Capsule Digitale

Andrea Zanzotto (Vol. 5/6)

Un dialogo denso di implicazioni sul linguaggio svela i tratti della complessa natura dell’opera del poeta di Pieve di Soligo

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Ritratto di Andrea Zanzotto dal titolo: ” Zanzotto che legge poesie a belle ragazze” del fotografo Vincenzo Cottinelli*  

Dopo il terrore

[Hans Ulrich Obrist]   Qual è il ruolo del silenzio? Il filosofo Gadamer mi disse in un’intervista che il silenzio non può essere trascritto….

[Andrea Zanzotto]   È un discorso complesso… Il silenzio è una figura retorica di cui tutti i poeti tendono a servirsi, ma è anche una… «figura del vero», in un certo senso. Da un lato, infatti, non esiste il silenzio per chi lavora con le parole: dal momento che il silenzio è pur sempre un significante responsabile di un effetto di significato, sia che si tratti di un effetto strategicamente previsto dall’autore, sia che si tratti del frutto di una proiezione effettuata, a posteriori, dal lettore o dal critico. D’altro lato, il silenzio rappresenta il luogo di una… sfida lanciata dal poeta contro ciò che si situa nel… «fuori-idioma». È emblematica, in questo senso, la funzione assegnata al silenzio da Ungaretti: a quella forma di silenzio costituita dagli spazi bianchi della pagina, volta ad accentuare il carattere di frammento dei propri versicoli; i quali risultano, proprio per l’alone di silenzio che li circonda, come… strappati da un nucleo vitale radicato, «sepolto», addirittura, entro un’esperienza talmente individuale da non tollerare alcuna forma di enunciazione verbale. Ne deriva un’«autobiografia» come detrito, come residuo, come «parola / scavata» nell’«abisso» di quell’esperienza impronunciabile di «vita»:

Quando trovo

in questo mio silenzio

una parola

scavata è nella mia vita

come un abisso.

Detto in altri termini, il silenzio è la vera… voce della realtà in quanto si oppone alla verbalizzazione e, come tale, rappresenta sempre, per il poeta, una conquista: una conquista, però, che può essere raggiunta soltanto attraverso un’operazione di vero e proprio scavo nel corpo linguistico.

Io stesso mi sono più volte ritrovato a combattere contro il muro del linguaggio, cioè contro la coazione del linguaggio al significare nonostante tutto. Penso, per esempio, alla poesia. Così siamo, composta in occasione della scomparsa di mio padre, avvenuta nel 1960. La stessa negazione linguistica con cui cercavo di significare quella scomparsa costituiva, pur sempre, l’intollerabile affermazione di un senso: affermazione che si poneva in contraddizione con il senso tragico di mancanza che stavo avvertendo in quel momento:

 

Vitalmente ho pensato

a te che ora

non sei né soggetto né oggetto

né lingua usuale né gergo

né quiete né movimento

neppure il né che negava

e che per quanto s’affondino

gli occhi miei dentro la sua cruna

mai ti nega abbastanza

 

Nemmeno la negazione riesce a negare con sufficiente forza, quando si vuole rappresentare una assenza radicale, un «fuori-idioma». Del resto, il nulla, così come il silenzio, hanno sempre posseduto, per quanto mi riguarda, una consistenza… fisica, materica, tanto forte era la percezione del vuoto, del «nihil», che i diversi stati depressivi da me vissuti fin dalla prima giovinezza mi inducevano a sperimentare. Ai tempi in cui scrivevo Vocativo, del ’57, si trattava, addirittura, di un «ricchissimo nihil», di un qualcosa di perfettamente tangibile, così come orrendamente tangibile era la dimensione del terrore di un totale annichilimento dell’umanità diffusasi in Europa nel decennio che seguì l’esplosione della bomba atomica: «ricchissimo nihil, / che incombe e esalta, dove / beatificanti fiori e venti gelidi / s’aprono dopo il terrore» …

E la poesia poteva rivelarsi soltanto «dopo il terrore»: a prezzo, cioè, di una momentanea rimozione di quel «ricchissimo nihil» che non tollerava alcuna forma di dizione. Il problema che mi sono posto, scrivendo Vocativo, era proprio quello di… avvicinarmi, per quanto possibile, con la parola, a quel tangibile silenzio, a quella bruciante realtà storica, a quell’ustione:

 

[…] stasi ed urto

dove in un altro vero affonda il nostro.

