Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
In un saggio datato 25 aprile 2020, al principio della pandemia, Carolyn Christov-Bakargiev riflette sulle complessità delle componenti di significato per una definizione delle pratiche artistiche
Definire in questo settore la qualità dell’opera d’arte, nonostante le teorie postmoderniste della fine dell’originalità prevalenti negli anni Ottanta del secolo scorso, dipende dunque molto di nuovo oggi proprio dalla capacità di invenzione di nuove forme d’arte e quindi dall’innovazione, che si riteneva superata alla fine del ventesimo secolo. In particolare, ci troviamo oggi in un nuovo paradosso. Se la consapevolezza dell’artista di stare facendo arte è necessaria in Europa nella sua definizione, gli artisti di contesti postcoloniali, durante la globalizzazione, pongono nuove domande che richiedono nuove definizioni. Solo recentemente le loro attività sono state integrate nell’arte contemporanea. Come artisti, se vogliono stare nel campo disciplinare, che è occidentale, accettano la definizione del campo. Ma proprio perché il campo dell’arte ha escluso tutti gli artefatti del loro passato (definendoli etnografici, perché non realizzati come Belle Arti), si trovano a criticare il campo dell’arte dal suo interno, cercando di romperne i confini, dall’interno. Nel fare questo, però, ripetono l’atto artistico avanguardistico per eccellenza, e quindi l’operazione viene accettata dal campo dell’arte, per un effetto di paradosso.
Se il concetto di arte nasce assieme alla storia dell’arte, oggi, di pari passo con l’ingresso dell’arte contemporanea da contesti postcoloniali, vi è contemporaneamente un rinnovamento del canone storico-artistico. La narrazione univoca lineare teleologica creata a partire dal Rinascimento e stabilità nel Settecento e Ottocento, che va dalla preistoria alla Mesopotamia, alla civiltà greco-romana, all’arte medioevale, al Rinascimento, al barocco fino alla modernità di oggi, è già infatti messa in dubbio a favore di una pluralità di narrazioni interconnesse come una ragnatela dove l’arte si trova ricontestualizzata storicamente e complicata dalla presenza di Big Data e di interconnessioni tra aree geografiche. Non è detto che, dopo il Covid-19, la Storia dell’arte proceda in questa direzione, né che il campo dell’arte contemporanea globale continui nel modo in cui è stato tracciato dagli anni Novanta fino a oggi.
Al di là del mero nominalismo, ho sempre pensato che in questo spazio vasto in cui qualunque cosa potrebbe essere il materiale per un’opera d’arte, la qualità di un’opera d’arte è misurabile attraverso un criterio tautologico di aderenza del tema o contenuto dell’opera alla forma, ai materiali e alla tecnica stessa. Una grande opera d’arte è un’opera in cui i materiali adoperati, la forma, il contenuto, la forma del contenuto, il contenuto della forma, e la tecnica adoperata sono correlate e esprimono lo stesso messaggio. In altre parole, se il compito che si prefigge un artista è esaminare come la percezione si trasforma in conoscenza, lo fa tanto meglio quando utilizza l’oggetto stesso che indaga come mezzo e tecnica della propria indagine: indaga il colore con il colore (l’astrattismo), la rappresentazione con la rappresentazione (l’arte figurativa), il gesto con il gesto (la performance), la società con le relazioni sociali (arte relazionale), il linguaggio verbale con le parole (arte concettuale), in modo che l’arte non è altro che una sorta di ontologia incorporata dell’aderenza al reale.
Se un filosofo come Heidegger esamina che cosa sia una cosa analizzando le funzioni della brocca, utilizza parole per descriverlo. Un artista indagherà la questione creando una brocca e forse versandovi dentro qualcosa. C’è qualcosa di magico in questo, qualcosa di miracoloso – la carta tormentata e abrasa dalla cancellazione e successivamente il disegno a grafite sullo stesso foglio di William Kentridge, che è identico alla cancellazione del paesaggio sud africano eroso dalle miniere, e dai corpi dei neri cancellati durante l’Apartheid. Non è il tema importante dell’opera che vale, non è la bravura tecnica dell’opera che vale, è il miracolo della aderenza assoluta dell’uno all’altro e viceversa, della loro identità unitaria.
Esisterà questa disciplina che chiamiamo Arte, in futuro? I campi disciplinari sorgono e spariscono, nel corso della Storia. Oggi si guarda molto (in barba a Kant) alla creatività dei non umani, a quella delle piante, delle altre specie animali, e si ipotizzano linguaggi, intenzionalità, giuoco, arte. Non lo so, ma per ora sì, esiste. Dal punto di vista dell’artista, egli o ella fa arte per il piacere che ha nel processo creativo – di fare e di sperimentare – per trasformare una cosa in una cosa diversa dalla cosa di partenza e per lasciarsi sorprendere, perché l’opera d’arte è di più della somma delle parti che l’hanno composta.
Vi è un elemento mistico, tra il religioso, il misterioso e la mistificazione stessa. L’artista è traditore e bugiardo, beffardo e solitario, usa strumenti diversi, tra cui molto gioco e sperimentazione. Gli si richiede meno la logica rispetto a chi opera in altri campi, e quindi può agire con libertà di sperimentazione anche con cose che conosce poco, da amatore. Trasforma la materia, informa – il tessuto, la creta, i pigmenti, il pensiero, il gesto, un suono, un algoritmo – imparando a usare e manipolare la sua materia, domarla o collaborarvi, e vive una grande soddisfazione quando sa che la può manipolare.
Oggi, durante l’epidemia del coronavirus, ho chiesto all’artista egiziana di origine armena Anna Boghiguian cosa fosse per lei l’arte, e mi ha risposto “tutto quello che è vita. Oppure che è morte. Tutti siamo artisti”. L’arte è quindi qualcosa che esiste e non esiste. Quando l’artista muore, rimane solo l’opera d’arte. L’arte è un passaporto all’eternità, ma anche una verifica della nostra finitudine. Qualcosa di simile alla transustanziazione, in soldoni.
Carolyn Christov-Bakargiev,
Torino, 25 aprile 2020