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Salvatore Scarpitta

L’irriducibile italianità dell’ italoamericano Scarpitta in un’intervista di Franco Fanelli: «Giovani, non copiate gli americani: sono cattivi maestri e non hanno nulla da dire». Dal Giornale dell’Arte, n. 245 luglio 2005

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Salvatore Scarpitta nel suo studio – garage

«Quello che non capisco dell’Italia è perché qui crediate che l’America sia così importante per l’arte contemporanea. Gli Stati Uniti sono, artisticamente parlando, una nazione accademica, anche se è vero che hanno detto qualcosa di importante negli anni Cinquanta e Sessanta».

Salvatore Scarpitta, classe 1919, americano di New York nato da genitori italiani e tuttora residente a New York («Sto vicino a Washington Square, nel Village») vive in maniera conflittuale la sua «italo americanità». Quando è venuto all’Università di Torino per ricevere la laurea honoris causa in Lingue e letterature straniere, non ha mancato di esprimere la sua felicità e la sua gratitudine all’Italia, dove si è formato negli anni giovanili: «Sarei arrivato comunque, anche a piedi. Entrare nella compagine culturale italiana è un grande onore, perché gli italiani hanno pagato cara la loro immaginazione e la loro volontà di esprimersi; hanno conferito all’arte una bellezza e una dignità unica al mondo. A Torino, poi, ho avuto grandi sostenitori, come Ippolito Simonis e Luciano Pistoi».

Oltre alla laurea e a una mostra curata da Pier Giorgio Dragone nella biblioteca delle Facoltà Umanistiche a Torino, l’altra occasione del temporaneo ritorno di Scarpitta in Italia è l’uscita del Catalogo ragionato della sua opera. Curato da Luigi Sansone, il volume documenta 507 opere datate dal 1931 al 2000. Il saggio del curatore ricostruisce attraverso puntuali spunti biografici l’intero percorso di Scarpitta, dai primi dipinti tonalisti alle sculture più recenti, dalle felici parentesi astrattista e «neofuturista» negli anni Quaranta e Cinquanta alle prime opere polimateriche a parete, sino all’adozione dell’automobile da corsa come scultura. Gli altri contributi sono di Fabrizio D’Amico, Elisabetta Longari, Marco Meneguzzo, James Haritas, Piero Dorazio, Wally Schrank e Fanny Usellini, che hanno collaborato con lettere aperte e testimonianze.

Salvatore Scarpitta, perché lei resta un irriducibile «italiano»?

Al di là dei miei genitori, ho studiato all’Accademia di Belle Arti a Roma, la città dove ho conosciuto personaggi come Ferruccio Ferrazzi, Roberto Melli, Mario Mafai, Angelo Della Torre, Mino Maccari. Tutte persone che mi aiutarono a calmarmi un po’, perché ero piuttosto esuberante. Tra ì galleristi il mio sostenitore numero uno era Carlo Cardazzo di Milano. Mi mantenevo con un lavoro a Cinecittà, dove facevo il cascatore dai cavalli in corsa. Quali erano i suoi modelli? Caravaggio, soprattutto. Poi i protagonisti dell’arte moderna. Mi ha sempre impressionato Van Gogh, perché in lui c’è una totale compenetrazione tra stile di vita e lavoro; è il portatore di un’idea dell’integrità etica dell’arte. Sa che molti giovani artisti italiani hanno preso a modello l’arte americana? Che cattivo maestro hanno scelto… L’America non ha nulla da offrire.

L’identificazione arte-vita comporta una responsabilità sociale, se non politica, dell’artista?

Io credo che tutto sia politico. Oggi mi meraviglio dei giornali italiani che non osano esprimere il proprio sentimento. A volte mi pare che ci fosse più libertà durante il fascismo.

E negli Usa, dove Bush è stato da poco riconfermato alla presidenza, che cosa succede?

Il popolo americano, quello che ha nuovamente votato per Bush, è sostanzialmente anglicano, sia per mancanza di immaginazione sia per mancanza d’arte.

Lei è ottimista circa il futuro dell’Italia?

Certo! Se uno non ha un po’ di ottimismo, che c… ci sta a fare al mondo?

Però lei continua a vivere a New York…

Io vivo in America perché amo le corse automobilistiche e là mi è sempre stato possibile vivere vicino ai piloti, a Indianapolis, ad esempio. A dieci anni io ero già in pista.

Che opinione ha di Schumacher?

È scolastico, ma è un buon pilota. Fermo di polso.

Non le sembra un po’ veterofuturista questa sua esaltazione del mito della velocità, che inizia, nella sua produzione, con un olio del 1933 (n.3 in catalogo) e culmina con le automobili-scultura, come quella recentemente donata alla Galleria Civica d’arte moderna e contemporanea di Torino?

L’automobilismo sportivo è un mondo divorziato dalla tecnologia, quella esaltata dai futuristi.
L’automobile per un pilota può diventare un elemento totalmente naturale. Comunque io Marinetti l’ho conosciuto. Mi diede cinque lire perché partecipassi a una serata futurista.

C’è una fotografia che la ritrae insieme ad alcuni protagonisti della «Formula 1» dell’arte…

Lei forse parla di quelle con Leo Castelli, scattata nel 1982. Sì, ma quella galleria era una specie di bordello e lui ne era un po’ la madame. Era un bravo mercante, ma non ho mai sentito da lui una parola d’incoraggiamento quando le cose andavano male.

Tra i colleghi leggendari, in quella foto, c’è anche Robert Rauschenberg. Si dice che abbia iniziato a realizzare le sue opere più importanti dopo aver visitato lo studio di Burri…

È più che probabile.

Ma ci sarà pure qualche artista americano che ricorda con affetto…

Sì, ma non sono nella foto. Franz Kline, ad esempio, era morto esattamente vent’anni prima che Namuth scattasse quella foto. Franz era un capolavoro di uomo, oltre che un grande artista. Eravamo molto amici. Meno di un anno fa sono stato all’ inaugurazione di un monumento dedicatogli dalla sua città natale in Pennsylvania. Quella notte l’ho veduto in sogno. Ho udito, nettissimo, il fischio di un treno alle due di notte. Era lui che mi mandava un segnale, sono sicuro.

Nella foto c’è Andy Warhol. Che ricordo ne ha?

Lo ricordo come un disabile. Un uomo infelice.

Eppure, è il nume tutelare di tutta una generazione di giovani, quella che ha tramutato l’arte contemporanea in un fenomeno massmediatico. Pensi a Damien Hirst, allo stesso Maurizio Cattelan…

Cattelan? Non lo conosco. Visto il cognome, dev’essere di origine veneta…