Capsule Digitale

Germano Celant e il dandysmo di massa

L’intreccio tra le arti visive e la moda risale alla consapevolezza storica di un linguaggio che partecipa della cultura (l’avevano già sottolineato le avanguardie storiche dal Futurismo italiano e russo al Neoplasticismo) e inevitabilmente deve essere studiato e analizzato come fenomeno estetico estremamente influente sul nostro panorama e comportamento visuale. dal “Giornale dell’Arte” n. 192, settembre 2000

Social Share

l’immagine di copertina del catalogo della mostra di Giorgio Armani al museo Guggenheim di New York, ph. Tom Munro (2000)

Germano Celant, Lei è stato uno dei primi sostenitori della possibilità del rapporto tra arti visive e moda. Esistono affinità reali tra i creatori d’immagini e i creatori di moda?

L’intreccio con la moda risale alla consapevolezza storica di un linguaggio che partecipa della cultura (l’avevano già sottolineato le avanguardie storiche dal Futurismo italiano e russo al Neoplasticismo) e inevitabilmente deve essere studiato e analizzato come fenomeno estetico estremamente influente sul nostro panorama e comportamento visuale.

Quanto alle relazioni tra artisti e fashion designer, devo dire che c’è un notevole interesse da parte di entrambi. Gli artisti sono interessati all’impatto sociale che la moda ha nel mondo, ne studiano i percorsi, come Jim Dine, un vero conoscitore di moda, e ne fanno soggetto di analisi, tanto che molti artisti dell’ultima generazione, da Andreas Gursky a Charles Le Dray, sino alla giovanissima Uscha Pohl, si cimentano nell’evidenziarne la presenza e si impegnano nel suo linguaggio.

Da parte opposta, i nuovi fashion designer, come Alexan-der McQueen, Margiela, van Beiren-donck, Ann Demeulemeester, Watanabe e Knott guardano attentamente alla fotografia di Joel Peter Witkin o a Jeff Koons, quanto all’arte «apocalittica» inglese, per realizzare le loro sfilate e i loro vestiti. È un processo inevitabile, che non significa l’osmosi o l’annullamento tra arte e moda, ma il potenziamento di territori di ricerca e di diffusione dei linguaggi. Già con Andy Warhol questa democratizzazione è un percorso aperto, e non è un caso che tra le mie mostre nel 1981 a Genova, appaia un primo omaggio alla sua indifferenza per le gerarchie linguistiche, ripreso due anni fa con una mostra itinerante europea da Wolfsburg a Vienna, alla sua creatività a 360 gradi, inclusiva della moda e della televisione, del teatro e del cinema, dell’arte e del commercio, della fotografìa e delle pubblicità.

Come ha concepito lo sviluppo della mostra di Armani?

Insieme ad Harold Koda, che da novembre sarà il curatore del Fashion Institute del Metropolitan Museum di New York, con cui condivido la cura dell’esposizione al Guggenheim, si è lavorato a costruire un’antologica che intrecciasse la storia ai contributi linguistici di Giorgio Armani nel campo del pensarsi come persona vestita. Si è partiti dalla giacca destrutturata che ha aperto una informalizzazione del modo di coprirsi, che era rigido e assoluto, categorico e impositivo, per passare a una lettura dell’influenza comportamentale sul maschile e sul femminile che sono arrivati a incrociarsi mutando di ruolo.

Il tema del genere e della liberalizzazione sessuale, quanto attitudinale si è riversato nei vestiti da donna, creando un varco che ha mutato il sentirsi femminile. Al tempo stesso dal film «American Gigolo», del 1980, dove i vestiti di Armani tengono la scena con Richard Gere, il maschile è entrato in una sfera di femminilizzazione assoluta. Per non dire del discorso sulla «tribù» Armani, quanti si vestono e si identificano con il suo taglio, le sue forme e i suoi tessuti, che sono diventati sinonimo di identità, seppur di massa. Anzi è proprio nel passaggio da un dandysmo femminile e maschile di lusso, tipico dell’haute couture ad un dandysmo di massa, con il prêt-à-porter, che il contributo di Armani è importante per capire come sono mutati i gusti del mondo.

Come sarà strutturato l’allestimento?

L’allestimento* nasce dalla collaborazione di Giorgio Armani, Robert Wilson e il team curatoriale. Consiste in uno scenario di luci e di materie che oscurano e illuminano, coprono e tagliano l’intero spazio del Salomon Guggenheim Museum. Wilson ha concepito molte «scene», come la memoria della passerella per gli abiti da sera o il territorio naturale per i vestiti esotici. Altrove, il contributo del design Armani alla formazione di immagini pubbliche, come quelle delle star hollywoodiane, si accompagna con proiezioni di film, da «American Gigolo» a «The Untouchables», sino all’ultimo «Shaft».

