Capsule Digitale

Andrea Zanzotto (Vol. 3/6)

Un dialogo denso di implicazioni sul linguaggio svela i tratti della complessa natura dell’opera del poeta* di Pieve di Soligo

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Andrea Zanzotto con il suo gatto nella sua casa di Pieve di Soligo

Il "piacere del principio"

[Hans Ulrich Obrist]  Oltre al dialetto si è anche legati al linguaggio infantile. Gilles Deleuze ha spesso sottolineato l’importanza del linguaggio minore e la libertà e la liberazione che vi ha trovato. In un testo su di lei scritto su Atopia ho letto che lei ha detto che la balbuzie e la poesia dell’infanzia sono una tensione verso l’essere, la crescita, l’espressione e la responsabilità.  Può dirmi qualcosa di più sull’importanza di questo aspetto?

 

[Andrea Zanzotto]  Con motivazioni diverse da quelle che animavano le ricerche di Roman Jakobson, spinto, cioè, dalle crisi depressive che mi inducevano, di tanto in tanto, a sottopormi a estenuanti terapie di natura psicanalitica, mi sono fin da giovane interessato alla dimensione dell’infanzia: in particolare, al fenomeno della lallazione infantile (pa… pa… pa…; ma… ma… ma…; ta… ta… ta…), cioè a quell’universale idioma condiviso da tutti i neonati al di qua e a prescindere da qualsiasi differenziazione di lingua e di etnia. Ero venuto a contatto, sul finire degli anni ‘50, con le teorie di Jacques Lacan, il quale attribuiva un fondamentale valore segnico, di richiamo, al vagito infantile, affermando, addirittura, che un vagito si colloca in sincronia con tutti i vagiti del mondo, facendo sistema con essi. Da parte mia, pensavo che occorresse anche sottolineare, di quel vagito, la risolutezza, la forza propria della domanda con cui il piccolo d’uomo reclama il diritto all’esistenza. Il vagito, secondo me, era il più evidente segno del piacere che l’essere ha di essere, nel momento del suo aprirsi alla vita: una sorta di «piacere del principio» posto al di qua del «principio di piacere» di freudiana memoria. Quelle sillabe ripetute costituivano, ai miei occhi, veri e propri nuclei di sopravvivenza e di resistenza, attraverso cui l’esperienza vitale dell’infans trapassava insensibilmente dal collaudo del reale nella lode della realtà. Resistenza, dunque, e lode, in quanto fondamentali esperienze della vita attraverso il linguaggio, rappresentano i poli tra i quali si sviluppa la mia esperienza della poesia. «Rühmen, das ists!» («Lodare è questo!») − scrive Rilke in un celebre sonetto; «Ein zum Rühmen Bestellter…» («Chiamato a lodare…»)…

[HUO]   Lei è cresciuto durante la guerra, suo padre fu costretto a lasciare il Paese perché antifascista. La politica del suo Paese l’ha influenzata?

