Capsule Digitale

Andrea Zanzotto (Vol. 2/6)

Un dialogo denso di implicazioni sul linguaggio svela i tratti della complessa natura dell’opera del poeta* di Pieve di Soligo

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Andrea Zanzotto ritratto da Pier Paolo Pasolini nel 1974

La beltà

[Hans Ulrich Obrist]  Lei ha trascorso molti anni a studiare i classici. Può parlarci di questo e se l’invenzione del futuro si basa su frammenti del passato? Gli anni ’60 sono stati un periodo di grande sperimentazione. Come mostra Kaplan nel suo libro 1959, tutto era stato preparato alla fine degli anni ’50. Può parlarci degli anni ’50 e ’60 e della sperimentazione degli anni ’60 a La Beltà?

[Andrea Zanzotto]  Io ho sempre accettato implicitamene l’idea di sperimentalismo. Pur avendo sempre davanti modelli classici, irrinunciabile luce ed enigma, non ho mai creduto a una poesia… immobile. Ma contrariamente alle proposte rappresentate dai vari sperimentalismi che andavano diffondendosi a partire dalla metà degli anni ’50, e che erano volti programmaticamente al tagliare i ponti con il passato (penso soprattutto ai Novissimi esorditi nel 1961), io cercavo di percorrere quella strada che conduce all’innovazione senza dimenticare i traguardi espressivi che ero riuscito a raggiungere fino a quel momento. Voglio dire che il tipo di operazione da me compiuta con La beltà si riallacciava a tensioni attive fin dall’epoca della composizione del mio primo libro: tensioni alla sperimentazione profondamente radicate in un mio stato d’animo particolare, psichicamente… necessitate, per così dire. Pensavo, poi, che non si dovesse dimenticare la lezione costituita dai grandi classici della tradizione lirica europea, da Dante e Petrarca a Leopardi, da Rimbaud a Hölderlin, da Pascoli e D’Annunzio a Campana, a Ungaretti, a Montale. Ognuno di essi, infatti, si era trovato, a modo suo, a dover fare i conti con un certo affiorare dell’impronunciabilità del reale in un dato momento storico. E ognuno aveva significato moltissimo per me. Per quanto riguarda in particolare gli anni ‘60, si trattava, primariamente, di contrastare la mistificazione compiuta dal linguaggio pubblicitario per l’enorme diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, che era giunta a contaminare ogni aspetto della vita umana, a partire dalla stessa età infantile, come ho sarcasticamente annotato in epigrafe a una delle liriche di apertura della Beltà:

“Ti piace essere venuto a questo mondo?” Bamb.: “Sì, perché c’è la STANDA”.

A costringere la poesia al silenzio, poi, erano gli esiti distruttivi dell’evoluzione scientifica: quelli che avevano generato l’orrore, ancora ben vivo, dei forni crematori nazisti («tutto arbusto horeb il mondo ardeva», in un luogo della Beltà) così come la bomba atomica, seguita da quella termonucleare (di cui si andava testando il potere distruttivo nell’atollo di Bikini, forse ancor oggi inabitabile per la presenza di radiazioni) e da quella al napalm, utilizzata nella guerra del Vietnam («Napalm dietro il paesaggio», suona un altro verso della Beltà). In Italia, il disastro ecologico era un effetto del boom economico, che aveva incrementato enormemente la diffusione delle aree industriali a scapito dell’antico paesaggio, decretandovi la scomparsa del mondo dialettale (che proprio nella Beltà, per la prima volta, si affacciava timidamente attraverso le parole di mia nonna, nell’Elegia in petèl: «Mama e nona te dà ate e cuco e pepi e memela»…).

Elaborando il mio discorso in un linguaggio fortemente radicato in quello lirico tradizionale, ma piegato alle nuove necessità tematiche, in alcuni casi addirittura distorto, e per di più disarticolato in modo da imitare il ritmo del balbettamento infantile, mi sono accorto che potevo esprimere, a un tempo, sia la difficoltà della poesia lirica (cioè della poesia dell’io, di un io profondamente traumatizzato dagli sconvolgimenti storici che ho brevemente ricordato) al significare quella realtà, sia la necessità, per il poeta, di scommettere su una parola in grado di salvare per lo meno la parvenza di qualcosa di umano: almeno l’ombra di ciò che siamo stati nei secoli, nel momento in cui persino la sacralità dell’«umbra fuimus» risultava mercificata, degradata a «fumo», a «fumetto»…

Per me si trattava, in definitiva, di tendere al miraggio di una parola posta sempre «più in là» delle possibilità di espressione che ci venivano storicamente concesse. Eppure, in quella parola a noi violentemente sottratta, in quella parola ancora a venire, bisognava continuare a credere, anche se con la coscienza della vanità della nostra operazione. Come riuscire a salvare, infatti, attraverso il linguaggio, qualcosa di un mondo ormai interamente sommerso dal linguaggio mistificato? Forse alla maniera del Barone di Münchhausen, che si toglieva dalla palude tirandosi per i capelli…

Mondo, sii, e buono;

esisti buonamente,

fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,

[…]

Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere

e oltre tutte le preposizioni note e ignote,

abbi qualche chance,

fa’ buonamente un po’;

il congegno abbia gioco.