 

In fondo, il «terrore» storico di cui andavo discorrendo in Vocativo riproduceva, in termini diversi, ma pur sempre situati su una medesima linea di continuità, il noto ammonimento di Adorno circa l’impossibilità di scrivere una poesia dopo l’inferno nazista: non si trattava semplicemente di una forma, più o meno celata, di rispetto per le vittime dei campi di sterminio: si trattava, piuttosto, di una interdizione concreta, violenta, dura come la pietra. Anche nel descrivere una rosa – come ho ripetuto in diverse occasioni − un poeta non avrebbe riprodotto altro che l’esperienza della bomba. Ogni parola, dopo la Seconda guerra mondiale, interrompendo un silenzio, l’avrebbe reso mostruosamente reale…

 

[HUO]   La poesia, in quanto forma sperimentale di letteratura, può ispirare artisti di diverse discipline con lo spirito della potenzialità, la ricerca di nuove forme e strutture nel tentativo di realizzare qualcosa che non è ancora stato fatto. Nelle parole del drammaturgo, regista e filosofo Alejandro Jodorowsky, “Il centro della creatività è la poesia, perché è un’arte che non può essere commerciale. La poesia non si compra e non si vende. Si sottrae alle leggi del mercato. Chi vuole pubblicare poesia probabilmente non stamperà più di 500 copie di un libro. Oppure la pubblichi tu stesso e le persone che vogliono leggerla, e questo è tutto. L’ultima linea di resistenza è la poesia. È attraverso la poesia che riesco a fare esattamente quello che voglio fare”.

Può parlarci di questa nozione di resistenza?

[AZ]    Certo, questa resistenza della poesia si ricollega anche a quel che si diceva poc’anzi, al fatto che occorreva vincere quel silenzio, quel nulla, dandogli una forma, costringendolo a parlare, a rivelarsi in tutta la sua reale terribilità. Avevo letto, sullo scorcio degli anni ’60, le teorie di Ernst Bloch circa il «principio speranza»: contro le teste di medusa che affollavano il nostro presente (l’evoluzione incontrollata della scienza, il consumismo sempre più dilagante, la mistificazione dell’informazione operata dalla diffusione dei mass-media…), mi sorprendevo a riscontrare, in Bloch, alcune tesi cui ero autonomamente pervenuto approfondendo personali riflessioni di carattere letterario, filosofico e linguistico. Bloch, infatti, era riuscito a trovare una via per riscattare la desolazione del nostro presente, interpretandone la negatività come quel «non-essere-ancora» che induceva la coscienza dell’uomo ad anticipare, nella forma della speranza, le aspirazioni e i progetti più alti. Da parte mia, l’operazione di scavo linguistico che da anni andavo praticando era pur sempre finalizzata alla riemersione da quelle zone di profondità linguistica e psichica cui sentivo di avvicinarmi in una maniera sempre più decisa. Mi sorreggeva, ancora una volta, l’esempio del Dante della Commedia: perché anche di fronte allo spaventoso, ammutolente «oltraggio» costituito dalla visione di Dio, eccedente le misere risorse espressive e cognitive dell’uomo, Dante riusciva a opporre l’«oltranza» di un dire nonostante tutto, anche a costo di ridurre la propria parola al balbettio dell’infante, alla «corta favella» di chi «bagni ancor la lingua alla mammella». Nel XXV canto del Paradiso, così, ormai prossimo alla visione di Dio, Dante giungeva a.… barricare il proprio misero io entro l’immagine del paese natale, ponendolo al centro di un verso chiuso in una perfetta circolarità: nel «bello ovile ov’io dormi’ agnello». Attraverso l’insegnamento di Dante, insomma, mi accorgevo che la «madre-norma» poetica poteva… salvare, in un certo senso, quello che del mio nido natale, della fonte della mia ispirazione, il cannibalese andava distruggendo…