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Douglas Cooper: «Voglio morire nel giorno del pesce d’aprile» (vol. 2/2)

Straordinaria figura di collezionista e studioso. Dal “Giornale dell’Arte” n. 54, marzo 1988

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Douglas Cooper, ritratto da John Vere Brown, 1982. © Mander and Mitchenson Theatre Collection

Gli articoli sull’arte del XIX e del XX secolo che uscirono copiosi dalla sua penna erano, nei migliori dei casi, brillanti, penetranti e innovativi; nei peggiori, insignificanti e maligni. Per esempio, il suo catalogo della Courtauld Collection è pieno di idee originali (alcune di Benedict Nicolson), ma la sua minuziosa analisi dell’impatto esercitato dell’impressionismo sull’arte e sul collezionismo inglesi era talmente guastata, rispetto al progetto originale, dagli attacchi personali contro Roger Fry, che il vicecancelliere dell’università di Londra (che finanziava il libro) domandò in giro se per caso Fry avesse rubato a Cooper la moglie. E, nonostante i molti notevoli contributi al «Times Literary Supplement» (in particolare gli acuti saggi su Ingres e Fénéon), Cooper usò troppo spesso l’anonimato del giornale come copertura per colpire indistintamente amici e nemici criticandoli con interminabili sottisiers per accenti mal collocati e refusi tipografici piuttosto che per manchevolezze più significative.

Nessuna meraviglia che il mondo dell’arte inglese fosse diffidente nei confronti di Cooper, e viceversa, e che nessun riconoscimento ufficiale assumesse forma concreta. E nessuna meraviglia che egli decidesse di mandare tutti al diavolo. Quando Cooper (assieme al sottoscritto) scoprì una «follia» in rovina, lo Château de Castille con i suoi colonnati, in vendita nel profondo della Provenza, non esitò un istante a trasferirsi, armi, bagagli e quadri, nel paese che aveva sempre preferito al proprio.

Nell’estate del 1950 il castello era abitabile, e per la prima volta la collezione di Cooper vi era esposta nella sua totalità. Poiché in Francia non esisteva nessun panorama dell’arte cubista, pubblico o privato, paragonabile a quello, Castille divenne subito un luogo di pellegrinaggio per chiunque avesse interesse per il cubismo. Quando sulla rivista «L’Oeil» comparve un articolo su «Le chàteau des cu-bistes», il rigagnolo di pellegrini divenne un fiume: storici dell’arte, galleristi, turisti americani dilagarono per la casa. Cooper si crogiolava nel loro interesse e nella loro adulazione, ma ciò che maggiormente gli faceva piacere erano le visite degli artisti le cui opere erano appese alle sue pareti.

Léger andò allo Château de Castille per la sua seconda luna di miele, ma l’ospite più assiduo era Picasso, tanto che Cooper si vedeva, per certi aspetti, come per il sostituto di Gertrude Stein nella vita dell’artista. Oltre che regalare a Cooper innumerevoli disegni (fra cui un grande studio delle «Demoiselles d’Avignon» successivamente donato al Kunst-museum di Basilea), Picasso eseguì una serie di bozzetti per le grandi decorazioni murali (eseguite da Karl Nesjar) nella vecchia bagattiera di Castille.

Queste decorazioni sono ancora in situ, contrariamente al grande dipinto del circo di Léger (eseguito in gran parte da aiuti) per le pareti dello scalone, che ora si trova alla National Gallery of Australia. Oltre agli artisti, erano particolarmente ben accolti gli studenti; tuttavia, data la scissione della personalità di Cooper (era come se un angelo o un demonietto cattivo lottassero perennemente in lui per prevalere), c’era sempre il rischio, anzi la probabilità, che le premure del castellano e la sua ospitalità si trasformassero in repentine e irrazionali esplosioni di collera.

Dalla sua roccaforte provenzale Cooper continuava a collezionare, acquistando per lo più opere tarde dei primi cubisti, contribuendo in svariati modi alla storia dell’arte moderna. Si dimostrò un efficientissimo organizzatore di mostre, perseguitando senza scrupolo artisti, collezionisti, galleristi e istituzioni e mettendo sottosopra il mondo intero per ottenere opere in prestito (e questi prestiti erano spesso ricambiati) per tutta una serie di mostre esemplari: Monet e Braque a Londra e Edimburgo, Picasso a Marsiglia e ad Arles, Braque a Chicago, «The Cubist Epoch» a Los Angeles e a New York, per citarne soltanto alcune.

Scrisse libri su Picasso, Gris, Léger, e de Staël, e curò la pubblicazione di un compendio, in edizione di lusso, sulle grandi collezioni. Fu professore alio Slade di Oxford nell’anno accademico 1957-58, e nel 1961 fu Visiting Professor a Bryn Mawr.
Fu anche un instancabile conferenziere, in francese, tedesco e texano oltre che nella sua lingua, ma non riuscì mai a superare la sua tendenza alla polemica, come testimoniano innumerevoli recensioni, di libri e di mostre, tendenzialmente scandalistiche.

Ahimè, anche quando aveva ragione, e ce l’aveva spesso, Cooper insisteva sul caso in maniera talmente offensiva da rafforzare nel suo posto di lavoro e nella sua opinione chi era bersaglio della sua collera, e a confermarne la buona reputazione. Un caso esemplare fu il «caso Tate», in cui sprecò gran parte del suo tempo e delle sue energie nella metà degli anni Cinquanta. Quell’affare fu tanto più increscioso in quanto non solo non raggiunse il suo scopo di raddrizzare un torto, ma gli fece rendere un cattivo servigio al compagno d’armi Graham, Sutherland.

