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Tano Festa, pittura di stile è la sua

Achille Bonito Oliva, amico e conoscitore di Tano Festa* traccia un profilo critico dell’artista pochi giorni dopo la sua prematura scomparsa. dal Giornale dell’Arte, n° 53 febbraio 1988

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Giosetta Fioroni con Gian Tomaso Liverani, Mario Schifano e Tano Festa alla Biennale di Venezia del 1964

«Un tempo / come un gagliardo veliero / la prora fendendo / marosi schiumanti di sabbia marina / solcai tutti i mari / poi / nel fare ritorno verso le mie coste / a poca distanza dalla riva / la chiglia si arenò sopra una secca / Ogni giorno i flutti delle onde / che lambiscono lo scafo, ormai immobile, lo corrono lentamente / con la salsedine che sopra vi si incrosta».

Questa poesia di Tano Festa potrebbe essere l’epigrafe scritta da lui stesso per la sua tomba.
Ma un’altra epigrafe, di Goethe, potrebbe aprire una lettura non cerimoniosa, e per questo da lui accettabile, della sua intera produzione di arte e di vita: «Peccato che la natura abbia fatto di te soltanto un uomo, perché c’era la stoffa per fare una persona di valore ed anche un mascalzone». Nella pratica creativa l’artista sfiora sempre il valore e la trasgressione, la fondazione della forma e lo sfondamento di un codice che non è mai soltanto linguistico ma implica costantemente il campo dell’etica, le norme del vivere e del sapere.

Il poeta tedesco sicuramente avrebbe riconosciuto in Tano Festa entrambe le possibilità, praticate in maniera delicata sul piano dell’opera ed in maniera quasi letteraria per quanto riguarda il modo di vita, consapevole e dimentico di sé, laterale e corposo, ironico e afasico. Tutte queste aggettivazioni caricano la storia di Tano Festa di complessità e rinviano ad un’opera che a sua volta è stata sempre tenuta dall’artista sotto il segno dello stile. Pittura di stile è la sua. In questo senso è il portato di una memoria culturale che la tiene fuori dall’edonismo smemorato della gestualità e la immette, nell’arco trentennale del suo prodursi, in un circuito di rimandi, un intreccio di rinvii di andate e ritorno, come una sorta di leonardesco Codice Atlantico.

L’artista diventa il grande sedentario, di chi corre lungo la tangenza di molti climi culturali e di molte derive stilistiche ma da fermo: «io, poltrone europeo», come diceva lui stesso. La pittura diventa l’epicentro di tante collisioni che si addensano sulla superficie splendente dell’opera dura e tersa, come deve essere una fonte speculare capace di catturare, trattenere ed elaborare il portato di un linguaggio slittante storicamente in una temporalità non circoscritta all’arte europea ma aperta, lungo la rotta dell’Oceano Atlantico, agli influssi dell’astrattismo americano, agli smalti artificiali cromatici di un gusto non certamente ingenuo, quello appunto di un’America che ricorda la sorgente europea della propria ispirazione.

Grande sedentario dell’arte, Festa adopera le mani e la testa per realizzare opere che restano sempre nel campo della pittura, dell’apparire di un’immagine dentro la dignità laica della forma mai autobiografica e grondante soggettività, ma sempre disegnata in termini oggettivi e mentali, come si conviene ad un’opera a futura memoria, per far capitolare lo sguardo e per ricapitolare il già tutto dipinto. Uomo di storia, Festa crede di conseguenza all’arte come cimento culturale, capace di sfiorare molte temperature, calde e fredde, gelate ed espressive, ma tutte tenute sotto l’ombrello protettivo di una finezza di spirito che si identifica con quello dello stile.

Come un Matisse degli anni Sessanta, egli è portatore di uno stile di superficie, che non significa senza profondità ma consapevole della sua necessità di apparire ed affiorare all’evidenza della forma in maniera pulita. Festa è artista «cattolico, apostolico, romano», crede nell’iconografia figurativa, alla rappresentazione come momento di fondazione di uno stile, di un comportamento in questo caso temperato dal senso della storia, dal peso consapevole di immagini mitiche dell’arte che portano l’artista all’umiltà di una leggerezza espressiva. Segno di grande gravità morale, della necessità di una misura in fondo dialogante fuori dalla superbia di chi pensa di poter cancellare il mondo, l’universo iconografico dell’arte occidentale, col proprio segno.

