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Da Buñuel a Godard: il rischio di vilipendio nell’opera d’arte

Fabrizio Lemme* riflette sulle implicazioni tra mito e iconologia, un rapporto strettissimo e reversibile: la seconda finisce con il diventare lo specchio del primo e, in un certo senso, la sua identità visiva. Questo rapporto è un dato dinamico, in perenne evoluzione, non una formula sclerotica, perennemente e staticamente riproposta. Da “Il Giornale dell’Arte” n° 24, gennaio 1985

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Il rapporto tra mito e iconologia

Esiste una certa affinità nelle due recenti polemiche sulla santa Maria Goretti e sulla «Sacra Famiglia» vista da Godard.
Al di là della loro comune matrice religiosa, in entrambe le vicende il tema fondamentale è il rapporto tra il mito e la sua immagine, o, se vogliamo esprimerci con un termine struttura lista di attualità, tra il mito e la sua iconologia. L’avvio verso questa riflessione mi venne offerto, al tempo della prima polemica su santa Maria Goretti – da un articolo di Federico Zeri su un libro recente nel quale si poneva in discussione la santità della martire undicenne: brutta, sporca ed analfabeta. Leggendo e meditando quella nota, ho riflettuto sulla constatazione-ribadita, nell’ambito della polemica, anche da cattolici come Francesco Alberoni – che la santità è riconosciuta nella relazione alle esigenze della Chiesa intesa sia come popolo di Dio che come istituzione socio-politica. Ad essa è compagno inseparabile mito: i santi «cammino sulle vette dell’umanità» (secondo l’immagine di Thomas Mann) e, dunque, dell’umanità costituisce quindi una espressione sublimata, «mitizzata».

L’iconologia non può non essere influenzata dal mito e la rappresentazione del santo sarà sempre coerente ad esso, illustrando gli episodi più significativi della sua vita e solo quelli. Vi immaginate, osservava Zeri, eppure è del tutto coerente all’umanità del Cristo che questi fosse condizionato da impulsi ed esigenze umane, fra le quali anche quelle corporali. Tuttavia, non sarebbe coerente con il mito una iconologia che rappresentasse il Redentore nell’atto della minzione o della defecazione. Il rapporto tra mito e iconologia è, dunque, strettissimo e addirittura reversibile: la seconda finisce con il diventare lo specchio del primo e, in un certo senso, la sua identità visiva. Ma questo rapporto è un dato dinamico, in perenne evoluzione, non una formula sclerotica, che vada perennemente e staticamente riproposta.

a destra, Giovan Battista di Jacopo, detto il Rosso Fiorentino (1494.1540), Deposizione, 1521, Volterra, Pinacoteca Civica, Museo Guarnacci; a sinistra un frame tratto dal film La ricotta di Pier Paolo Pasolini, 1963

Anche l'ateismo è una religione

Circa venti anni o sono, un Magistrato incriminò per vilipendio alla religione il film «Viridiana» di Buñuel, perché rappresentava una laida cena di straccioni secondo lo schema compositivo del capolavoro di Leonardo a Santa Maria delle Grazie. Per non essere da meno, un altro Magistrato, di lì a poco tempo, trovò un’analogia (ne «La ricotta», episodio di Pasolini nel film «Rogopag») tra la scena di crocefissione rappresentata dal regista e la Deposizione del Pontormo, sboccando così in una nuova conte stazione di vilipendio alla religione. I due processi ebbero, per fortuna, esito fausto. Raramente vi è una presenza del problema di Dio più forte che nei film dell’ateo ed anarchico regista spagnolo, o in quelli del provocatorio autore di «Accattone».

Dunque, la devianza del mito, in questi casi, non solo non è volgare, ma anzi addirittura riafferma il mito, come costante strutturale della nostra cultura. Nel film di Godard la devianza blasfema dal mito è stata indicata – a quel che sembra – nella sua iperrealista attualizzazione e nella nudità di Maria; le beghine ne sono restate sconvolte e la cosa ha commosso anche il Papa polacco, che, intervenendo pesantemente e direttamente nella vicenda, non si è accorto come, a sua volta, finisse per realizzare una nuova devianza del mito. Il Pontificato è indisgiungibile dalla ritualità, d’origine tardo-romana, che pone il Vicario di Cristo al di sopra della banalità del contingente. È, dunque, assai contraddittorio voler attualizzare la propria immagine occupandosi anche d’una (modesta!) pellicola cinematografica, e, nello stesso tempo, rifiutare l’opera d’arte che attualizzi iconograficamente il mito.