A Cooper fu chiesto di scrivere una monografia su Sutherland come implicito qui pro quo per la rinuncia dell’artista alla carica di trustee della Tate Gallery, una mossa chiave nella campagna per far dimettere un direttore da essi ritenuto incapace. Il testo che venne prendendo forma non contribuì né al buon nome del suo autore né a quello del soggetto trattato. Come Cooper ebbe a confessare più tardi, «una predilezione per Sutherland sarebbe stata incompatibile con la predilezione per il cubismo».

Avrebbe dovuto opporsi, disse, alle pressioni ricevute per accordare a un artista inglese non altrettanto primario le stesse lodi sperticate che aveva fino a quel momento dedicate ai giganti dall’Ecole de Paris. La famosa lite di molti anni dopo fra Cooper e Sutherland fu l’inevitabile risultato della posizione falsa in cui si trovò l’autore di fronte all’artista. Date le circostanze, è un miracolo che il ritratto di Cooper eseguito da Sutherland, ricordo della mal assortita amicizia, sia sfuggito alla distruzione. Cooper minacciava continuamente di «fare la lady Churchill» e di buttarlo nella caldaia, ma si lasciò dissuadere dal farlo.

Dopo che nel 1974 i ladri penetrarono nel castello di Castille asportando alcune opere di piccole dimensioni (non ancora recuperate), Cooper decise di vendere il castello e di trasferirsi in un luogo più sicuro e meno remoto. Nel 1977 acquistò quello che egli descriveva come un bunker, un paio di piccoli appartamenti in un moderno edificio in vista del mare a Montecarlo. Essendo lo spazio limitato, egli vendette alcuni dei dipinti più grandi (fra cui «L’homme à la clarinette» di Picasso, ora nella collezione Thyssen-Bornemisza).

Tuttavia, anche in questa forma ridotta, la collezione mantenne la sua completezza storica, e rimase al figlio adottivo William McCarthy Cooper un numero sufficiente di belle cose, tale da costituire un monumento non solo del movimento cubista, ma anche alle capacità di discernimento di Cooper. Negli ultimi anni il gusto autodistruttivo per il litigio (riuscì persino a bisticciare con Picasso, il suo eroe), con il declinare della salute, lo costrinsero a una vita relativamente di recluso. Fu, tutto sommato, una fortuna, poiché ciò gli consentì di concentrarsi su dei lavori seri, come dare i tocchi definitivi al Catalogue raisonné dell’opera di Juan Gris, al quale aveva lavorato per quarant’anni, e a completare un catalogo dell’opera di Gauguin.

Ci si domanda se Cooper giunse ad avere dei ripensamenti sul suo paese natale. L’ultima importante mostra da lui organizzata (con Gary Tinterow) alla Tate Gallery, «Essential Cubism» (1983), costituì una sorta di riavvicinamento all’Inghilterra. Quella mostra, e il prestito dell’«Atelier» di Braque, indussero la Tate a credere che Cooper avesse sotterrato l’ascia di guerra. Tuttavia, il vecchio volubile cuore del collezionista aveva trovato un nuovo amore, il Prado. Infatti, l’orgoglio degli ultimi anni di Cooper fu di essere il primo straniero invitato a far parte del Patronato di quel museo. In segno di gratitudine donò al Prado un capolavoro di uri maestro spagnolo pratica mente assente dai musei di quel paese, il ritratto della moglie di Juan Gris. Lasciò al Prado anche la non meno importante «Nature morte aux pigeons» (1912) di Picasso e la tavolozza usata dall’artista per la sua versione del «Déjeuner sur l’her-be».

Cooper aveva iniziato la sua carriera di ribelle nel nome del cubismo; la finì come ribelle senza altra causa ideale se non l’odio per l’arte contemporanea, di cui è prova la sua isterica denuncia del Carl Andre della Tate. Non è difficile individuare l’origine di questa trasformazione. La sua visione del cubismo come unico metro con cui giudicare l’arte di questo secolo condannò Cooper a considerare praticamente tutto quanto era stato fatto dagli artisti post-cubisti, soprattutto dai non figurativi, come una forma di perversione o una dégringolade.

In coerenza con il suo vecchio acceso conservatorismo, egli adottò un costume stereotipato, e incominciò a vestirsi in pompa magna come i suoi antenati che amavano solo i cavalli, e soltanto con accostamenti di colori vistosi. Come Evelyn Waugh da vecchio, gli piaceva il ruolo di sacro clown, ed era fermamente convinto che tutti fossero fuori fase tranne lui. Poiché era spesso molto sofferente, fare il pagliaccio dovette richiedergli un gran coraggio, ma lo spirito a volte diabolico e a volte infantile non gli venne mai meno. La sua morte è stata in armonia con la sua vita: «Ho intenzione di morire nel giorno del pesce d’aprile», annunciò entrando per l’ultima volta in ospedale. E, dopo esser rimasto in coma per tre giorni, quel clown geniale fece come aveva detto.

Castello di Castille

Pablo Picasso, Disegni Murali del Castello di Castille, 1962, incisi nella parete della veranda orientale dal pittore e scultore norvegese Carl Nesjar.