Essere sedentario, poltrone europeo, significa appunto essere consapevole del peso della storia dell’arte che affranca dal peso personale l’artista, lo trattiene fermo sulla propria ossessione creativa e ne trasforma l’impeto gestuale in una calligrafia ma senza perdita. Non subire perdite conferma l’identità dell’artista che conserva il proprio impeto visionario, la tensione carica di fantasmi che aleggia sopra la sua dimora di poltrone, di chi gioca da fermo, anche con la memoria, la sua avventura creativa.
I ritratti presentati da Festa racchiudono dentro di sé la memoria stilistica di diverse identità, tutte rifondate a partire da una iconografia, dalla matrice di cultura nordica, per esempio quella di Munch, attraversata però da una luminosità mediterranea con fluente nell’oceano atlantico della stesura cromatica dell’astrattismo americano.

L’asimmetria dei tratti, l’apparizione fantasmatica della figura vengono accertate mediante un sistema formale che lenisce il primo strato di sofferenza della figura stessa. Una mano ferma s’adopera a stendere il colore come una sorta di campo nitido, paesaggi dell’anima precisati fuori da ogni indeterminazione, come se la visione acquistasse maggiore nitidezza nel suo affiorare alla forma, sotto lo sguardo dell’artista e dello spettatore. Il destino dell’artista è quello di diventare anch’egli spettatore della propria ossessione formalizzata. In questo Festa è artista europeo, artista di memoria culturale, di chi comprende il percorso di andata e ritorno della cultura e degli stili stessi. Egli, dunque, parte da un afflato visionario che affonda anche nel simbolismo e nella metafisica, ma poi attacca la sua mano di pittore agli esiti espressivi dell’area americana che corre da Barnett Neuman a Kelly, fatta di superfici levigate e compatte, di colori neutralizzati da ogni profondità psicologica ma densi di spiritualità.

«Tutto quello che appare o che vediamo / È solo un sogno dentro un sogno» (Edgar Allan Poe).

Festa in questo senso è un artista che non sembra lontano dall’asserzione di Calderon de la Barca che «la vita è un sueno». Nel nostro caso, nella nostra epoca, la vita di un artista è anche un lungo sogno costellato dalle ombre degli altri artisti che hanno già attraversato le epoche della storia dell’arte, lasciandoci tracce ineliminabili che necessariamente invadono anche il sogno esistenziale dell’artista contemporaneo. Perciò Festa è partecipe e spettatore nello stesso tempo delle proprie immagini, per questo egli è contemporaneamente «in mezzo al ruggito / D’una spiaggia tormentata di spuma», di cui parla Poe nella sua poesia «Un sogno dentro un sogno», e sul placido luogo dell’approdo formale che lo porta ad una calligrafia ferma e placata, in tal modo oggettiva.
Una sorta di nostalgia di ordine perduto aleggia anche in questa pittura, un’eco che corre dai manichini metafisici di Carrà e de Chirico e porta fino a Schlemmer. Ma poi l’artista sa che esiste un necessario disordine ed arriva ad altri esiti espressivi più neri e rannuvolati come apparizioni di sogni contrastati. «Che ne sarebbe di noi, povera gente, se non potessimo diffondere idee come quella di paese, amore, arte e religione con le quali coprire più volte quell’oscuro buco nero. Questa solitudine sconfinata ed eterna. Essendo soli» (Max Beckmann, Briefe im Kreige).

Una profonda pietas regge l’intero arco dell’opera di Tano Festa che con molto stoicismo si presta a confermare e nello stesso tempo a esorcizzare il suo «buco nero». Lo fa con gli strumenti che gli son propri, quelli della pittura adatta a fondare un punto visibile di concentrazione ed anche di sviamento apparente dall’ossessione primaria, quella della solitudine e della morte. La galleria dei suoi ritratti ha una perentoria affermazione di ferocia, ineludibile rappresentazione dell’orgoglio della storia che si sfalda sotto i colpi del tempo. Le immagini sono sempre condensate dentro un campo visivo che rassomiglia molto ai teatri della natura medievali dei film di Ingmar Bergman, dove esiste sempre una linea di orizzonte quale metafora visiva di un vivere finito, linea oltre la quale esiste soltanto la domanda e si afferma la scomparsa.

Tale onesta rappresentazione conferma la condizione di «cattiva coscienza» di Festa artista dadaista che sa di non poter mai con la sua opera porre riparo alla profondità del «buco nero», ma soltanto mettere in scena l’investigazione sulla morte attraverso l’atto del vivere dell’arte. Da qui la sua perenne scontentezza. Se il nome è un destino, come diceva Savinio, quello di Festa designa l’identità di un artista che crede all’arte come durata mentale, come una Festa inscenata mediante la forma per ostentare l’orgoglio della Finita Creazione.