[AZ]  Prima ricordavo gli aspetti dolci del mio passato; ma la mia infanzia ha dovuto fare i conti, altrettanto precocemente, con la «réalité rugueuse» del dolore. Ho sofferto lutti familiari pesantissimi, la morte delle mie sorelle gemelle Marina e Angela, nate nel 1923, e la conseguente prostrazione fisica e psicologica di mia madre; me ne venne un senso di provvisorietà spaventosa, un profondo senso di impotenza, di fragilità, di inappartenenza, che mi hanno indotto, fin da bambino, a immaginarmi prossimo alla morte. Mio padre era insegnante di disegno e artista appassionato. Aveva ottenuto il diploma dell’École Supérieure de Peinture di Bruxelles, dove si era specializzato nel trompe-l’oeil di legni e marmi, e si era poi diplomato professore di disegno nel 1913 presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Era pittore, dunque, e decoratore, come lo erano stati suo padre, suo nonno, e altri nostri avi. Era di idee socialiste e repubblicane, e antifascista dichiarato. Noi patimmo anni di vera e propria povertà quando, nonostante il suo passato di combattente nella grande guerra (era stato ufficiale nell’esercito), fu in vari momenti costretto all’esilio per trovare di che lavorare, essendogli stato vietato l’insegnamento nelle scuole pubbliche. Nel corso dei peripli in cui l’ho di tanto in tanto seguito, mi venivo a trovare in una sorta di libertà abbandonata a se stessa. E questa è una situazione che un giorno mi sono letteralmente trovata davanti in una famosissima poesia di Hölderlin: «Da ich ein Knabe war, / Rettet’ ein Gott mich oft / Vom Geschrei und der Ruthe der Menschen…» − «Quando ero fanciullo, sovente un dio mi trasse lontano dall’affanno e dai rumori inutili degli uomini». Il fanciullo-Hölderlin restava solo, tra i fiori e tra le piante, in attesa che si facessero sentire le voci di quelli che poi avvertiva come esseri immortali. Per questo motivo, nella mia poesia, il tema della natura si trova spesso connesso al tema del paesaggio boschivo e collinare come rifugio, luogo di pace e di silenzi, in cui il bambino hölderliniano può ritirarsi per non sentire il baccano stridente (e anche la frusta…) dell’uomo adulto. Ed è, ancora, per questo stesso motivo che in Dietro il paesaggio ho posto a epigrafe dell’intera sezione centrale, Sponda al sole, alcuni versi della lirica Die Heimat: «Ihr teuern Ufer, die mich erzogen einst» −«Voi sponde care, che m’educaste un giorno»… Tutte queste esperienze mi portavano a considerare la Cal Santa come il cuore pulsante del mio mondo: un mondo sprofondato in una natura pressoché incontaminata di cui ho visto, con immensa tristezza, la progressiva dissoluzione nel corso degli anni, causata da una vorace industrializzazione che ne ha stravolto l’originaria bellezza. L’ antica laboriosità e ingegnosità si sono trasformate in impulsi caotici e violenti, senza regole e che non sopportano nessuna regola… E il fondamentalismo globalista non fa che spingere sull’acceleratore di tutti questi processi già di per se stessi fuori binario, che fanno tabula rasa di tutto quel che li precedeva.

Pochissimi si oppongono, senza successo. Anche io in anni recenti sono stato coinvolto in varie polemiche nel tentativo di salvare un minimo di quel paesaggio che tanto ha significato per me. E così «il purulento, il cancerese, il cannibalese» (come ho scritto di recente nei miei Conglomerati) ha cancellato quella magica «Zauberkraft», a cui per lunghi anni ho attinto l’ispirazione e la forza necessaria allo scrivere. Eppure, di tanto in tanto, qualcosa di quel mondo di fiaba si accende ancora, sfida il silenzio…

[HUO]   Molti dei grandi movimenti d’avanguardia del XX secolo avevano una cosa in comune: uno stretto legame tra arte e poesia. Quali sono i suoi legami con gli artisti visivi? Ci sono state collaborazioni?

Realizza disegni?

[AZ]   Ad iniziarmi alla pratica del disegno è stato mio padre… oltre a lavori più grandi ad olio o affresco, eseguiva anche miniature su pergamena, e ricordo che, di tanto in tanto, qualche suora si recava presso di lui per commissionargli una qualche “pergamenina da 5 lire” da donare alla Superiora che compiva gli anni… Come dicevo, aveva assunto, a partire dal ‘25, un atteggiamento apertamente antifascista. Col passare del tempo gli era divenuto sempre più difficile svolgere qualsiasi tipo di lavoro, dall’insegnamento all’attività professionale in proprio. Dovette andarsene lasciando la famiglia a Pieve di Soligo. Dopo un periodo in Francia, era riuscito a ottenere un incarico presso una scuola artigianale di Santo Stefano nelle montagne del Cadore, dove anche la mia famiglia soggiornò per qualche tempo. Ricordo di aver trascorso con lui l’estate del 1929: mio padre stava affrescando la chiesa di Costalissoio e io avevo il compito di aiutarlo!  nell’impresa, ripulendo i pennelli e porgendoglieli secondo necessità, e io mi arrampicavo sulle impalcature allestite per l’occasione…

