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Assalto al Castello

C’è chi costruisce Castelli e chi li vorrebbe distruggere: il successo di Rivoli alimenta, anziché attenuare, le critiche dei suoi oppositori. La sua, a quanto pare, ingombrante presenza ha animato le riserve di un fronte critico di intelligenze dalle quali ci saremmo attesi al contrario una serena apertura ad una visione più ecumenica dell’arte.  Da “Il Giornale dell’Arte” n°19, gennaio 1985

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Vitrine cerca informazioni su questa foto tratta dalla serie ufficiale dell’inaugurazione di “Ouverture I” – Castello di Rivoli, 1984

Il 18 dicembre si è aperto il Castello di Rivoli con la mostra «Ouverture» curata da Rudi Fuchs, alla presenza di un considerevole numero di invitati confluiti dall’Italia e dall’estero. Poiché questo giornale è stato il più tempestivo e meticoloso nell’informare i suoi lettori sull’evoluzione del progetto, dal momento dell’eventuale acquisizione della collezione Panza di Biumo, poi ceduta al Museum of Contemporary Arts di Los Angeles, fino alla nostra proposta di nominare un direttore straniero e quindi ai programmi dal medesimo espressi, affidiamo alle immagini fotografiche il compito di fornire una prima impressione della mostra di arte contemporanea internazionale che resterà aperta un anno e che dovrebbe fungere da campione dell’istituendo museo a partecipazione pubblica e privata. Va ricordato che finora gli oneri sono stati tutti sostenuti dalla Regione Piemonte con un apporto di 500 milioni dell’Istituto Bancario San Paolo. Dal ministro Gullotti che l’ha visitato il 28 dicembre si attendono ora i fondi FIO.

I lettori sanno che non abbiamo lesinato il nostro sostegno alla destinazione artistica di un edificio di tal fascino e di tali dimensioni, e in particolare alla specializzazione nell’arte contemporanea internazionale, per due ragioni a nostro avviso elementari: la prima è che l’Italia è totalmente priva di una civilissima istituzione che consenti l’esposizione permanente di opere rappresentative della creatività artistica attuale nei diversi paesi; la seconda è che la città di Torino, se vuole acquisire una distinta identità rispetto ad altre città d’arte in Italia, non può che cercare un posto da queste lasciato libero. Non può quindi essere quello dell’arte antica, malgrado i considerevoli e in verità poco valorizzati richiami che la città può offrire. Esiste peraltro un precedente: negli anni ’60, in particolare per le mostre organizzate da Luigi Carluccio nella Galleria Civica, ma anche per l’attività di gallerie private, Torino era agli occhi dell’Europa la città pilota in Italia nell’arte del XX secolo. Poi scesero le tenebre.

Ci sembra quindi giusto che tutti concediamo favore a questa iniziativa anche per il livello qualitativo che la orienta. Vi sono già due riscontri: uno è il giudizio dei visitatori delle prime giornate che è stato in larghissima maggioranza dapprima di stupore quindi di gradimento. Espressioni del genere «Non sembra di essere in Italia» possono amareggiare specie se udite da visitatori stranieri, ma implicano un ammirato consenso, quanto quella «Esiste ben poco di paragonabile in Europa». L’altro è il numero dei visitatori paganti: 1700 nella prima festività dopo il giorno inaugurale, 10mila nei primi 10 giorni.
Deroghiamo per una volta dalla nostra funzione di cronisti per rilevare come queste prime impressioni contrastino con alcuni commenti gionalistici che non trovano plausibilità se non nell’irritazione comprensibilissima degli esclusi o nella preoccupazione di vedere un territorio come l’Italia, che evidentemente gli interessati ritenevano ormai del tutto lottizzato o comunque riserva di caccia dei soli residenti, spalancarsi invece ad una inaspettata «concorrenza» straniera la quale rilancia, a nostro giudizio, una competitività sempre salutare.

Stupisce che questa apprensione sia stata espressa neppur senza tante allusioni in giornali e da intelligenze dai quali ci saremmo attesi al contrario una serena apertura ad una visione più ecumenica dell’arte. Per esempio, che uno studioso come Barilli nell’«Espresso» (e prima ancora in «Il Giornale dell’Arte» avanzi riserve sull’iniziativa che comunque è positiva sul piano della comunicazione artistica e per una volta non effimera nelle intenzioni e nei risultati finora raggiunti, quando è così raro trovare un assessorato che profonda energie e denaro nel progetto di una istituzione museale stabile! Stupisce che egli discuta l’affidamento ad uno straniero in quanto tale (sic) fino a domandarsi preoccupato «E se il costume di rivolgersi allo straniero autorevole e di moda si diffondesse?» quasi ad invocare un protezionismo autarchico. E che affermi «l’internazionalismo di maniera ha fatto il suo tempo» quando non solo a Torino ma in tutta Italia la domanda culturale più sentita è di sbloccare l’isolamento e lo scollamento dai circuiti artistici internazionali. Egli giunge persino a lamentare ovvietà come quella che le scelte di Fuchs fossero prevedibili, mentre ciò non può che confermare la professionalità di qualsiasi serio operatore. Non sarebbero state altrettanto prevedibili le sue scelte se fosse stato conferito a lui quell’incarico?

Certamente le scelte fatte da Fuchs sono personali quindi parziali come per definizione non possono non essere le scelte. Se si potessero fare scelte indiscutibili, non si delegherebbero persone qualificate a esercitare quella funzione. Può piacerci o non piacerci quanto ci propongono il signor Fuchs o il signor Barilli: non sosteniamo che la loro sia la scelta migliore possibile, ma riconosciamo che essi hanno il titolo per farla. Ora la selezione di Fuchs risulta sufficientemente rappresentativa di quanto, a ragione o a torto e per motivi diversi, sta ottenendo interesse nel mondo da parte di numerose persone che si occupano di arte contemporanea. Lo è tanto che Barilli stesso la trova prevedibile, ma trascura di notare che essa ci offre invece proprio quello che ci mancava e che volevamo: la possibilità di verificare opere significative per consentirci di formare su di esse una nostra diretta e magari opposta opinione.