Ma al di là della contraddizione, non sembra potersi considerare una devianza blasfema né la rappresentazione attualizzata (nulla di nuovo, sul piano concettuale, dagli abbigliamenti cinquecenteschi e regali attribuiti alla Vergine da Raffaello, nel contesto di una committenza regale e principesca!) né la nudità, in un momento culturale che ha recuperato la profonda comunicazione del corpo umano. E, si chiede (‘«avvocato dell’arte», oltre quali limiti la libertà dell’artista deborda nel diritto penale e legittima la repressione punitiva? La risposta non è facile, se deve essere fornita in termini concettuali; è ancora meno agevole, se deve essere fornita in riferimento a casi concreti. Da un lato, infatti, il parametro della volgarità è legato alla sensibilità ed alla cultura individuale; dall’altro lato, il magistero punitivo è prevalentemente mosso non a colpire il volgare (come dimostra la condiscendenza verso i vari film di «Pierino») ma ad imbavagliare il pensiero provocatorio, nemico da sempre dei valori costituiti.

Proprio i casi citati prima ne danno conferma: alla tolleranza permissiva verso le più sfrenate e volgari esibizioni sessuali ha fatto sempre riscontro la reazione dei benpensanti nei confronti di opere, espressione di valori etici a volte altissimi, che ponevano però in discussione verità acquisite da non rimediare. Uno spiraglio alla soluzione corretta viene, forse, da una sentenza della Corte Costituzionale. Chiamata nel 1975 a decidere sul contrasto fra l’art. 403 cp (offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone) e l’art. 21 Costo. (norma fondamentale del nostro sistema, che proclama la libertà di manifestazione del pensiero), la Corte ha emesso una sentenza interpretativa di rigetto, ossia una pronunzia che ritiene fondata non la questione di legittimità costituzionale, in quanto la norma, se correttamente interpretata, non contrasto con la Costituzione. La norma penale esaminata, infatti, secondo la Corte non contrasta con la Costituzione quando, per concretare il reato, si richieda una condotta di vilipendio (ossia, un additare al pubblico dileggio) che travalichi ogni esigenza di manifestazione del dissenso in materia religiosa.

È fondamentale il diritto di dissentire; è fondamentale il diritto di fare propaganda religiosa e anti-religiosa (anche l’ateismo è una religione, come ammoniva Giovanni Gentile e come ribadisce una recente, stimolante pubblicazione di Franco Ferrarotti, ove si parla di una teologia per atei): ma è fondamentale anche il limite del buon costume, inteso come rispetto delle condizioni minime di convivenza in una società pluralistica. Ora, il limite del buon costume è dato dal comune sentire di una società civile in evoluzione, non dall’«immarcescibile» spirito conservatore, anche se avallato da un’autorità estranea a quella, laica, che si è data la Repubblica.

Il Giudice ha l’obbligo di guardare alla società civile e di non lasciarsi condizionare dalle sue convinzioni personali, quali che siano.
Consentiamo, dunque, all’arte di rinnovare l’immagine iconografica del mito, senza sclerotizzare questo in una formula statica.
Il discorso ateo non avrà, d’altra parte, mai bisogno di «piccoli mezzi» per portare avanti il ​​suo tema perenne sull’approdo dell’uomo alla spiaggia dominata dalla ragione, ove soltanto la coscienza avrà superato il mito e le sue iconografie.

L’immagine della locandina del film Je vous salue, Marie diretto da Anne-Marie Miéville et Jean-Luc Godard, gennaio 1985

“L’ultima cena” degli accattoni tratta da Viridiana un film del 1961 diretto da Luis Buñuel, vincitore della Palma d’oro come miglior film al 14º Festival di Cannes. Il film è tratto dal romanzo “Halma” di Benito Pérez Galdós