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Book to book 4: Lettere ad Aldo Buzzi

Pubblicata nel 2002 da Adelphi e curata dal destinatario, è la fonte principale per gli esempi di scrittura di Steinberg, per non dire l’unica fonte per questo saggio. Le lettere funzionano meglio di “Riflessi e Ombre”, l’altro documento letterario di Steinberg, perché la scrittura è meno mediata. “Riflessi e Ombre” è il frutto di registrazioni trascritte da Buzzi** e manca la tenace connessione tra pensiero e segno che illumina le lettere e le cartoline che Steinberg ha scritto al suo amico italiano nel corso di cinquant’anni.

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NEW YORK, 1953: il disegnatore Saul Steinberg insieme all’amico Aldo Buzzi

Che il cliché sia un concetto cardinale nell’immaginazione di Steinberg* non è una sorpresa. Suo padre era un tipografo. Tutta la serie di gesti scritti che associamo familiarmente allo stile di Steinberg ci chiede: “Cos’è un cliché? Quando guardiamo il suo alfabeto tridimensionale e i suoi numeri, i suoi riferimenti all’Arte Moderna, il suo fascino per le maschere e la calligrafia incomprensibile, i contorni dei suoi volti, dei corpi e degli enormi edifici rettangolari, i suoi disegni di impronte digitali e tutti gli altri documenti del suo arsenale, un denominatore comune viene alla luce. Tutte le sue immagini sono cliché. In alcuni casi sono reali e vere – e affondano come piombo. Altre volte sono cliché di un pensiero condiviso, raccolti dall’immaginario collettivo. Un esame della sua carriera (da “illustratore” ad “artista”) mostra come la natura dell’uomo moderno abbia fornito una cornice a questo artista in esilio. (Gli esuli, va ricordato, sono esseri umani che oscillano continuamente intorno ai cliché di cittadinanza e di appartenenza certificata). Il cliché è una metafora che appartiene all’arte come una metafora appartiene alla scienza, come suggerisce Martin Amis nella sua bella raccolta di saggi intitolata “The War Against Clichés”. Il pensiero critico è una guerra contro i cliché. Gli sforzi letterari sono una guerra contro i cliché. Ma l’esperienza di Steinberg è ancora una volta decisiva perché non si ferma a ratificare l’esistenza di una guerra in corso – ne delinea le strategie. Il suo lavoro è una guerra tra i vivi e i morti, a volte tra i morti e altri morti, e sempre tra i modi di linguaggio vivi e quelli morti – morti perché abusati, come tutti i cliché.

L’opera di Steinberg, il suo opus, descrive costantemente i confini di questa guerra. Può essere più moderato che rivoluzionario, ma è certamente più radicale che effimero. Si può fare un lavoro duraturo sui cliché solo oscillando avanti e indietro, sopra e sotto la superficie, invertendo sempre la matrice ripetitiva e i suoi residui. La storia dell’arte del XX secolo è costellata di movimenti che hanno usato residui violenti e Steinberg lo sapeva bene. Per questo i suoi disegni sono pieni di ombre cubiste e riflessi futuristi (senza mai essere surrealisti). Steinberg è riuscito a trasformare la guerra del secolo contro i cliché in un anti-cliché.

Grazie a una serie di eventi storici ed economici, Saul Steinberg, un ebreo rumeno che trovò asilo negli Stati Uniti, trasformò il disegno in successo, in qualcosa di stabile, in un habitus quotidiano. In cinquant’anni di interviste e commenti, Steinberg non ha mai mancato di sottolineare quanto fosse difficile per lui scegliere una lingua, quanto fosse improbabile che scrivesse, e quanto ci tenesse davvero a farlo. La sorpresa – la sorpresa è una delle nozioni chiave delle illustrazioni di Steinberg e delle copertine del New Yorker, che, per tradizione, dovrebbero suscitare un fresco e divertito sorriso di sorpresa – è che l’illustratore sapeva scrivere. In realtà, sapeva fare quello che molti autori non sanno fare: scrivere senza cliché. In questo saggio cercherò di compensare l’immagine di Steinberg come un uomo che disegnava, in modo che possiamo cominciare a vedere l’uomo che scriveva – l’uomo che scriveva senza cliché.

