Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Un dialogo denso di implicazioni sul linguaggio svela i tratti della complessa natura dell’opera del poeta* di Pieve di Soligo
[Hans Ulrich Obrist] Per cominciare dall’inizio. Ho letto che lei scriveva già prima di iniziare la scuola elementare. Come è iniziato tutto, come è nata la poesia o come si è avvicinata alla poesia?
[Andrea Zanzotto] Poco tempo fa mi è capitato in mano un vecchio diario, in cui mio padre Giovanni annotava, il 23 giugno 1933: «Andrea mi dedica la sua prima poesia. ‘Sta Venezia solenne. 1 lira di mancia». Avevo 12 anni. Ma già all’età di sette anni avevo iniziato a, diciamo, collaudare la realtà attraverso la poesia… In realtà è anche ben prima che prese forma la più antica idea di poesia di cui conservo il ricordo: da una percezione del mio nido solighese come di un materno rifugio («cui gl’insoliti / fiumi cingono il grembo», scrivevo in Dietro il paesaggio) e, indissolubilmente, come di una dimensione di straordinaria bellezza, degna di lode. Quel nido si chiamava Cal Santa. Era una contrada addossata alla via in cui abitavo con la mia famiglia, che conduceva all’Istituto di Maria Bambina, da me frequentato fin dai primi anni Venti, gestito da una comunità di suore ispirate all’’avveniristico’ metodo Montessori. Era una contrada brulicante di voci e di presenze quasi numinose: vi abitavano la nonna, la zia Maria, il Toni-oci «basso e nero / ma con gli occhi di fatato ghiaccio», la Neta, «altissima in nero», la Pina che vendeva giornali, e altri ‘personaggi’ di cui ho parlato in varie mie opere.
Ricordo come gli abitanti di quel mondo da fiaba, ormai scomparso, sedessero d’estate lungo la Cal Santa improvvisando filò all’aperto; e come quel dialetto, correntemente parlato dai suoi abitanti, agisse in me come una sorta di vera e propria ‘droga fonica’, mescolando tra loro i diversi idiomi con cui mi trovavo a venire a contatto: il toscano illustre dei poemi del Tasso e dell’Ariosto, per esempio, di cui mia nonna mi recitava larghi frammenti a memoria specificando che si trattava, proprio, di poesia. A quei versi, la nonna era solita alternare filastrocche per bambini e i frammenti di un tedesco minimo, da lei appreso lavorando come domestica a Vienna. La Zia Maria, da parte sua, era solita stupire il suo uditorio elargendo sentenze in un latino pseudomaccheronico, simile al latino ecclesiastico storpiato dalla fertile ignoranza delle donnette; da lei ho ereditato la passione per la lettura di settimanali e di giornaletti quali il «Corrierino». A casa, poi, era facile imbattersi nella lingua francese, perché mio padre aveva vissuto, da emigrante, in varie città francesi. È in questa atmosfera dolce, pullulante di voci e di ritmi che si insinuò precocemente in me un desiderio di espressione, di un’armoniosa espressione…
[HUO] Lei ha spesso citato Dante, Petrarca e Holderlin come influenze fondamentali. Può dirci cosa l’ha ispirata e se ci sono scrittori del XX secolo che l’hanno ispirata.
[AZ] “Nessun diritto è riservato: / magari da me si copiasse / tanto quanto dagli altri ho copiato”: sono le parole da me inserite, come colophon, in chiusura de Gli Sguardi i Fatti e Senhal. È difficile ricordare singolarmente tutti gli scrittori della tradizione italiana ed europea che hanno contribuito alla mia formazione. Certamente i grandi classici hanno un posto di assoluto rilievo nella mia formazione, nella mia poesia: Dante, in primo luogo, da cui ho appreso il binomio infanzia-resistenza del fatto poetico; e Petrarca, che mi ha insegnato quanto la poesia possa costituire un potere alternativo, non meno imponente di quello politico. Di Hölderlin, invece, ho ammirato il senso di rifugio connesso alla terra natale, alla heimat; e l’associazione poesia-follia. Per quanto riguarda il Novecento, considero Ungaretti e Montale due veri padri, anche se molto diversi l’uno dall’altro. Entrambi, con Quasimodo, Sinisgalli e Sereni, avevano partecipato alla Giuria del Premio San Babila Inediti in cui nel 1951 mi classificai al primo posto, aggiudicandomi la possibilità di pubblicare Dietro il paesaggio. Ungaretti, addirittura, mi ha presentato al Convegno di San Pellegrino Terme, nel 1954. Ne è nata una lunga, intensa amicizia. Con Montale, invece, troppo forte era la sensazione di… rispetto, perché il nostro rapporto riuscisse a trasformarsi in una relazione di amicizia quale quella che intrattenevo con Ungaretti. Avevano due personalità diverse, quasi opposte: allegro e estroverso, Ungaretti; chiuso, concentrato, Montale. Entrambi, comunque, sono stati molto generosi con me, dedicando alla mia poesia alcune pagine straordinarie di critica. Montale ha presentato, addirittura, La beltà, nel 1968, a Milano. A Roma, La beltà fu presentata dallo stesso Pasolini – altro grande ‘fratello’, e maestro, per quanto riguarda il suo amore per la poesia dialettale. Era una personalità talmente ricca, con repentini slittamenti tra uno stato e l’altro… Tra gli autori dell’Ermetismo, invece, mi interessava certamente Alfonso Gatto, che consideravo straordinario. Luzi, invece, lo vedevo come un termine di confronto… obbligato, per così dire. E poi dovrei ricordare Diego Valeri… Nel 1939 era diventato ordinario di Lingua e letteratura francese presso l’Università di Padova, e io ricordo ancora le lezioni da lui tenute su Baudelaire e sul Simbolismo francese, seguite con vera passione da noi studenti…
[HUO] Ungaretti diceva che tutto è MEMORIA. Cosa ha imparato da Ungaretti?
