l’assenteismo e la masturbazione che se avessi saputo fare tutto quello che potevo in questo senso, non avrei impressionato nessuno, se non la mia povera madre instabile.
Mi piaceva pensare di essere illuminato, ma mentre potevo generare grandi nuvole di fumo, immaginando come sarebbero state le mie opere sulla pagina e come sarebbero state accolte, non riuscivo a scrivere davvero ciò che immaginavo. Mi piaceva pensare che anch’io avrei potuto manifestare il mio genio con una rapida serie di schiaffi e poi lasciare la stanza all’improvviso per non tornare mai più, lasciando sul ghiaccio amici traditi e sicofanti piangenti, scartando la poesia e la cultura e la civiltà come una lunga cenere su una sigaretta, ma non potevo certo andarmene senza prima essere entrato.
La mia scrittura era patetica e Rimbaud era inaffrontabile. Era un cambiante, un alieno. Più mi addentravo in Rimbaud e meno riuscivo a vederlo o a metterlo in carne e ossa. Mi sembrava di individuare in me aspetti corrispondenti ad alcune parti di lui che credevo di capire, ma erano elementi di superficie. Non era come un idolo convenzionale, che in privato si rivela sempre spregevole, e anche se aveva la mia età non riuscivo a trasformarlo in un rivale di scuola da ridurre in lacrime.
Avevo commesso un grave errore scegliendo Rimbaud come modello: non era nemmeno divisibile in parti; non si poteva essere un mezzo Rimbaud. L’alternativa all’essere Rimbaud era non essere nulla. Se invece avessi scelto qualcuno come Jack Kerouac, non avrei avuto problemi – potevo vedere lui fin troppo facilmente, ridere delle sue nevrosi, inchiodare tutte le sue stupidità senza sforzo – ma questo era esattamente il motivo per cui non avevo scelto Jack Kerouac. Ho letto e ammirato molti altri scrittori, ma nessuno è stato Rimbaud, che è rimasto un ammonimento perpetuo, un doloroso ricordo costante del mio fallimento, il suo diciannovesimo secolo di vita, calendario del secolo che si prende gioco degli anni della mia vita.