Il 30 giugno 2023 è terminata la prima capsule digitale del Giornale dell’Arte – Nova Express Digital Capsule – pubblicata qui, sei giorni su sette, da maggio 2022.
Nova Express Digital Capsule, a cura di Gianluigi Ricuperati e Maurizio Cilli, è stata il primo esperimento di un prodotto verticale editoriale del Giornale dell’Arte dedicato a rappresentare nuove tendenze e definire e indagare nuovi limiti. Attraverso le voci di grandi intellettuali, intrecciate a una riscoperta e rilettura dell’archivio del mensile ormai quarantennale, Il Giornale dell’Arte ha voluto affermare come la comprensione della contemporaneità sia una questione di punti di vista e della capacità caleidoscopica di tenerli insieme. Grazie a Gianluigi e Maurizio per averci condotto in questo viaggio davvero Nova.
Il saggio sulla poetica di Frank O’Hara e la relazione tra la poesia contemporanea e la pittura, tesi di ricerca per il conseguimento della laurea in Lettere e Filosofia presso l’Università di Pisa, nel 1981. La prima pubblicazione, in edizione limitata, di questo saggio, ha accompagnato l’inaugurazione di FAUST il 20 maggio 2018, curata da Gianluigi Ricuperati
Poeta e critico d’arte[1], è stato spesso citato in relazione al mondo dell’arte newyorkese degli anni Cinquanta. Raramente questa relazione è stata affrontata in modo approfondito e nessuna analisi critica ha, finora, evidenziato analogie strutturali tra lo sviluppo della sua poesia e quello delle arti: dall’Espressionismo astratto nei primi anni Cinquanta al New Dada e Pop Art alla fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta.
Poco dopo che O’Hara si trasferì a New York nel 1951, la sua prima poesia dadaista («Today», CP15[2]; «Les Etiquettes Jaunes», CP21; «Homage To Rrose Sélavy», CP 10) lasciò il posto alle più liriche e introverse poesie brevi («Digression On Number One, 1948», CP260; «Poem, To Franz Kline», CP271), nonché ai più lunghi poemi espressionistici e surrealisti («Pasqua», CP96-100; «Second Avenue», CP139-15Q) degli anni Cinquanta.
Queste opere successive dovrebbero, di fatto, essere lette in connessione con l’espressionismo astratto poiché molte di esse riflettono l’interesse di O’Hara per quel movimento e, soprattutto, per le tele eseguite con la tecnica dripping di Pollock: simili a molti «action painting» sono effettivamente strutturate come «poesie del processo» o «poesie-eventi» e mettono in atto elaborazioni emotive di «individuazione» e «integrazione» attraverso vari livelli di sviluppo linguistico.
Sovrapponendo queste «poesie di processo» della metà degli anni Cinquanta (e di pochi anni dopo: 1956-1960), O’Hara scrisse il suo famoso lavoro «I do this, I do that», per la maggior parte raccolto in Lunch Poems.[3] Queste poesie “I do this, I do that”, che risalgono allo stesso periodo in cui il New Dada si stava sviluppando nel mondo dell’arte, dovrebbero essere lette, crediamo, esattamente come i lavori New Dada – versioni poetiche dei collage e degli assemblages della fine degli anni Cinquanta. Su un piano iconografico, in particolare, segnalano un cambiamento focale dalle precedenti «poesie del processo»: le immagini riguardanti la traccia degli sviluppi emotivi in momenti speciali di chiarezza sono qui sostituite da altre che si soffermano sul paesaggio urbano (immagini «basse», segni al neon, fast food, le strade di New York). Compatibilmente allo spostamento iconografico, viene adottata una nuova struttura poetica: la parte principale di ogni «poesia New Dada» consiste nella percezione impersonale e nella registrazione del paesaggio urbano, mentre il contenuto emotivo si concentra nel finale, dopo uno schiocco o uno shock – spesso reazione ad un rumore udito (come in «A Step Away From Them», CP257-258) o a qualcosa di letto (come in «The Day Lady Died», CP325).
Come cercheremo di dimostrare in questo saggio, la sperimentazione di O’Hara con questa forma è una controparte poetica del cambiamento delle tendenze nel mondo dell’arte newyorkese degli anni Cinquanta.
Definire il New Dada (1955-1960), termine usato per descrivere il lavoro di Jasper Johns alla galleria di Leo Castelli nel 1958, e Pop Art, termine coniato da Lawrence Alloway all’inizio degli anni Sessanta, presenta più di un problema. Entrambe le designazioni sono state a volte identificate e utilizzate in riferimento a tutte le opere d’arte che reagiscono all’astrazione post-bellica e comprendono immagini di vita urbana o materiale commerciale. Tuttavia, è utile per il nostro scopo, cercare di distinguerle in modo preciso.