[AZ] Ungaretti, più che altro, mi interessava per la sua… immediatezza nel descrivere le violente sensazioni vissute in trincea. Si trattava di una immediatezza… mediata, per così dire: perché era metodicamente ricercata, ritrovata al termine di un lungo e travagliato tragitto espressivo, a prezzo di molti rifacimenti. Ma il risultato finale era affascinante, tanto da far dimenticare la stessa lunga storia di quella poesia, la stratificata memoria di quella immediatezza, così sapientemente coltivata. Di Ungaretti ammiravo, poi, la capacità di cambiare, senza particolari sforzi, almeno in apparenza. Anche in Montale avvertivo la tendenza al cambiamento, ma… tenuta a freno, diciamo. Per Ungaretti si poteva parlare di una sorta di ermetismo, per così dire… allo stato brado: la sua era una ricerca condotta in profondità, ma tutta risolta su una superficie. L’apparato di varianti ungarettiane testimonia questo espandersi orizzontale, questo dissiparsi d! el vissuto in linguaggio. La poesia di Montale, invece, era… tutta scavata, estesa in profondità…
[HUO] Hai anche detto di aver trascurato Boccaccio e la sua capacità di immergersi nella realtà.
[AZ] Qualcosa di boccaccesco, a dire il vero, è rinvenibile qua e là, tra i miei versi; in particolare, a partire dalla Beltà. Ma ritengo che il tipo di ironia riscontrabile nella mia produzione poetica abbia radici molto diverse: che sia molto meno immediatamente… sprofondata nella realtà, ecco. Radicata in essa, certo, ma pur sempre tesa a superare, a trascendere il ristretto orizzonte della fisicità.
[HUO] Ho letto il suo libro Mondadori Le Poesie e Prose Scelte. Inizia con i suoi Versi giovanili dal 38 al 42. Poi il suo catalogo ragionato della poesia inizia con Dietro il Passaggio. Ci può parlare dell’epifania di Dietro il passaggio?Quali sono, secondo lei, altri momenti di epifania nella sua opera? Che cosa ha scatenato la trilogia visionaria Il Galateo in Bosco, Fosfeni e Idioma?
[AZ] Era il 1949, il giorno dell’Epifania, e mi sono recato a Venezia. Ne è nato il titolo di una poesia (successivamente inserita in Vocativo) che mi pare… abbastanza riuscita, e che proiettava su certi punti del paesaggio una proliferante ricchezza di sensazioni, come una sorta di corrente elettrica che riuscisse miracolosamente ad animare quanto mi stava attorno. Me ne stupisco ancor oggi, quando la rileggo. E mi capita di avvertire, con vero stupore, l’enorme differenza che intercorre tra quel mio antico modo di far poesia e quello più recente. Così come la differenza tra un libro e l’altro. Possiamo anzi ritenere che ogni nuovo libro, per quanto ci appare nuovo, qualcosa di veramente… nuovo riesca a presentare. Ecco: in questo particolare senso, ogni mio libro ha rappresentato, per me, una vera e propria epifania, un manifestarsi, cioè, in modi mai del tutto previsti, e comunque razionalizzabili soltanto a posteriori, dell’evento poetico. A questo proposito, Agamben ha scritto un paio di saggi sulla mia poesia, rivelandone una dimensione sottilmente religiosa, che può essere rapportata a questo elemento epifanico, incommensurabile. E in effetti, ogni volta che leggo lo scritto di un qualche critico dedicatosi alla mia poesia, mi capita di sorprendermi di fronte ad alcuni fatti (citazioni nascoste, avvicinamenti improbabili…) da me del tutto imprevisti. O previsti, magari, ma non in quei precisi termini in cui mi vengono, ogni volta, presentati.