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Dress to dress 10: Luce

Un abito come silenziosa vendetta. Un breve racconto ispirato dal look numero 19 della sfilata Cocktail di Lessico Familiare

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Courtesy Photo Lessico Familiare

Guardando verso il basso dell’infisso, in quella fessura piatta che si era andata a formare tra la porta e il pavimento a causa delle bruciature, era possibile vedere la luce interna scagliarsi flebile sul pavimento del pianerottolo: doveva averla lasciata accesa nella fretta della fuga. Se si fosse prestato attenzione, si sarebbe sentito anche il ruotare sordo di un giradischi che aveva smesso di emettere musica. Ogni tanto alla portinaia capitava di sentire musica provenire da giù le scale dove si trovava la sua cuccetta; prevalentemente Mina, neanche a dirlo.

Di Luce ne sapeva troppo poco per considerarsi amica: di solito passava dalla portineria intorno alle sei di mattina per poi riuscire verso le dieci la sera dopo essersi riposata. Quelli gli unici istanti in cui si incontravano.

Se ne era dovuta andare in quattro e quattr’otto: giusto il tempo di spegnere quel principio d’incendio per poi scappare verso casa di una persona fidata. La portinaia non aveva la benché minima idea di dove Luce si trovasse: di lei conosceva così poco ma di certo non di meno disprezzava quel gesto meschino del quale la giovane era stata vittima. In parte si sentiva colpevole e non se ne dava pace: come aveva fatto a non accorgersi? Eppure, era stata vigilante tutta la notte, presente mente e corpo come sempre, nonostante l’età. La certezza rimaneva una sola: nessuno aveva varcato il portone al di fuori di coloro che abitavano nel palazzo; proprio per questo motivo la vecchina aveva la cieca certezza che in quegli appartamenti si nascondesse il colpevole.

Nel corso della sua residenza quinquennale, a Luce erano stati affibbiati nomignoli dal becero umorismo e non era raro che gli altri inquilini le avessero intimato di andarsene accusandola che il suo aspetto confondeva i bambini. Quel principio di incendio che si sarebbe potuto tramutarsi in omicidio era stato tra tutti l’avvertimento più spaventosamente chiaro.

Col mazzo di chiavi del palazzo tra le mani, la portinaia si affrettò a cercare quelle dell’appartamento di Luce: il numero 7 al piano due. La sua più grande urgenza era quella di chiudere quel che rimaneva della porta ed evitare quindi che ulteriori agguati fossero messi alla poveretta durante la sua assenza. Il tutto, nella speranza che sarebbe presto tornata a prendere le sue cose. Con le chiavi già nella serratura e pronta a ruotarla verso sinistra, la portinaia per un momento si domandò come appariva l’appartamento, se in qualche modo il suo aspetto l’avrebbe aiutata a capire quella persona misteriosa che nella sua vita da eremita aveva scatenato più odio di quanto potesse immaginare. Con la scusa di voler spegnere il giradischi e le luci, si addentrò nell’appartamento chiedendo dietro di sé la porta.

L’ingresso era spoglio: uno specchio a parete, una piccola mensola sulla quale poggiava il giradischi accanto a una pianta grassa e sotto una grossa cassa in legno scuro. Di getto, la portinaia spostò la puntina del giradischi e il piatto smise di girare. Immediatamente si sentì in colpa: stava calpestando la discrezione della quale si era avvalsa per tutta la sua carriera, la stava abbandonando in funzione della mera curiosità. Proprio per questa ragione, per quanto le sarebbe piaciuto addentrarsi nella casa, non riusciva a scollare i piedi dall’ingresso nel quale era. Tutto per colpa di quella cassapanca senza lucchetto: quell’aspetto così austero l’aveva stregata, specialmente a causa del contrasto con gli interni minimali. Decise d’impulso che avrebbe scoperto cosa c’era dentro: Luce non sarebbe tornata di certo in quel momento e non vi era rischio che potesse scoprirla. Reggendosi sul bastone, si accucciò per aprirla.