Il termine Pop Art dovrebbe essere usato solo in riferimento a Warhol, Lichtenstein, Rosenquist, Wesselman e altri artisti, il cui lavoro è caratterizzato da creazioni commerciali – insegne, cartoni animati, pubblicità, film – e tecniche commerciali. L’oggetto commerciale non è solo incluso nell’opera d’arte (come era già stato nei collage proto-pop del primo Novecento), ma in realtà diventa, di per sé, l’intero soggetto dell’opera. Inoltre, la sua riproduzione in una forma di dimensioni superiori alla grandezza naturale, derivante dalle opere di grandi dimensioni dell’Espressioniso astratto, conferisce agli oggetti i tratti iconici.
Il New Dada, dal canto suo, come nei lavori di Johns, Dine, Rivers, Rauschenberg e in alcuni casi di Oldenburg, abbraccia un ambito più ampio. Pur concentrandosi sui referenti commerciali (che quindi, come tali, sono già “segno”, prima di entrare nell’opera d’arte), l’arte New Dada include sia la realtà urbana e la personalità dell’artista, che acquisisce una grande rilevanza, o come espressione di scelta – puramente nel collage o «combinare» i lavori – o come intervento aperto – quando si usano tecniche pittoriche dell’Espressionismo astratto di soggetto urbano.[4]
Persino in quelle poesie in cui O’Hara si avvicina alla Pop Art (il suo «I do this, I do that»), l’«io» è sempre presente come punto focale e motore, portando il lettore attraverso i meandri di percezione (paesaggio urbano) e di riflessione (sentimenti). Il poeta, in definitiva, non abbraccia mai l’anonimato del Pop:
And I see in
the flashes
what you
have clearly
said, that
feelings are
our facts.
As yet in me unmade.
(«A Edwin Denby», CP286-287, vv. 9-12)
Note:
[1] O’Hara si trasferì a New York nel 1951 e quasi subito iniziò a lavorare per il Museum of Modern Art (MOMA). Amico di molti pittori d’avanguardia come Pollock, Kline, de Kooning, Motherwell, Rivers e Rauschenberg, ha spesso preso parte agli incontri informali del “Ninth Street Club”, ha scritto per «Art News» e ha pubblicato monografie su vari artisti (Jackson Pollock, New York, Braziller, 1959, Robert Motherwell, New York, MOMA, 1965).
[2] Usiamo «CP» per riferirsi a poesie incluse in The Collected Poems of Prank O’Hara, ed. di D. Allen, New York, Knopf, 1971.
[3] F. O’Hara, Lunch Poems, San Francisco, City Lights Books, 1964.
[4] Lucy Lippard limita la Pop Art alle opere realizzate con tecniche commerciali. Secondo il critico, Rivers, Dine, Johns e Rauschenberg non dovrebbero essere considerati artisti pop, anche se usano spesso l’iconografia pop – realtà urbana, materia commerciale -, adottano raramente tecniche di rappresentazione di massa («la novità centrale … di Pop Art, ovviamente … consiste nella sua approvazione di pubblicità, illustrazioni e convenzioni di arte commerciale … in un contesto di “alta arte”», L. Lippard, Pop Art, New York, Praeger, 1966, pagina 148). Lawrence Alloway dà una definizione più monografica della Pop Art, che consente l’inclusione di pittori come Dine e Rauschenberg che hanno sempre usato tecniche pittoriche («è, essenzialmente, un’arte sui segni e sui sistemi di segni … Pop si occupa di … fotografia-, beni di marca, fumetti -… con materiale precodificato», L. Alloway, American Pop Art, Londra e New York, Collier, 1974, p.7). Maurizio Calvesi distingue New Dada dalla Pop Art strutturalmente oltre che cronologicamente («grosso modo … il New Dada precede la Pop Art [come genesi anche culturale, e si veda come i legami con l’informale vadano scomparendo man mano che dal New Dada si trapassa alla Pop] », M. Calvesi, Le Due Avanguardie, II, Bari, Laterza, 1975, 282). Alberto Boatto vede la connessione tra la tecnica sionista dell’Espressionismo Astratto e l’immaginario urbano nel New Dada, come soluzione al desiderio paradossale di cogliere l’istante presente in un’opera d’arte («il gesto … lo strumento per l’inserimento tra le pieghe del mondo … la struttura dell’opera che aderendo dall’intimo al presente viene ad occupare anche il centro», A. Boatto, Pop Art in U.5.A., Milano, Lerici, 1967, pp. 18-25).