La mostra si conclude con un gran finale, dove le epoche e le stagioni creative di Armani si intrecciano e confondono con la sua ultima sfilata, a dimostrare la continuità e la contemporaneità del suo lavoro passato e presente.

Non teme che mostre «extra settoriali» organizzate dal Guggenheim, da quella delle motociclette (ora a Bilbao) a quella attuale di Armani possano indurre a qualche allusione circa I’ appetibilità di questi argomenti, e circa la loro indubbia attrazione per un pubblico di massa, che garantisce al museo introiti difficilmente ottenibili con le arti visive contemporanee?

Innanzitutto bisogna analizzare cosa significa per un museo inserire in programma mostre che riguardano il design, come quella sulla storia della motocicletta, e la moda, come quella su Giorgio Armani e domani l’architettura con un’esposizione sull’opera di Frank Gehry. La ragione è evidente, il tentativo di spezzare il circolo chiuso dell’arte moderna e contemporanea per fare affacciare l’istituzione su una creatività diffusa e generalizzata, che attraversa non solo la ricerca visiva, pittura e scultura, ma anche altre manifestazioni del comunicare.

Il museo Guggenheim diretto da Thomas Krens, oramai da anni ha avviato questo tentativo di rompere quell’isolamento dell’arte contemporanea che è oggi molto conservatore, perché ghettizza il linguaggio dell’arte, cercando di operare a 360 gradi, con l’inserimento di linguaggi d’oggi. È un’ipotesi modernista, che è già presente nello scorrere parallelo dei dipartimenti di alcuni musei d’arte moderna, ma la novità del Guggenheim sta nel presentarli sullo stesso livello, con gli stessi mezzi e la medesima importanza.

Di fatto si sta tentando di portare un nuovo pubblico che una volta avvicinato, si spera ritorni e si confronti con le ricerche meno percepibili e comprensibili per il suo gusto. Inoltre, sta succedendo per il design, l’architettura e la moda, quello che è avvenuto per la fotografia, che sino a qualche decennio fa era considerata un’arte minore, se non commerciale, quindi di pochissimo valore estetico. I tempi sono mutati e la fotografia si è trascinata l’intero mondo delle immagini che arrivano ora a comprendere tutte le espressioni di massa. Il risultato culturale è evidente, mentre quello pragmatico ed economico è il richiamo del grande pubblico.

I detrattori parlano di mostre organizzate anche per attrarre sponsor molto facoltosi…

I finanziamenti delle mostre possono anche avvenire con la larga circuitazione dell’esposizione, che arriva così a coprire i costi di produzione e di comunicazione, quanto essere calcolati per il rimando informativo che la mostra ha sul museo, che diventa il centro di idee e di sperimentazioni. È quanto sta succedendo con «The Art of Motocycle» che, dopo New York e Bilbao, andrà a Las Vegas, ma era successo anche per «Andy Warhol: a factory», veicolata in quattro musei e per ” 1900″ prima a Londra e poi a New York.

Per Giorgio Armani, considerando la fama mondiale, si sta studiando un tour da New York a Bilbao, da Parigi a Tokyo, e personalmente mi auguro che la sua antologica si chiuda a Milano.

Quali sono i suoi progetti «italiani»?

I miei progetti europei sono molto semplici. Continuare a occuparmi assiduamente dell’arte italiana, producendo libri e pubblicazioni scientifiche sui singoli artisti, come l’edizione inglese del volume su Carla Accardi e i cataloghi generali su Piero Manzoni e su Alighiero Boetti, di prossima uscita, e ristudiando avvenimenti storici come l’Arte povera, che sta ricevendo in Inghilterra e in America un forte riconoscimento museale da parte della Tate Gallery e del Walker Art Center, a cui vorrei dedicare una poderosa pubblicazione, consistente in 12 monografie.

Al tempo stesso, diffondere la conoscenza storica di personalità trasversali alla ricerca artistica come i performer Merce Cunningham e Laurie Anderson, oppure coprire l’informazione contemporanea tramite gli scritti sul settimanale «L’Espresso», per non dimenticare il continuo dialogo con la Fondazione Prada di Milano, che è diventata oramai un punto di riferimento istituzionale europeo nel mondo. Infine, ho in serbo qualche progetto segreto in Europa e in America, che vorrei lasciare alla sorpresa.