Su, bello, su.

Su, Münchhausen

[HUO]   Quando ha deciso di scrivere in dialetto trevigiano? Edouard Glissant mi diceva spesso che le forze omogeneizzanti mettono in pericolo la diversità delle lingue. Diceva che in poesia è necessario un multilinguismo di molte lingue, parlava di un arcipelago.

…La politica del suo Paese l’ha influenzata? Le interessa la politica? E la situazione attuale in Italia?

[AZ]    Certo bisogna prima di tutto ricordare che i dialetti in Italia sono lingue… Il mio rapporto con il dialetto è stato inconsapevole, un dato naturale, appreso parlando in famiglia, nel gruppo, come si respira. Come dicevo, già nella Beltà affioravano brevi lacerti dialettali, nella forma, quasi, di un «ritorno del rimosso» attraverso cui il mio microcosmo personale, all’epoca in via di estinzione, riusciva a riaffiorare alla coscienza linguistica. Ho però iniziato a pubblicare veri e propri testi in dialetto a partire dal 1976. Federico Fellini, su consiglio di Nico Naldini (cugino di Pier Paolo Pasolini, che conoscevo dagli anni ’50) si era rivolto a me verso la metà degli anni ’70 per chiedermi di scrivere le parti in dialetto veneziano del suo Casanova. Ne sono nati il Recitativo veneziano e la Cantilena londinese, successivamente raccolti in Filò, che comprendeva principalmente un lungo poemetto in dialetto solighese che dava il titolo all’intera raccolta. Assecondavo in questo modo una tendenza in me da sempre ben viva, anche se repressa in zone oscurate dalla mia produzione in lingua italiana. Nel Filò (così come nella Nota ai testi che chiude il volume) ho per la prima volta diffusamente affrontato, tra gli altri temi, il motivo della connessione tra il dialetto e la dimensione materna-infantile. Ne parlavo in relazione alla condizione di «diglossia» in cui versa chi comunemente si esprime in dialetto, costretto, nel momento in cui decide di esprimersi in lingua italiana, a seppellire quel suo sostrato linguistico nelle profondità dell’inconscio. Il dialetto, ai miei occhi, risultava come una lingua materialmente connessa al territorio in cui veniva parlato: è attraverso il dialetto, infatti, che il «diglossico» aveva imparato a parlare, a collaudare la realtà a lui circostante. In esso si esprimevano secoli e secoli di una cultura legata alla terra: di quella cultura cui la lingua nazionale, sempre più massificata, imponeva il silenzio…

Poi nel Galateo, verso la fine degli anni ‘70 ho pubblicato varie poesie in dialetto, dedicandole ad alcuni esponenti del mio nido natale di Pieve di Soligo; ne sono nate le serie liriche dei Mistieròi e degli Onde éli, che ho poi inserito, insieme a altre liriche in dialetto solighese, nella sezione centrale di Idioma negli anni ’80.  In particolare, la serie degli Onde éli si ispirava al tòpos classico dell’ubi sunt, più volte riattualizzato nel corso della tradizione lirica occidentale, da François Villon a Edgar Lee Masters… Le brevi liriche vi si succedono come piccole lapidi, a testimonianza di un mondo estinto e dei suoi fantasiosi e fiabeschi abitanti… È con immensa tenerezza che li ricordo. Ed è con orrore che mi capita di assistere, in questi ultimi anni, alla nuova uccisione di quel mondo già defunto perpetrata da alcuni esponenti veneti del partito della Lega. Alcuni di essi, addirittura, mi considerano come un loro… precursore, per l’amore verso la mia terra che ho sempre testimoniato attraverso la mia opera. Come se non fosse esistita, in Italia, una lunghissima tradizione di poeti dialettali! Ma è impossibile parlare di queste cose, perché i leghisti sono dotati della ricettività di un alieno! Se di Berlusconi risulta impossibile parlare dal momento che si fa prima a buttarla in ridere, della Lega è impossibile parlare per la superficialità disarmante delle sue affermazioni…  Certo io dopo il periodo della guerra e le esperienze nella Resistenza, ho condiviso molte delle speranze del dopoguerra – anche se forse in un senso minoritario, perchè non condividevo certe illusioni ed ideologizzazioni che marcarono quegli anni, avendo io una visione ‘umanista’ che potrei forse avvicinare a quella di Ernst Bloch, che avevo anche conosciuto personalmente negli anni ’60… Insomma, alla luce di quelle lontane speranze, l’attuale appare una situazione ben penosa per il nostro Paese. Ma credo che nuove stagioni positive siano possibili, e che per esempio una più grande coesione dei Paesi europei possa avere un ruolo molto importante per questo.