Se in superficie si potevano trovare abiti da sera dismessi, camicette messe da parte per il periodo estivo e qualche imbottitura di reggiseno che le era stata di certo utile prima del suo intervento, sul fondo del baule invece c’erano maglie da basket e da calcio: un misto di ricordi che Luce non avrebbe mai voluto mostrare se non a chi sentiva di volersi aprire davvero. Quel forziere di ricordi era pieno di tutti quei capi che nella sua vita precedente si era dovuta far andar bene, che aveva dovuto passivamente accettare in funzione delle norme sociali.

Sporgendosi a fatica nel baule, afferrò un’enorme maglietta nera e bianca in un tessuto sintetico; profumava di quell’odore misto a chiuso e naftalina che è tipico degli armadi della nonna, forse con l’aggiunta di un tocco di lavanda dato da un sacchettino con i fiori essiccati. Scavando fino in fondo trovò anche uno scampolo di raso satinato dalla consistenza piuttosto spessa. Considerò il fatto che avrebbe fatto fatica a cucire delle pieghe usando la sua vecchia macchina da cucire ma in fondo tanto valeva tentare: di tessuti belli come quello non se ne trovavano più in giro e lei aveva già in mente cosa fare con quei due oggetti.

Piegò il tessuto satinato in due per il lungo. Poi, gessetto a contrasto alla mano, prese a fare una serie di segni ogni quattro centimetri circa in modo da creare delle pieghe che di lì a poco avrebbe appiattito col ferro da stiro. Una volta passato il tutto sotto la macchina da cucire, decise di attaccare quel pezzo di stoffa drappeggiato alla lunga maglia da basket nera e bianca. Era un accostamento bizzarro, ma le pareva potesse funzionare: era come se due armadi si fossero incontrati per creare qualcosa di nuovo e completamente fuori dal comune.

Piegò accuratamente il capo, con quell’attenzione che si presta agli oggetti che hanno vissuto insieme a noi e che traspirano di ricordi. Li percepiva tutti, percepiva in quelle pieghe il dolore di chi sentiva di non appartenere al proprio corpo e di aver paura di dirlo a qualcuno: di fronte a quel capo che pareva sintetizzare il passato e il presente di Luce, per quanto a lei estranea, non poteva far altro che simpatizzare con la sua solitudine: una delle poche cose che le accomunava.

 

In casa non aveva altro se non dei vecchi giornali che utilizzava all’occorrenza per accendere il suo caminetto. Da quel cumulo agguantò un paio di fogli e dopo aver ricoperto la sua creazione sartoriale, lo chiuse con dello spago da cucina e una striscia di fettuccia bianca come fiocco.

Proprio accanto a un vecchio telefono fisso teneva un cubetto giallo di post-it utili per annotare numeri di telefono, liste della spesa e qualunque cosa di vitale importanza le venisse in mente in modo da sopperire il mancato supporto della memoria pressochè assente: la solitudine e l’età di certo non la aiutavano a ricordare così tante cose e quei pezzettini di carta gialli le apparivano come salvavita. Ci appuntò sopra un messaggio per Luce e lo appiccicò su quel rudimentale pacchetto facendo in modo che la striscia collosa fungesse anche da chiusura.

Sperando di vederla varcare il prima possibile la porta dell’androne del palazzo, durante l’attesa, la portinaia teneva il regalo di Luce sulle sue ginocchia mentre reggeva il bastone dall’altra. Ogni tanto nel sentire il chiavistello abbassarsi le veniva un fremito sperando fosse lei per poi rimanere delusa nel vedere gli altri anonimi abitanti del palazzo: tra quelle persone poteva esserci il colpevole che aveva spaventato la povera Luce. Al sol pensiero le sudavano le mani e parte dell’inchiostro della carta le si era stampato sul palmo.

Aspettò e venne sera.

Attese fino a che la luce dei lampioni non prese a filtrare dalle finestre dell’androne.

Stanca e abbattuta, lasciò il pacco sul primo gradino delle scale, non di certo con poca fatica e costantemente usando il pomolo del bastone come appiglio.

“Ama il tuo passato. Indossalo spudoratamente” c’era scritto sul biglietto.

La portinaia si precipitò nella sua camera; l’unica preghiera che avrebbe fatto quella sera era che quel pacco non ci fosse più al suo risveglio: Luce doveva tornare, non poteva dargliela vinta.

Lessico Familiare, collezione Cocktail

Lessico Familiare, collezione Cocktail

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