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La raccolta “Lettere ad Aldo Buzzi”, pubblicata nel 2002 da Adelphi e curata dal destinatario, è la fonte principale per gli esempi di scrittura di Steinberg, per non dire l’unica fonte per questo saggio. Le lettere funzionano meglio di “Riflessi e Ombre”, l’altro documento letterario di Steinberg, perché la scrittura è meno mediata. “Riflessi e Ombre” è il frutto di registrazioni trascritte da Buzzi e manca la tenace connessione tra pensiero e segno che illumina le lettere e le cartoline che Steinberg ha scritto al suo amico italiano nel corso di cinquant’anni. La prima lettera è datata 5 settembre 1945. L’ultima è stata scritta il 27 marzo 1999. Tutte sono state scritte in italiano – in una lingua ricca e inventata che si potrebbe meglio definire steinberghiana. Attraverso pochi esempi spero di mostrare come lo steinberghiano, sebbene potenzialmente banale per i linguisti, sia materiale eccellente per chi vuole indagare quella vaga regione conosciuta come il sistema poetico di un artista. Steinberg sviluppò una forma di espressione squisitamente letteraria di qualità e significato assoluto e specifico.

New York, 8 marzo 1981

[…] Ho parlato con lui in rumeno, una lingua che evito perché ti fa sembrare un mendicante o un infuriato. Con Edi Fronescu, invece, ho parlato in tono civile, inventando frasi, magari traducendo da lingue che ho imparato da adulto, soprattutto parlando di cose del passato, e con precisione.

Amagansett, 26 maggio 1981

…Ho fatto un altro ritratto più grande per te, alla maniera cinese, sempre su legno (che è la madre della carta!). Come si disegna bene sul legno! Con che piacere! Nel bel mezzo del lavoro, ancora guai: mi cola il naso. Potrebbe essere un’allergia. O un raffreddore estivo. O lacrime.

New York, 2 dicembre 1982

[…] Ho lo stesso problema con 100 anni di solitudine, che ha vinto il premio Nobel. Mi allarma anche il fatto che milioni di persone l’abbiano letto (o comprato) e che io, dopo diversi anni, sia riuscito a leggerne non più di qualche pagina, per poi concludere che si tratta di una favola artistica, per metà sentita per sentito dire e trasformata in aneddoti…

Amagansett, 16 ottobre 1985

…Continuo a leggere Saint-Simon con grande sorpresa. È un moderno (nel senso che un artista moderno è libero, senza obblighi verso il Papa o il Re), ed era libero perché scriveva in segreto, per se stesso e forse per il futuro. È un buon esempio da seguire. Dimostra anche qualcos’altro: chi lavora per conto dell’Arte è presto dimenticato.

Amagansett, 1 luglio 1986

La nuova macchina è quasi uguale alla vecchia, ma molto più agile, con l’infelice odore di un’auto nuova, che in realtà è l’odore delle banane (che detesto). Deve essere la roba chimica che riconosco dallo smalto per unghie, plastica, velenosa. La radio-stereo è eccellente, si viaggia in compagnia di Mozart, il primo violino nel sedile accanto.

Amagansett, 30 luglio 1990
Lavoro tutti i giorni, ma senza il piacere che prima raddoppiava le mie forze. Ora sono stanco quando finisco, e se guardo la televisione mi appisolo sulla sedia, con la bocca aperta, come mio padre durante l’epoca che ho appena descritto.

Lo steinberghiano è fatto di memorie lessicali romene scolpite nella struttura sintattica dell’italiano – con un coltello americano. La melodia della sua lingua, nei suoi disegni per esempio, è sempre concettuale: le associazioni tra sostantivo e aggettivo sorprendono senza brillare. Gli accoppiamenti creano un ritmo per una persona che non è sicura della strada ma non dei passi da fare. Mostrano che la realtà capisce che esiste la letteratura, ma ancora resistono alla traduzione, non avendo nulla a che fare con gli idiomi nazionali. Come un passo falso e le sue conseguenze, l’italiano senza cliché di Steinberg sembra un errore felice e continuo commesso per paura di sbagliare. Per questo il figlio di un fabbricante di cliché ha saputo usarli come elementi di uno slalom del pensiero vedente intorno ai paletti imperdonabili e necessari del luogo comune.

Lettere a Aldo Buzzi, 1945-1999

Saul Steinberg con Aldo Buzzi, Riflessi e ombre