È chiaro che colui che dev’essere operato cercherà uno dei chirurghi migliori possibili, ma non potrà pretendere di venire operato da tutti i migliori medici del mondo. Né un museo potrà essere una palestra o un palcoscenico nel quale via via esibiscono il proprio talento diversi campioni e campioncini, bensì un’architettura organica da costruire in progress con l’impronta indubbia e felicemente personale del suo artefice. L’arte è sempre stata un’affermazione assoluta e perentoria di possenti individualità. Com’è possibile che coloro che se ne occupano possano concepire e auspicare un edificio nel quale mettano via via mano diversi architetti? Se ne otterrebbero dei cadavres exquis: bizzarri, curiosi, divertenti, giochi, giochetti, come potrebbe essere un quadro dipinto insieme da Picasso, de Chirico e Mondrian.

A Barilli fa poi eco sulla «Stampa» un critico notoriamente scrupoloso, Vincitorio, con la particolare responsabilità che comporta lo scrivere di un fatto torinese sull’unico quotidiano della città. Egli riferisce d’aver udito «una gragnuola di critiche», «una pioggia di riserve» senza tuttavia mai indicare una sola fonte e soprattutto senza alcun riscontro nei giudizi diretti che invece abbiamo raccolto dalla viva voce dei visitatori dopo l’apertura della mostra. Il procedimento del «si dice» è, ad essere clementi, giornalisticamente inusuale, giacché non si tratta di fatti, ma di opinioni. E se non sono di Vincitorio stesso, che male c’è a indicarne le fonti con nomi e cognomi? Vivaddio, non v’è proprio nulla di così riprovevole o pericoloso da giustificare l’anonimato nel dire che una mostra d’arte non ci piace per questo o per quel motivo!

Già, i motivi… Per capirli val proprio la pena di analizzare una per una le obiezioni riferite da Vincitorio. Esse riguardano: l’utilizzazione del Castello come centro d’arte contemporanea; la scelta di artisti non solo «protagonisti» ma anche «comprimari e comparse»; l’ipotesi che la mostra divenga museo; l’eccessiva presenza di gallerie internazionaoli già «privilegiate» da Fuchs a Kassel 5, che prima Kassel e ora Rivoli siano la «vetrina di un certo mercato, specie made in Germany» e che perciò Rivoli sia una «replica di Kassel» e il Piemonte «una provincia dei langravi d’Assia».

Ora Vincitorio dovrebbe avere la pazienza di spiegarci:

1) come un critico d’arte contemporanea, o i suoi anonimi confidenti che comunque si presume amino l’arte contemporanea, possano essere contrari anziché compiacersi della destinazione alla medesima diun nuovo e impegnativo spazio, in questo caso nientemeno che una reggia-castello opera di Juvarra.

2) quale scelta in arte contemporanea non sia discutibile, come una rappresentanza minima di quanto si produce oggi nel mondo possa comprendere meno di 70 artisti e come la bellezza di 70 artisti possano essere tutti «protagonisti». Se così fosse non potrebbe egli includere nelle sue acc urate compilations settimanali di mostre soltanto artisti «protagonisti»?

3) come non sia una bellissima cosa pensare finalmente in Italia a un «museo» di arte contemporanea internazionale che non esisteva e in cui le opere siano permanentemente visibili. E come ciò non sia preferibile a tante mostre utih ma purtroppo effimere e inaccessibili da coloro che non abbiano mezzi e tempo pressoché illimitati per inseguirle in ogni dove a tempo debito? Non molti possono come lui concedersi questa straordinaria mobilità.

4) come il fatto che determinati artisti tentino di vivere dei proventi del loro lavoro e quindi utilizzino gallerie, possa condizionare le scelte di un critico d’arte per il timore che queste vengano privilegiate. Che cosa si vorrebbe? Artisti benestanti che dipingano esclusivamente per diletto o artisti-monaci con voto di povertà? Vincitorio rifiuterebbe una mostra di Picasso o di Bacon perché comunque privilegerebbero la galleria Leiris o la galleria Marlborough?

5) come un critico che nel 1982 ha firmato una rassegna impegnativa quanto Documenta di Kassel, possa, anzi: debba, nel frattempo aver modificato le sue scelte di allora. Vincitorio ritiene forse che vi sia stato in questi due anni un turn-over di nuovi artisti così totale da smantellare totalmente la selezione fatta a Kassel? E che un museo che intenda essere rappresentativo in qualche misura dell’arte contemporanea internazionale debba escludere quegli artisti perché diventerebbe «replica» di quella mostra e Torino, ahinoi, «provincia dell’Assia»? E ancora, se per fattori vari, magari discutibili, sono gli artisti tedeschi a riscuotere oggi buona parte dell’attenzione internazionale, il vederli, e volendo eventualmente l’averli, ci dovrebbe venire precluso perché diventeremmo «vetrina di certo mercato»? Avremmo insomma dovuto dire no a Picasso perché vetrina di certo mercato francese, no a Bacon perché vetrina di certo mercato inglese e no a Pollock perché vetrina di certo mercato americano, e a chi altri dovrebbero dire no? a de Chirico perché vetrina di certo mercato italiano? Non spunta allora il malizioso sospetto che questo non sia esso stesso la vetrina del mercato degli esclusi, di qualunque mercato si tratti, di denaro o di potere?