Capsule Digitale

A Companion of the Prophet (Vol. 4/4)

I passaggi di un incontro segnato dal destino, sin dall’infanzia. La folgorazione per la scoperta della scrittura di Artur Rimbaud. Una sfida inaffrontabile: “Ho letto e ammirato molti altri scrittori, ma nessuno è stato Rimbaud, che è rimasto un ammonimento perpetuo, un doloroso ricordo costante del mio fallimento, il suo diciannovesimo secolo di vita, calendario del secolo che si prende gioco degli anni della mia vita”

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La casa natale de Rimbaud. Cartolina postale viaggiata, 1951. Rue Thiers, Charleville -Mézières, Ardennes (F). Casa natale di Artur Rimbaud.

 

Ho smesso di scrivere poesie quando l’ha fatto lui, a 21 anni – anche se solo ora mi sono reso conto della coincidenza – ma i parallelismi cronologici finiscono qui. Lui lasciò la Francia, io rimasi a New York; lui andò ad Aden, io mi trasferii in centro; lui andò ad Harar, io iniziai a scrivere per delle riviste; lui tornò a casa per morire, io pubblicai il mio primo libro.

Rimbaud è morto da tredici anni, o 113 secondo i calcoli degli altri. Ho letto tutto ciò che ha scritto più volte, alcune volte anche più volte, e ho la sensazione di essere ancora lontano dall’averne capito molto, in particolare le “Illuminations”. Sono stato nella sua casa di Charleville-Mézières e nel museo dall’altra parte della strada, e ho pensato che forse avrei dovuto farlo da adolescente, perché mentre i manufatti sono terribilmente commoventi, il modo in cui i francesi istituzionalizzano i loro artisti morti è un meraviglioso antidoto omeopatico al culto dell’eroe. Charleville è piena di cianfrusaglie su Rimbaud, e in periferia si trova qua e là un paesaggio sterile attraversato da una Rue Arthur-Rimbaud o un progetto abitativo con un’immensa gigantografia della fotografia di Carjat sul muro del cortile interno, e i politici lo citano nei loro discorsi, e i presentatori televisivi lo citano come se fosse stato un gufo impagliato dell’Accademia piuttosto che qualcuno che avrebbe fatto chiamare la polizia. Se fossi stato un bambino in Francia mi avrebbero fatto imparare a memoria “Le dormeur du val” e la cosa sarebbe finita lì. Non avrei prestato attenzione alla poesia e non avrei voluto più sentir parlare di Rimbaud.

Oggi posso rileggere la biografia di Starkie, con lui doppiamente sepolto, e non ho più la sensazione di dover mettere giù il libro a un certo punto e andare a mettere della musica e a pensare intensamente a qualcos’altro, perché ormai la gara è finita. Il nostro parallelo è stato spezzato dal tempo e dalle circostanze. Posso contemplare in tutta tranquillità quanto fossi selvaggiamente superiore a loro. Rimbaud, lo vedo ora, non è mai stato un bambino, o almeno non è mai stato un poeta bambino. A quattordici anni scrisse un verso latino in cui Febo scende dal cielo per scrivere “TU VATES ERIS” (tu sarai un poeta) sulla fronte, ma era solo al servizio della convenzione retorica.

I poeti bambini sono costituiti o da umide emozioni o da vuoti sfoggi tecnici e, se mai riusciranno a fare qualcosa, con la maturità si sporgeranno lentamente e si aggrapperanno all’altro ramo. Rimbaud è arrivato completamente equipaggiato. E Rimbaud non ha mai avuto un Rimbaud. Ha ucciso i suoi idoli. Ha ingoiato le sue influenze, le ha imitate migliorando il loro lavoro e, se erano ancora vivi, ha fatto in modo di sbattergli in faccia il fatto che era più bravo di loro a essere loro.

Ho conosciuto un paio di persone che mi hanno ricordato, in un modo o nell’altro, come doveva essere Rimbaud, tra cui il pittore Jean-Michel Basquiat, che ben prima di diventare famoso sembrava vivere su un piano parallelo, così assorbito dalla sua arte e dalle sue esigenze che, come un missile a ricerca di calore, vaporizzava allegramente e apparentemente inconsapevolmente tutto ciò che si frapponeva tra lui e il suo obiettivo. Rimbaud in carne e ossa, lo vedo ora, era un parassita moccioso che parlava in fretta con una lagna irritante, che prendeva in giro tutti i presenti e sapeva che nessuno poteva rispondere o colpirlo senza perdere la faccia, che veniva a casa tua e mangiava tutto quello che c’era nel frigo prima di sparire all’improvviso e che si rifaceva vivo solo quando tu avevi qualcosa che lui voleva.

Probabilmente bisognava essere innamorati di lui per poterlo tollerare a lungo. Oltre a non avere il suo genio, non avrei mai potuto essere come lui. Da adolescente ero costruito interamente sul dubbio, per lo più sul dubbio stesso, e oggi non sono molto diverso. Sono più grande, più lento e più vecchio di Rimbaud, anche se tecnicamente ho un secolo in meno. Essendogli sopravvissuto, mi sento come uno di quei compagni del profeta, quegli amici dei giovani brillanti morti che passano il resto della loro vita a rivendere i loro aneddoti e a testimoniare nei documentari. Mi ricordo di Rimbaud, di tutte quelle notti di ubriachezza, dirò, guardando malinconicamente fuori campo. E mi renderò conto in silenzio, non senza rancore, che ora, finalmente, posso domarlo.

2004