Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Quando parlava dei suoi artisti, diceva «la famiglia». E la sua galleria spesso diventava nelle sue parole la «loro» galleria: «loro» erano i suoi artisti di sempre, ai quali sin dal 1966, quando erano sconosciuti e del tutto controcorrente rispetto al gusto dominante, lei offriva lo spazio e il modo di mettere in atto i loro progetti, da “Il Giornale dell’Arte” n°222, giugno 2003
I suoi artisti (non molti e sempre gli stessi perché, diceva, «per lavorare bene bisogna conoscerli da vicino e frequentarli continuamente») erano Alighiero Boetti (di cui fece la prima mostra nel 1967, comprandola in blocco), Giovanni Anselmo, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario e Marisa Merz, Giulio Paolini, Claudio Parmiggiani, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio; e poi Aldo Mondino e più tardi, tra le generazioni e gli arrivi recenti, Mimmo Paladino, Domenico Bianchi, Bernard Rüdiger, Paolo Canevari. La Stein raggiunse la notorietà con l’Arte povera, etichetta ideata da Germano Celant ma da lei non del tutto condivisa: «Paolini non rientra affatto nella definizione di Arte povera: è un concettuale. Allo stesso modo i grandi piedi di marmo di Fabro non sono Arte povera, ma se mai “arte ricca”». La Stein scelse i poveristi in pieno clima Pop, perché fu folgorata dal loro lavoro, come «una Santa Teresa in estasi nella scultura di Bernini».
Lei, una signora della migliore borghesia torinese (a Torino era nata nel 1921 e lì scelse di vivere), educata ai principi che tutti i torinesi doc conoscono («ho ricevuto un’educazione cattolica, liberale e militare»), nel 1966, del tutto ignara di come si gestisse una galleria, decise di buttarsi in quella che chiamerà sempre «un’avventura intellettuale». Certo un’avventura non facile (le capitò di dover vendere le opere della collezione di famiglia, e perfino i gioielli) ma entusiasmante. La sua galleria nelle sedi torinesi (prima in via Teofilo Rossi, una «camera siderale» tutta argentata come le suggerì l’amico artista, collezionista e critico Corrado Levi, poi in piazza San Carlo) fu sempre unita alla sua casa, di cui era una sorta di appendice.
Tutti i pomeriggi alle sei gli artisti erano da lei, in riunioni in cui si parlava di arte e di teatro, di letteratura e di vita. Suoi amici erano allora critici come Tommaso Trini, Franco Passoni, Mirella Bandini, Paolo Fossati, mentre le altre gallerìe torinesi d’avanguardia erano tre soltanto: Notizie di Luciano Pistoi, il Punto e Sperone. Nel 1996 si era ritirata in un vasto appartamento affacciato sul Po, lasciando al suo braccio destro di sempre, Gianfranco Benedetti, la cura della galleria milanese (quella di Torino la chiuse proprio allora, ma dal 1985 aveva aperto anche a Milano, prima in via Lazzaretto poi dal 1995 in corso Monforte, mentre dal 1989 al 1992 aveva operato anche a New York, con Barbara Gladstone).
Il 29 aprile scorso Christian Stein, una donna gentile e incrollabile che si nascondeva dietro un nome maschile (quello del marito, perché lei si chiamava Margherita), è scomparsa a Torino nella casa-opera d’arte in cui viveva e in cui si poteva entrare solo indossando le pantofole nere che metteva a disposizione dei visitatori: una sorta di tempio dell’arte studiato per ospitare al meglio la sua strepitosa collezione (una parte l’aveva donata nel 2000 al Castello di Rivoli). Chi l’ha conosciuta la ricorda con affetto e con rispetto sincero. Come Giorgio Marconi, che di lei dice: «La conobbi nel 1966, quando aprì la galleria a Torino. Espose Uncini prima di me, poi Schifano quando lui era già a contratto con me. Avevamo una sintonia su certi artisti che portammo avanti. Con Paolini, per esempio, avevo io prima un accordo, poi lui preferì rimanere a Torino. E quando lei decise di aprire a Milano, io, contento, le fui vicino. Era un’amica che stimavo molto, perché faceva tutto con amore. E anche quando scegliemmo vie diverse restammo amici e ottimi colleghi. Lei fece un lavoro davvero pionieristico, riuscendo a imporre l’Arte povera all’estero. Fu tra i primi a creare una vera, fruttuosa sinergia fra galleristi, collezionisti e musei internazionali.
Ci mancherà, anche se ha saputo “allevarsi”, in Gianfranco Benedetti, un degnissimo erede». Ma il ricordo più struggente è di Giulio Paolini, l’artista con cui Christian Stein ha intrattenuto il rapporto più stretto, continuo e affettuoso (non a caso tutta la sua camera da letto era abitata da sole opere di Paolini, soffitto compreso): «Di tanto in tanto, ancora oggi, mi trovo a guardare le sue finestre in piazza Vittorio Veneto a Torino, ormai chiuse (abito di fronte) e a ricordare… Non è una consolazione, anzi; forse però è qualcosa di più, qualcosa che resta».