Nel 1933, mio padre decise di tornare a Pieve di Soligo per restare vicino a mia madre, in precarie condizioni di salute, dovute soprattutto alla recente scomparsa di una mia sorella. Ebbe un incarico presso il collegio Balbi-Valier, dove io stavo frequentando la media inferiore, e fu il mio insegnante di disegno per un paio d’anni. Ricordo ancor oggi con commozione le sue parole di biasimo, quando andava ripetendo che, come pittore, ero un pasticcione e che dovevo migliorare molto: a dire il vero, il disegno costituiva per me il punto tragicamente dolente di un rendimento scolastico complessivamente molto buono…

Eppure ho l’impressione di essere da sempre stato tentato, sotterraneamente, da una certa pulsione artistica di tipo visivo, anche se mai espressa in termini… canonici. Per questo motivo ho iniziato a costellare i miei versi di grafismi di vario genere, a partire dagli anni ‘70 (dai ghirigori del Galateo in bosco** a rappresentazioni grafiche più complesse come Microfilm***, che è una vera e propria poesia visiva inserita nel cuore di Pasque del 1974). Nel Galateo, in particolare, tali grafismi disegnano traiettorie verso quel «fuori idioma» cui la scrittura può soltanto riferirsi in maniera vagamente allusiva. Essi rappresentano, cioè, una… piccola conquista, compiuta al di là del campo della lingua della comunicazione quotidiana…

Questa stessa pulsione al segno grafico mi ha indotto a partecipare ad iniziative artistiche di vario genere (per esempio, nel corso degli anni, con Emilio Vedova, Mario Schifano, Giosetta Fioroni, Giò Pomodoro… e altri, forse meno noti, come Tono Zancanaro, Augusto Murer, Giuseppe Zigaina, il cui lavoro avevo comunque molto apprezzato). Spesso, per esempio, ho collaborato con artisti nella realizzazione di cartelle d’autore, in cui le opere di un pittore si alternano a mie poesie scritte di mio pugno. Ho anche fatto, pure io, dei tentativi da ‘decoratore’, incidendo i piatti di una storica azienda di ceramiche di questa regione. Sulla ceramica non ancora cotta incidevo gruppi di versi attinti variamente e fantasiosamente dai miei libri; con una sempre rinnovata sorpresa ritrovavo i miei versi improvvisamente lì, intagliati, graffiati, sbalzati su un materiale corposo e plastico, ben dissimile da quello consueto costituito dalla carta. Potevo, così, sorprendere le mie stesse parole sostanziarsi di una particolare, inedita… autorità data dallo spessore fisico, materico, dell’incisione: come se ogni piatto, ogni mattonella, costituisse lo spazio scenico di una piccola rappresentazione, da percepirsi con gli occhi e con il tatto. E come scena di quei singoli atti disegnavo un paesaggio materiato di fiori, di erbe, di alberi stilizzati, di figure che si alternavano ritmicamente alle parole. Si trattò, per me, di un’esperienza nuova e affascinante. Certamente questa mia pulsione al segno grafico, pur così parca di conseguenze degne d’attenzione, ha tratto alimento e vigore anche dall’esperienza della collaborazione con gli amici artisti; ancor oggi i miei versi ne traggono giovamento, soprattutto in quei luoghi della mia più recente poesia in cui brevi sequenze epigrammatiche si accampano sulla pagina come… scatti gioiosamente affermativi di colore, di vita:

 

Topinambùr tuffi nel giallo

atti festivi improvvisi del giallo

gialli brividi baci

bacilli – braci

Andrea Zanzotto, pagina manoscritta tratta dalla raccolta di versi “Microfilm” (“26 ottobre 1963, sotto il Vajont”), pubblicato successivamente